Pierre Bayle

C'è una ragione per la quale si deve ritenere che Bayle fosse sincero quando si definiva protestante, ed è la sua devozione verso l'autorità. Nello stesso tempo è questa stessa ragione che ci porta a ritenere che la sua religiosità fosse del tutto esteriore.

Sono protestante perché protesto
contro tutto ciò che si dice e si fa

Questa è una versione estesa dell'aneddoto riportato da Claude Gros de Boze nell'Eloge du cardinal de Polignac, letto davanti a l'Académie des Inscriptions nel 1742.

A laquelle des séctes qui règnent en Hollande Êtes-vous le plus attaché - gli domandò l'abate di Polignac - Je suis Protestant, - gli rispose Bayle - Mais ce mot est bien vague, - riprese Polignac - Étes-vous Luthérien? Calviniste? Anglican? - Non - replicò Bayle - Je suis Protestant, parce que je proteste contre tout ce qui se dit et ce qui se fait.

Sull'autenticità delle parole attribuite a Bayle ci sono dei dubbi.

Il delirio della ragione e la perversione del cuore

Copio due pagine spettacolari dal Bayle di Gianfranco Cantelli.

Poniamo che Bayle sia ateo. Perché si nasconde? Forse non si tratta più nell'Olanda alla fine del XVII secolo di salvare la propria pelle; ma né la vita è l'unico bene, né solo per rinunciare alla vita occorre coraggio: per Bayle poteva trattarsi di non compromettere del tutto la propria tranquillità, di conservare la propria rispettabilità, di dare a sé e agli altri l'opportunità di mantenere lui la loro amicizia e gli altri la sua, o forse si trattava semplicemente di timidezza che non gli permetteva di affrontare così apertamente il giudizio del pubblico su di un'opinione contro la quale da secoli gravava la più generale esecrazione. L'ateismo non era ancora una professione di fede socialmente accettata e lo stesso Bayle si era ben guardato nel Commentaire philosophique di estendere formalmente agli atei quella tolleranza che elargiva a piene mani agli eretici. Dobbiamo allora concludere che Bayle non ha la vocazione del martire: pronto alle più ardite avventure della mente non è disposto a pagare con il corpo il coraggio del proprio spirito. Ma anche in questa nuova immagine qualche cosa non ci soddisfa. L'idea di un Bayle prudente, disposto a ogni astuzia, a ogni compromesso, a ogni sotterfugio pur di preservare la propria comodità, non ci scandalizza e non la respingiamo; diciamo che essa è vera, ma non è sufficiente a rivelarci il gioco complesso condotto da Bayle. La necessità infatti di nascondersi, di giocare a rimpiattino con i devoti, con gli ortodossi e i razionalisti, con gli stessi suoi amici e corrispondenti, con il grosso del suo folto pubblico, si trasforma in Bayle in un esercizio di incomparabile abilità, in un vero virtuosismo da valutarsi di per se stesso. Il travestimento diviene la forma stessa del pensiero di Bayle, il suo modo di manifestarsi, di impostare e di condurre i problemi. Non è più un espediente, un mezzo imposto dai tempi e dall'ambiente: diviene la sostanza stessa della sua personalità di scrittore e di filosofo. Fra il volto di Bayle e la sua maschera non c'è più alcuna differenza. Anche in questo egli porta alla perfezione, rivelandocelo paradossalmente, uno dei più costanti atteggiamenti della sua epoca. In Bayle infatti il travestimento non è qualche cosa di estraneo che si aggiunga, coprendolo, al suo pensiero: al contrario esso nasce e si sviluppa con le sue stesse idee, con il loro modo di associarsi, di maturarsi, di esprimersi. Togliamo alla tesi « libertina e umanistica » della virtù degli atei la maschera, anzi le due maschere (opposte e contraddittorie) teologiche, quella « pelagiana » e quella « agostiniana », togliamo alla critica di ogni superstizione i fili che la legano alla teodicea del p. Malebranche, mettiamo da parte, nella dottrina della tolleranza religiosa, la trattazione scolastica della ignoranza invincibile e della coscienza erronea, distinguiamo nella esposizione del problema del male, per separarle ed escluderle l'una dall'altra, le varie parti, che di volta in volta Bayle assume, del pirronista, del manicheo, dello spinozista, del razionalista e del calvinista ortodosso, e poi facciamo un inventario di quello che rimane del « filosofo di Rotterdam »; ben poco, quasi nulla: un giornalista, un erudito a suo modo, quasi certamente un ateo, forse un credente o, più poveramente ancora, un precursore. I travestimenti di Bayle sono altrettanti arricchimenti del suo pensiero, sono le innumerevoli possibilità che la sua fantasia sempre in movimento scopre per manifestarsi e realizzarsi.

