Giorgio Pasquali

Arte allusiva

Dicono: Tu, quando spieghi i classici antichi, scrivendo e peggio a scuola, li soffochi con i confronti, dimentico che la fonte della poesia è sempre nell'anima del poeta e mai in libri che possa aver letto. La tua è fatica vana.

Rispondo: Io non cerco, io non ho mai cercato le fonti di una poesia. Certo, se Terenzio dichiara in un prologo di avere, nel ridurre una commedia di Menandro, introdotto in essa due personaggi di un'altra, io credo a lui più che a critici moderni, per grandi che siano; e, se trovo contraddizioni e sconvenienze evidenti nell'azione e nei caratteri, mi chiedo se esse non dipendano da mescolanza, da contaminazione, come dice lui. Ma questo è un caso particolarissimo: i riscontri mi servono in primo luogo a tutt'altro fine, a intendere vocaboli e locuzioni non soltanto nel loro significato razionale, ma nel loro valore affettivo e nel loro colore stilistico. La parola è come acqua di rivo che riunisce in sé i sapori della roccia dalla quale sgorga e dei terreni per i quali è passata: di questo ho già parlato. Ma i confronti mirano anche ad altro: in poesia culta, dotta io ricerco quelle che da qualche anno in qua non chiamo più reminiscenze ma allusioni, e volentieri direi evocazioni e in certi casi citazioni. Le reminiscenze possono essere inconsapevoli; le imitazioni, il poeta può desiderare che sfuggano al pubblico; le allusioni non producono l'effetto voluto se non su un lettore che si ricordi chiaramente del testo cui si riferiscono.

Questo procedimento è anche moderno. Quando Gabriele d'Annunzio nei Pastori scrive:

voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina,

io non sono sicuro che si ricordi del lieto grido dei Greci di Senofonte nello scoprire il mare, ma sono certissimo che esige che uno s'accorga come egli abbia incastonato in una poesia di timbro così differente un verso del primo canto del Purgatorio; in altre parole, come abbia saputo evocare dinanzi all'Adriatico selvaggio l'infinito mare australe che cinge l'isoletta del Purgatorio. Le Odi Barbare, nonostante la riserva espressa dall'epiteto, sono allusive nel metro, che deve trasportarci in un altro mondo, in quello oraziano, augusteo. Il Solon pascoliano può essere goduto appieno solo da chi abbia presenti i frammenti di Solone e quelli di Saffo. Ho citato le tre corone della poesia italiana della seconda metà dei secolo XIX, ma allusioni forse meno fitte di tal fatta si trovano anche nel Leopardi. La lirica del Cinquecento è per la parte maggiore un'infinita serie di ingegnose variazioni su un libro sacro che tutti avevano a memoria e tutti riconoscevano subito, direi per trasparenza, nei sonetti e nelle canzoni nuove, il Canzoniere del Petrarca. Dei centoni omerici e virgiliani della tarda antichità, esercizi scolastici inferiori, qui vogliamo tacere.

Né questo procedimento è particolare della letteratura, ma a me sembra, ed è ragionevole sia, comune a tutte le arti. Nei Maestri Cantori Hans Sachs, respingendo il pensiero di riammogliarsi in età avanzata, richiama l'esempio leggendario di Re Marco; e subito nell'orchestra appare il motivo di Re Marco, che risuscita in un ambiente sociale e musicale diverso il mondo del Tristano. Si è parlato sopra di variazione, che è appunto termine musicale; e innumerevoli sono infatti i pezzi, anche composti da musicisti grandi, che consistono di variazioni a un motivo dedotto da un classico, familiare a ogni ascoltatore. Quando un pittore su uno sfondo di gusto moderno dipinge una figura che arieggia i Veneti, o invece colloca in un paesaggio che ricorda i grandi impressionisti francesi un personaggio sentito modernamente, egli allude, allude uno scultore quando plasma un corpo in cui si sente la tradizione dell'arcaismo greco, e tuttavia insieme, per chi guardi bene, qualcosa di moderno; allude l'architetto che costruisce un edificio pubblico originale, ma in cui si deve sentire che chi l'ha disegnato ha veduto il Partenone o i Propilei. Si può anche dire evoca: l'allusione e il mezzo, l'evocazione il fine.