Bayle si contraddice: le sue contraddizioni sono numerose quanto i suoi travestimenti. Fra questi due aspetti del suo pensiero c'è una stretta, indissolubile connessione.

Le contraddizioni di Bayle sono enormi. Malebranchiano e giansenista nelle Pensées diverses, passa dal pelagianesimo radicale del Commentaire philosophique all'agostinismo più spinto del Dictionnaire e delle ultime opere della sua vita. Volerlo seguire su questo piano e prendere sul serio i principi che egli enuncia, cercando di scoprirne, nella sconcertante opposizione, l'intima coerenza teorica o morale, è un'impresa assurda e inutile, è come andar dietro a un Bayle che non è mai esistito. Non ci si accorge che a Bayle interessano solo le conseguenze e che i principi lo lasciano del tutto indifferente. Per questo Bayle permette che non solo le Pensées diverses, il Commentaire philosophique e il Dictionnaire sostengano tesi contraddittorie, ma che siano intimamente contrastanti gli articoli del Dictionnaire, le note di uno stesso articolo, le righe di una stessa nota. È una contraddizione sistematica, voluta, calcolata; un'ambiguità misurata nei suoi minimi effetti. Per amore di certe conseguenze egli è disposto a mutare non una, ma mille volte i suoi principi. Bayle vuole cambiare continuamente le carte del gioco; tuttavia anche come baro il suo comportamento non cessa di sorprenderci: vuole che tutti si accorgano che ha barato, che sta barando e che di lì a poco rinnoverà il suo gioco di destrezza; vuole solo assicurarsi l'impunità e il suo punto di onore è di non farsi scoprire in flagrante, riservandosi per il momento critico l'ultima carta dell'onestà e della rispettabilità. Le carte sono state cambiate sul tavolo, tutti se ne sono accorti, ma nessuno è riuscito a scoprire come. È un gioco di prestigio, nessuno ci crede, ma tutti rimangono ingannati.

Bayle è stato un grande cacciatore, forse il più grande, di contraddizioni altrui. Ne aveva scoperte tante nelle opere degli autori che leggeva, da ritenere la contraddizione ineliminabile dalla condizione di scrittore, di filosofo, di teologo.

Muoio da filosofo cristiano

Materia di discussione dei biografi di Bayle sono le ultime parole che gli vengono attribuite. Come nel caso dell'aneddoto del de Boze si tratta di una frase riportata: Muoio da filosofo cristiano, che, contrariamente alla precendente, assume particolare importanza sia per il contenuto che per le circostanze.

Durand fournit sans le savoir un précieux renseignement : Bayle a écrit à deux reprises à Terson. Il lui a adressé les joyeusetés tirées d'Horace et de Martial au moment où il était encore possible de plaisanter, et il lui a fait passer son ultime billet, si laconique : « Je meurs en philosophe chrétien, persuadé et pénétré des bontés et de la miséricorde de Dieu, et vous souhaite un bonheur parfait. » Quel sens prêter à ces derniers mots ? Partant de la compréhension qu'avaient pu en avoir Terson et Basnage — pour eux, le caractère squelettique de Cette confession était atterrant Elisabeth Labrousse en a proposé une première interprétation Sous la forme d'une question . « L'omission d'une allusion directe à la personne du Christ n'était sans doute pas le plus grave, car le théocentrisme calviniste pouvait à la rigueur s'accommoder, dans un texte aussi bref, de la référence indiquée par l'adjectif "chrétien", mais le qualificatif suffisait-il pour lever le scandale des mots "je meurs en philosophe" ? » Elle relevait que les ministres avaient dû être choqués de ne pas voir mentionnée l'Église au sein de Iaquelle Bayle avait vécu et voulait mourir ; que, sans être niée, l'immortalité de l'âme n'était que supposée par la miséricorde ; enfin et surtout, que « ce qui situe le plus décisivement le billet de Bayle en marge des grandes traditions chretiennes », dest qu'« il n'y est fait état d'aucune repentance, d'aucun sentiment du péché, hormis le rapport tenu qu'un tel état d'esprit pourrait avoir avec le caractère miséricordieux reconnu à la divinité ». Toute à sa volonté de souligner l'hétérodoxie du personnage, la grande spécialiste de Bayle a voulu clore sa biographie sur Cette note : elle insiste sur la brièvete du billet et en oppose les deux principaux termes, « Philosophe » et « chrétien Cette interprétation ne force-t-elle pas le trait ? Le caractere exceptionnel du message apparaît dès l'incipit, car Bayle donne toujours du « Monsieur » à ses plus anciens amis. La brièveté ne peut constituer ici un indice probant : s'il écrit quelques heures avant de mourir, Bayle n'a plus la force de développer quelque conviction que ce soit. Lorsque des testaments spirituels sont recueillis de la bouche des mourants, c'est en général les témoins de l'agonie qui tiennent la plume1754 . c'est par sa famille que, trente ans plus tôt, Bayle a su que sa mère s'était souvenue de lui et avait eu des pensées édifiantes au moment de mourir1755. Or Bayle est mort Seul. Avec Jean-Pierre Jossua, on peut aussi contester le caractère ténu de la référence au pardon divin : « La mention de la miséricorde répond bien davantage qu'Elisabeth Labrousse n'a voulu le dire à un sentiment de faiblesse et d'indignité personnelle C'est surtout l'expression « philosophe chrétien » qui doit retenir l'attention. Les deux termes ne sauraient être détachés l'un de l'autre ; l'expression ne veut pas dire que le philosophe prendrait le pas sur le chrétien. Le récit que fait Isaac Dumont de Bostaquet, noble huguenot contemporain de Bayle, de la mort de son parent, en apporte la démonstration : « Il nous parlait de la mort en philosophe chrétien, et marquait une joie extrême d'aller à Dieu qui le délivrait de Cette vie dans une grande jeunesse où il avait moins de comptes à rendre1757 » Du reste, Bayle lui-même a parlé de la mort de certains philosophes dont les sentiments étaient discutés, et il a recouru à Cette expression, de sorte qu'on trouve à ce propos dans son cpuvre quelques éclairages intéressants. [..] Antony McKenna a souligné à plusieurs reprises l'importance d'un passage de la correspondance dans lequel Bayle parle des philosophes chrétiens dune manière qui rompt avec l'idéal malebranchiste de l'harmonie entre foi et raison1767. Écrivant à Jean de Naudis, il affirme : « Les philosophes chrétiens qui parlent sincèrement disent tout net qu'ils sont chrétiens ou par la force de l'éducation, ou par la grâce de la foi que Dieu leur a donnée, mais ue la suite des raisonnements philosophiques et démonstratifs ne serait capable que e les rendre sceptiques à cet égard toute leur vie. » Contre Malebranche pour qui il existe une continuité entre raison divine et raison humaine1768 le philosophe chrétien ne peut, d'après Bayle, que constater le caractère inconci iable des assertions de la raison et des vérités de la foi.

de croire à la médecine et laissait la nature achever son œuvre, traçait d'une main défaillante, pour son ami M. de Terson, un billet ainsi concu : Je meurs en philosophe chrétien persuadé et pénétré de la miséricorde divine. Philosophe et chrétien! alliance bizarre, quand on se rappelle certains passages de Bayle. A l'approche de ce moment suprême, qu'il attendit avec calme, sans interrompre un instant ses travaux, cédait-il à un vague sentiment d'inquiélude, ou songeait-il encore, pour assurer le repos de sa cendre , à déjouer les anathèmes du consistoire de Rotterdam? Non. L'accuser de faiblesse ou d'hypocrisie serait une injustice . Après avoir passé sa vie à quereller la philosophie et la religion, il put se retrouver au bord de la tombe chrétien et philosophe, sans mentir à sa conscience. L'audace est souvenl dans l'esprit plutôt que dans le cœur : combien de gens hési.