Nelle arti figurative salta forse ancor meglio agli occhi quella che è caratteristica dell'allusione e la distingue da ogni riproduzione o imitazione povera di spiriti: la presenza del moderno in contrasto con l'antico o dentro l'antico, e quindi una certa tensione che dà movimento all'opera senza spezzarne l'unità. Ma insomma è tale e quale anche in letteratura. I Pastori sono lontanissimi dal Purgatorio, le Odi Barbare dai Carmi oraziani. Il Solon è poesia moderna, anche se contesta tutta di motivi antichi: moderna l'indeterminatezza dei contorni, che non si ritrova così neppure nei Lesbii, pure molto più suggestivi che gli altri lirici greci; e moderna è la punta finale, che né Saffo né Solone avrebbero intesa, e che anzi può sembrar brutta a critici di gusto classico o classicistico.

La poesia augustea è altrettanto e più letteraria che la poesia moderna. Quel procedimento è in essa non soltanto diffuso ma, direi, essenziale. Anche se gli avvocati, medici, preti che per secoli hanno letto a scuola Virgilio e Orazio e l'hanno mandato a memoria, e fregiano di citazioni (ma sono sempre le stesse) i loro scritti e le loro dicerie, non se ne sono accorti; quei due poeti, per tacere dei minori, presuppongono che il lettore abbia in mente, anche in particolari minuti, Omero ed Esiodo, Apollonio e Arato e Callimaco e chissà quanti altri Alessandrini, dei Romani per lo meno Ennio e Lucrezio, ma anche propri contemporanei. Si obbietterà che un pubblico così preparato doveva necessariamente essere scarso? Anzitutto era necessariamente così: io sono convinto che le Georgiche non furono mai lette da un solo contadino, e del resto poco profitto ne avrebbero tratto gli agricoltori, perché l'intento didascalico, altrimenti che per Esiodo, è per Virgilio puro pretesto; tanto che determinazioni necessarie per l'uso pratico sono taciute ogniqualvolta avrebbero offuscato o appesantito la rappresentazione, quindi quasi sempre. E del resto bisogna riflettere dall'un canto che la gente d'allora era costretta a imparare molto a memoria, perché riscontrare è molto più disagevole in un rotolo di papiro che nei nostri libri stampati; dall'altro che l'educazione era molto più esclusivamente letteraria di ora che il giovane deve essere intinto (ed è esigenza legittima) di matematica e di scienze naturali. Allora e fino a non molto tempo fa, mancava anche un insegnamento sistematico di storia.

Una ventina di anni or sono, in un libro che avevo quasi del tutto dimenticato, ma che di questi giorni, non so come, mi si va riavvicinando, io dimostravo tra l'altro che Orazio nelle Odi, dove già il metro deve evocare il mondo dei lirici lesbii, premette spesso, quasi motto, un verso di Alceo o talvolta di altri poeti arcaici, seguitando poi per conto proprio a esprimere in forma antica pensieri e sentimenti moderni: Per me il fascino di quella lirica consiste proprio in questa tensione tra motto e metro e stile da una parte, e dall'altra il contenuto nuovo, che Orazio versa nell'otre vecchio senza che questo scoppi. Nell'otre vecchio? Ma anche lo stile e il verso è insieme vecchio e nuovo, greco antico e romano contemporaneo.