je ne serois pas du goût d'un Auteur moderne, qui a déclaré qu'il ne s'y transportéroit pas; & peu s'en faut que dans les transports de mon indignation, à la vûë du triste état où vous avez réduit la qualité de Chrêtien, je ne suive l'exemple d'Averroës [*] qui s'écria, que mon ame soit avec celle des Philosophes vû que les Chrêtiens adorent ce qu'ils mangent; & moi j'ajoûte, vû qu'ils se mangent les uns les autres comme les loups les brébis.

Leibniz contra Bayle

[..] La polémique de Leibniz avec Bayle marque le retour du refoulé averroïste dans l'épistémè (post)cartésienne. On sait que, s'appuyant principalement, pour la partie médiévale, sur les Conimbricenses, Pomponazzi et Antoine Sirmond (1591-1643), Bayle met en relation explicite ce qu'il connaît d'Averroès (qu'il rapproche de Spinoza) et les doctrines des cartésiens affirmant que Dieu est «la cause efficiente première des actions du libre arbitre», et que Leibniz s'oppose à lui dans une longue section des Essais de théodicée portant sur la question de savoir si «notre âme forme (ou non) nos idées» (III, S 399). J'ai indiqué à plusieurs reprises que, en insérant la question du sujet de la pensée et de l'action dans l'univers théorique du «concours ordinaire de Dieu», Bayle accomplissait un geste d'envergure, aboutissant à la formulation de deux thèses à la réfutation desquelles Leibniz avait apporté une réponse d'ensemble d'où procédait, à mes yeux, la conception moderne du «sujet», que l'historiographie attribue au seul Descartes. Ces thèses sont :

TBI Nous ne sommes la cause efficiente ni de nos pensées ni de nos volitions ni de nos actions ;

TB2 L'homme n'est qu'un «sujet passif».

Il est inutile de souligner l'aspect médiéval, postaverroïste, de cette double allégation. [..]

L'esistenza del cerchio quadrato

In effetti, l'esistenza di un cerchio quadrato al di fuori di noi non parrebbe per nulla più impossibile dell'esistenza che similmente ha al di fuori di noi quel cerchio, di cui i geometri ci forniscono delle così belle dimostrazioni; voglio dire di un cerchio dalla cui circonferenza si possano tracciare nel centro altrettante linee rette quanti sono i punti nella circonferenza. Si capisce chiaramente che il centro, che non è che un punto, non può essere il soggetto comune dove terminano altrettante linee differenti quanti sono i punti nella circonferenza. ln una parola, consistendo l'oggetto della matematica in punti assolutamente indivisibili, in linee senza larghezza né profondità, in superfici senza profondità, è abbastanza evidente che non potrebbe esistere al di fuori della nostra immaginazione. Così, è metafisicamente più certo che Cicerone sia realmente esistito al di fuori dell'intelletto di un qualsiasi uomo, di quanto non sia certo che l'oggetto della matematica esista al di fuori del nostro intelletto.

Della schiavitù di citare

So del resto che la schiavitù di citare, alla quale mi sono assogettato [14], fa perdere molto tempo, e che la incredibile scarsità di libri che mi erano assolutamente necessari ha fatto arrestare la mia penna cento volte al giorno. Occorrerebbe per un'opera come questa la biblioteca più fornita che mai fosse esistita: al contrario non posseggo che pochissimi libri.

Non dubito che si possa criticare il metodo che ho seguito nel riportare i brani degli autori. Molti diranno che ho cercato di fare un grande libro con poca fatica. Cito spesso dei brani molto lunghi: talvolta ne rendo il senso nella nostra lingua e poi li riporto, sia in greco sia in latino. Non è questo, forse, moltiplicare gli esseri senza necessità? Era necessario copiare una lunga citazione di un autore moderno che si trova da tutti i librai? Era necessario citare Amyot nel suo antico gallico? Per rispondere esaustivamente a queste critiche credo che si debba ammettere che le loro obiezioni non sono speciose. Riconosco loro che sono plausibili e che mi hanno tenuto incerto per molto tempo; ma infine ragioni ancor più speciose mi hanno spinto alla scelta che ho operato. Ho ritenuto che un'opera come questa debba fungere da biblioteca per un gran numero di persone. [..] Posso a ragione sostenere che in mille occasioni ci si mostra sconsiderati se si crede a ciò che si attribuisce agli autori, quando non si riportano le loro stesse parole. Ecco perché non ho voluto far stancare il lettore; e per impedire che questi sospettasse o della reticenza o della menzogna in quanto riporto, ho fatto parlare ciascun testimone nella sua lingua naturale; e in luogo di imitare il Castelvetro che finiva le sue citazioni con un et caetera, addirittura prima di avere ricopiato il punto necessario, io ho talvolta allungato questi passi vuoi all'inizio, vuoi alla fine, in modo che si capisse meglio ciò di cui si stava parlando, o che si venisse incidentalmente a conoscere qualche altra cosa. So bene che questo comportamento risulterebbe assurdo in un piccolo trattato di morale, in un lavoro di eloquenza, o in una narrazione storica; ma non lo è in un'opera compilativa come questa, dove ci si propone di narrare dei fatti e poi di commentarli.

L'errore ha gli stessi diritti della verità

Il principio primo su cui Bayle fonda tutta la sua dottrina della tolleranza è il concetto di coscienza erronea che si può brevemente riassumere nella formula, che il falso, quando si presenta alla coscienza sotto le sembianze della verità, gode degli stessi diritti della verità, e che la coscienza erronea, nei confronti di ciò che essa considera vero, ha gli stessi doveri della coscienza illuminata nei confronti della verità assoluta.

È questo un principio che viene per la prima volta chiaramente espresso da Bayle nella IX lettera delle Nouvelles lettres critiques, pubblicate verso l'inizio del 1685. In questa lettera Bayle stabilisce una precisa differenza fra quella che egli chiama una considerazione formale e astratta della verità, e quella che egli invece chiama una considerazione concreta della verità. Nel primo caso la verità e l'errore si distinguono nettamente e il loro criterio di distinzione è dato dall'evidenza con la quale si impongono a tutte le coscienze; nel secondo invece, la distinzione non risulta cosi netta, ma il vero e il falso possono, nella coscienza di ciascuno, scambiarsi reciprocamente le parti e presentarsi con pari evidenza o, a seconda dei casi, con pari incertezza. In altri termini: Ciò che è vero in sé stesso non lo è nei confronti di certe persone, come ciò che è falso in se stesso non è tale per numerose altre persone [14]. Questo principio si rivela valido soprattutto per le verità di religione.

I calvinisti, per esempio, credono che il corpo di Gesù Cristo non sia affatto presente nel sacramento della Cena, e d'altra parte, nella loro più intima coscienza, sono convinti che non intercorra alcuna differenza fra questa verità come appare loro e questa verità come è in se stessa. I cattolici romani hanno su questo particolare punto dogmatico un'opinione del tutto contraria a quella dei calvinisti, tuttavia quanto alla forma il loro ragionamento si presenta identico a quello dei loro avversari: anche essi, cioè, sono fermamente convinti che la verità quale si presenta alla loro coscienza corrisponde esattamente alla verità assoluta [15]. Si potrebbero moltiplicare all'infinito esempi di questo genere. Il senso logico e astratto non c'è proposizione più chiara ed evidente di quella secondo la quale non è possibile estendere i diritti della verità all'errore; ma sul piano concreto, in relazione alla coscienza che ciascun singolo uomo ha della verità, nessuna proposizione risulta più inutile e maggiormente priva di significato di questa. Se infatti nella coscienza di una persona la verità ha preso il posto dell'errore e l'errore quello della verità, è evidente che in questo caso è lecito attribuire all'uno i diritti che spettavano all'altra e viceversa. Dio stesso ci ha obbligato ad amare e a rispettare la verità, purché - si intende - la si conosca. Una verità che ci rimane sconosciuta non ha per noi alcun diritto da far valere, mentre dobbiamo rispettare e attribuire i dovuti onori all'errore che ci si presenta sotto l'apparenza della verità [16], L'errore travestito in verità ci obbliga alle stesse cose cui ci obbligherebbe la verità se la conoscessimo [17].