A indagini simili io incoraggio ora scolari miei per Virgilio. Le Bucoliche vogliono essere un Teocrito moderno, nel quale un carme messianico e una cosmogonia si frappongono tra le poesie pastorali, come componimenti non pastorali conteneva, secondo ogni verosimiglianza, la raccolta bucolica che Virgilio ebbe sott'occhio già allora mista e composita come quella o quelle che sono giunte a noi (ma egli non omette di rilevare l'una volta che la sua Musa s'innalza, l'altra, se pure implicitamente, che la cosmogonia è inserita in un carme agreste). Diverso è in Virgilio il paesaggio, diverso il sentimento della natura; e volutamente egli mescola ai pastori, fatti e persone della più recente storia romana, anche casi della propria vita. E già qui non ha scrupolo di riportare versi di poeti contemporanei: nell'egloga VIII il v. 88 perdita nec serae meminit decedere nocti riproduce tale e quale un verso di Vario. Macrobio ci conserva questa volta tutta la serie che esso chiudeva, e ci mostra che Virgilio, perché il complimento non sfuggisse, l'ha collocato, come Vario, in una similitudine: colà il termine di confronto è un cane da caccia, in Virgilio una giovenca. E della variazione ingegnosa il poeta nuovo si sarà compiaciuto.

Tali giuochi non si attenderebbero nel poema più solenne, l'Eneide, e il lettore comune non s'immagina che vi possano essere. Eppure abbondano. Mi contento di un esempio. Nel libro di più alte aspirazioni, nel VI, dove si descrivono le pene subite nell'oltretomba dai maggiori peccatori, si colloca al primo posto chi ha commesso colpa contro la patria per avidità di danaro (v. 621):

vendidit hic auro patriam dominumque potentem
imposuit, fixit leges pretio atque refixit.

Vario, come c'informa Macrobio, nel poema sulla morte di Cesare aveva scritto:

vendidit hic Latium populis agrosque Quiritum
eripuit, fixit leges pretio atque refixit.

Vario intendeva certo M. Antonio, e a lui avrà voluto Virgilio che pensasse il suo lettore, tranne che il riferimento era incomprensibile per chi non avesse avuto presente il luogo di Vario. Ma la determinazione auro, che manca in Vario, si trovava in un verso celebre di Accio: auro vendidit vitam viri. È forse sottigliezza soverchia del commentatore del VI libro, il Norden, supporre che Virgilio contaminasse il moderno coll'antico, Vario con Accio, tanto più che la frase è comune e la memoria non era sorretta da conformità metrica. Ma la citazione da Vario è evidente. E gli esempi si potrebbero moltiplicare: e con tutto ciò è certissimo che i più ci sfuggono. Noi notiamo solo le somiglianze già segnalate dagli antichi studiosi di Virgilio, particolarmente da Macrobio e dal cosiddetto Servio, i quali non potevano aver presente tutta la letteratura più antica, ora perduta.

Citazioni da Omero e Apollonio stanno su un piano diverso: insomma l'Eneide vuole essere un intero Omero ridotto da quarantotto a dodici libri con stile corrispondentemente più intenso: le allusioni agli Alessandrini mirano ad accrescere l'impressione di modernità. Ma Virgilio presuppone, abbiamo detto, come Omero, così Ennio. Lo stile dell'Eneide oscilla tra livelli diversissimi: almeno una volta a me pare di sentire che egli abbia voluto rifare la scrittura delle antiche cronache, ma questo è argomento che richiede un articolo speciale da pubblicarsi in una rivista filologica. Più spesso una forma o una giuntura arcaica, un'allitterazione di quelle care alla tradizione latina anteriore all'influsso greco ci mettono in guardia, ci fanno la spia che Virgilio ha qui presenti e vuole richiamare poeti latini antichi, specialmente Ennio. Confronti con altri autori che parimenti prendono Ennio a modello, particolarmente con Lucrezio, mutano talvolta il sospetto in certezza. Di Ennio sono conservati frammenti, per fortuna, non solo dagli antichi commentatori di Virgilio, e non solo per ragioni grammaticali. L'indagine è progredita da quando il Norden elaborò per essa metodi raffinati. Si è spesso opposto che Virgilio più Lucrezio non significa di necessità Ennio, perché può significare semplicemente Lucrezio, a cui Virgilio nelle Georgiche allude con predilezione. Ma gli antichi avevano la superstizione del genere letterario, e Virgilio avrà distinto se stesso epico da se stesso didascalico. E poi, per quanta tara si faccia a quelle conclusioni, io ho la impressione che rimangano da scoprire ancora molte più allusioni enniane di quelle determinate sino ad oggi con tutta sicurezza. E a ogni modo quelle indagini ci hanno aguzzato gli orecchi per tali variazioni nello stile dell'Eneide; ci hanno insegnato a leggerla più secondo le intenzioni dell'autore.

E rimane ancora da studiare che fine Virgilio si sia proposto dove cita versi propri, di opere precedenti o di libri precedenti della medesima opera; come essi nel contesto nuovo acquistino un valore evocativo.

Le Georgiche, anche in certe loro apparenti slegature (ma la concatenazione dei pensieri non mi sembra sia stata sinora indagata con la circospezione necessaria), vogliono rifare Esiodo, anche se il materiale bruto è attinto a trattatisti ellenistici, anche se il titolo sa di trattato e non di poema, nonostante i precedenti dei poemi di Nicandro, che sono tuttavia aridi e insieme leziosi trattati in esametri. Lo stile oscilla non meno che nell'Eneide; alcune parti rifanno Lucrezio anche in certo periodare complicato e strascicato, in certi pesanti nessi congiunzionali; ma a un tratto un colpo d'ala, e lo s'innalza nel cielo della poesia. Anche qui allusioni a poeti greci e a Ennio (se pure queste più rare) e citazioni di poeti contemporanei. Di quest'ultime basta fare vedere qui soltanto due. Nel II libro si descrive la vita angosciosa e spesso delittuosa di chi non si contenta del poco che basta all'agricoltore (v. 505):

Hic petit excidiis urbem miserosque penatis,
ut gemma bibat et Sarrano dormiat ostro.

Il solito Macrobio confronta un verso appartenente allo stesso Vario e allo stesso carme:

Incubet ut Tyriis atque ex solido bibat auro.

Il senso e la forma grammaticale sono gli stessi; ma Virgilio si è compiaciuto di render più peregrina l'elocuzione: Sarrano è l'antico nome romano dei Tirii, naturalmente anche della porpora tiria. Qui la coincidenza con Ennio Poenos Sarra oriundos non può esser fortuita, e Virgilio ha questa volta davvero contaminato un contemporaneo con un classico.

Da Vario, il poeta e l'amico del suo cuore, egli attingerà anche nel libro seguente. I Lapiti hanno insegnato ai guerrieri a cavalcare (v. 116):

equitem docuere sub armis
insultare solo et gressus glomerare superbos.

Vario, sempre in quel poemetto che deve essere apparso allora un capolavoro, aveva scritto di un domatore di cavalli:

insultare docet campis fingitque morando.

Un tratto delle Georgiche presenta condizioni singolarmente favorevoli per indagini di tal sorta: intendo dire l'ultima parte del primo libro, i prognostici del tempo. Questi riempivano la seconda metà del poema ellenistico di Arato, il quale acquistò subito popolarità e la mantenne sino almeno al VI secolo. Gareggiarono nel tradurlo poeti e dilettanti romani: Cicerone, Varrone Atacino, cesare Germanico; ne sono conservate versioni letterali in latino già barbarico. Virgilio lo riduce senza scrupoli di fedeltà e di praticità, ma infondendovi un lume di poesia, che scarseggia nell'originale, astruso e di complicata elocuzione. Virgilio aggruppa i segni, trascurando distinzioni che per l'agricoltore, il quale vuol prevedere il tempo, sarebbero indispensabili. Ma i fatti meteorologici da lui descritti acquistano colore ed evidenza, e gli animali, osservati certo direttamente, non sono più soltanto segni, sono creature quasi umane. Un contemporaneo più giovane di Catullo aveva tradotto o meglio ridotto Arato (non sappiamo se in un'opera speciale) in modo che piacque a Virgilio. E Virgilio, che fa le viste di non saper nulla di Cicerone, prende da Varrone un verso intero (v. 377):

aut arguta lacus circumvolitavit hirundo.