C'est une chose étrange (a-t-on dit) que l'on ait osé publier, que la vérité & le mensonge n'ont point plus de priviléges l'un que l'autre. On ne sauroit lire cela sans horreur. Quoi, le mensonge a-t-il quelque droit de se répandre? N'est-ce pas à la seule vérité que l'Auteur de toutes chores a donné le droit d'entrer dans le cœur, & dans l'esprit? Cela étant, il ne s'enfuit pas que si l'on peut des loix pour l'extirpation de l'erreur, on en puisse faire pour l'extirpation de la veritable doctrine.

Voilà, je crois, la troisieme fois que j'ai à faire à des Censeurs qui me menent dans le païs des Idées , & qui voudroient que je parlasse comme on parleroit dans l'Utopie de Thomas Morus, ou dans la République de Platon. Il faut donc que je repéte encore ici, que je n'ai jamais aspiré à cette exactitude de langage, & que j'ai accommodé mon stile à l'état corrompu du monde où parmi cent opinions différentes, on ne trouve point de gens qui ne croient avoir raison.

J'avoue avec ces Messieurs, que si on considere la vérité & le mensonge dans une vûë tout-à-fait abstraite, il n'y a que la vérité qui ait droit de nous demander audience, & de se faire obéir.

Mais c'eft toute autre chofe, quand on descend de ces considérations abstraites & de ces précisions de Logique où l'on voit la vérité & l'erreur absolument & en elles mêmes c'est dis je toute autre chose quand on descend de ces vûës générales à la considération particuliere de la vérité & de l'erreur par raport à chaque personne. Presque toûjours c'est passer du blanc au noir la fausseté absoluë se change en vérité respective comme la fausseté respective se fait de la vérité absoluë c'est à dire car je sens bien que tout le monde n'est pas obligé d'entendre des termes empruntez de la barbarie de l'Ecole que ce qui est vrai en lui même ne l'est pas à l'égard de certaines gens comme ce qui est faux en lui même ne l'est pas pour plusieurs personnes. L'expérience ne nous le fait que trop voir Nous croïons que le Corps de Jésus Christ n'est point au Sacrement de la Cêne d'autres croïent qu il y est Nous croïons qu'à notre égard il n'y a point de différence entre la vérité considérée en elle même & la vérité telle qu'elle nous paroît. Ceux de l'Eglise Romaine pareillement ne croïent pas qu il y ait de la différence entre la vérité absoluë & la vérité qu'ils croïent voir. Il faut nécessairement ou qu ils se trompent ou que nous nous trompions. Il faut nécessairement que les idées de Dieu qui sont la regle de la vérité absoluë soient contraires ou à ce que nous croïons ou à ce qu ils croïent & par conséquent il ya une erreur absoluë qui est une vérité respective ou pour eux ou pour nous & il y a une vérité absoluë qui est une erreur respective ou pour eux ou pour nous. Mais je retombe dans des expressions scholastiques peu agréables [..]

Tolleranza come conseguenza della libertà di coscienza

Il 15 ottobre 1685, Louis XIV revoca a Fontainebleau l'Editto di Nantes. Nel marzo 1686 compare un violento libello Ce que c'est que la France toute catholique: sous le règne de Louis le Grand, poi nell'ottobre del 1686 Bayle publica le prime due parti del Commentaire philosophique sur ces paroles de Jésus-Christ: «Contrains-les d'entrer». La terza parte nella quale refuta l'apologia che sant'Agostino ha fatto della conversione per costrizione [Luca XIV, 23] apparve un anno più tardi.

...

Bayle archetipo dell'intellettuale

[Traduzione mia] L'intellettuale appare come un autore la cui influenza sorpassa il campo particolare di competenza e si dimostra capace d'interrogare la società sui valori nei quali si riconosce. A questo riguardo, Bayle, in quanto instituteur de la République des lettres può essere condiderato come una [o la] figura archetipica dell'intellettuale.

MP

Bibliografia

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