Il commento a Virgilio, conservandoci questa volta una serie di sette versi, ci permette di ficcar lo sguardo più in fondo nel modo tenuto da Virgilio. Arato aveva detto semplicemente uccelli di palude o marini. Varrone aveva per lo meno aggiunto un timido epiteto:

tum liceat pelagi volucres tardaeque paludis
cernere inexpletas studio cercare lavandi
et velut insolitum pennis infundere rorem.

Virgilio scrive:

Iam variae pelagi volucres;

dove la collocazione delle parole comuni nel verso e la scelta di pelagi mostrano chiaro il proposito di citare il suo predecessore. Ma tardaeque paludis a lui non basta: seguita:

et quae Asia circum
dulcibus in stagnis rimantur prata Caystri,

che è il ricordo di una famosa comparazione, nel II libro dell'Iliade, tra i guerrieri greci che si avanzano rumoreggiando, e oche o gru o cigni di lungo collo: dunque un'evocazione omerica in mezzo al mondo arateo.

Continua:

certatim largos umeris infundere rores,
nunc caput obiectare fretis, nunc currere in undas,
et studio incassum videas gestire lavandi.

Qui sono osservati momenti successivi nel contegno degli uccelli, che sono, lo ripeto, sentiti creature quasi umane, seppure più capricciose che non siano perfino gli uomini. Ma Virgilio ha proceduto oltre per un sentiero già segnato da Varrone: già et velat insolitum pennis infundere rorem è ampliamento dell'Atacino. Il greco non ha se non si bagnano insaziabilmente tuffandosi nelle onde

Dopo il verso riportato per intero Varrone scrive:

et bos suspiciens caelum - mirabile visu -
naribus aerium patulis decerpsit odorem.

Virgilio pochi versi prima (v. 375) aveva detto:

aut bucula caelum
suspiciens patulis captavit naribus auras.

Le patulae nares sono di Varrone, e mancano in Arato. Virgilio ancora una volta fa una riverenza a Varrone, ma elimina il mirabile visu, orribile zeppa. Anche l'odore aerio gli dev'esser dispiaciuto; aeriae sono per lui, nello stesso verso 375, le gru.

Varrone finisce per noi:

nec tenuis formica cavis non evehit ova.

Virgilio ha giudicato la notazione troppo scarsa per gl'insetti che egli studia e ama, e ha scritto:

saepius e tectis penetralibus extulit ova
angustum formica terens iter.

Penetralia doveva essere sentito dal lettore come umano, terere iter ricorda conscia attività umana. Il tenuis sembrò a lui zeppa, il nec non pesante. Mi si accuserà di andare a caccia di eleganze alessandrine nella poesia augustea? Al rimprovero sono avvezzo, e non lo prendo sul serio.

Il costume di alludere è in sé molto più antico dell'età ellenistica. L'Elettra di Euripide deride, un po' piattamente, una scena delle Coefore, autentica o no. Pindaro fa polemizzare i suoi dèi contro leggende certo espresse già letterariamente. Io sono sicuro che talvolta Omero stesso, per esempio nell'episodio di Meleagro, dà alla leggenda forma diversa da quella accettata sino allora. Anche questa è allusione, se pure non propriamente stilistica, se pure anteriore di molti secoli alla nascita della critica dello stile. L'allusione non è soltanto un giuoco di società in voga in consorterie di letterati. Ma poeti greci antichi tutt'altro che letterati, anche Eschilo, adoperarono già locuzioni omeriche con allusione a passi determinati: la lingua della poesia greca, che è per la parte maggiore non dedotta dall'uso contemporaneo ma da Omero, incitava a tale procedimento.

Bibliografia

Giorgio Pasquali
- Arte allusiva, L’Italia che scrive, 1942; raccolte in Stravaganze quarte e supreme, Sansoni, Firenze, 1951; e poi in Pagine stravaganti., vol. II, Sansoni, Firenze, 1968, pp. 275-282; dal quale si cita.