Edoardo Sanguineti

Per una teoria della citazione

Quando ho accolto l'invito che mi è stato così rivolto a parlare di questo tema ero pieno di buoni propositi: volevo arrivare con una relazione scritta e invece arrivo con una serie di appunti, il che renderà la cosa più incondita e perturbata di quanto forse sarebbe riuscita se avessi potuto prepararmi con un po' di calma. Cercherò di toccare comunque tre punti, che sono più che altro un tentativo di dare un minimo di coerenza ad alcune disordinate informazioni. Ma in sostanza quello che voglio proporre è una cosa che per un verso è probabilmente assumibile come boutade paradossale e per un altro verso come una ovvietà eccessiva: scegliete voi. La mia tesi di partenza è questa: che tutto è citazione. Questo principio, data la prospettiva professionale in cui mi colloco, vale particolarmente nell'ambito della letteratura, ma in un convegno come questo, felicemente allargato anche ad altre modalità comunicative, penso abbia modo di dilatarsi e di consolidarsi. La mia è una pretesa quasi di ordine antropologico: quando dico che tutto è citazione voglio dire che noi viviamo citando.

Ho fin qui pronunciato un certo numero di parole, non so nemmeno quante; non una di queste è parola da me inventata. Non ho fatto che mettere insieme un testo, e mi richiamo naturalmente all'ovvio etimo di Quintiliano e dintorni per cui l'immagine della tessitura illumina ogni costruzione testuale; un testo non è che un insieme, più o meno ben strutturato naturalmente, di citazioni. Ma citazioni di cosa? La cosa pare buffa Perché è circolare, ma vuole anche essere un po' buffa: io cito dal vocabolario, ma naturalmente il vocabolario non è che l'immagine materializzata di tutto un insieme di segni (uso questo termine in mancanza di meglio ma si potrebbe studiare forse un vocabolo più opportuno) che sono a mia disposizione e che io collego. Come prima avvertenza — delle molte che ce ne sarebbero ne farò solo alcune non vorrei che si confondesse la questione pensando che il problema della tessitura del linguaggio sia un problema lessicografico. Questo è solo il caso più exidente, più macroscopico. Ho pronunciato un certo numero di parole, ma nessuna di queste è mia e non ho fatto che cucire insieme delle citazioni; ma naturalmente le ho modellate secondo una più o meno barcollante o accoglibile sintassi, che è un insieme già di forme prefigurate, offerte continuamente. Anche la più breve e banale proposizione "buon giorno, come state" è un'ovvia citazione, è un testo. Ma chi sto citando? Una tale quantità di autori che evidentemente non potrei mai raggiungere, perché è pressappoco l'intera comunità entro la quale vivo. Il vocabolario a questo punto è allora la pura immagine, la più evidente in superficie, quella che anche per comodità ci serve quando cerchiamo di ricostruire proprio delle citazioni. Adesso esistono strumenti più raffinati, ma fino a un po' di tempo fa per trovare ad esempio un verso dell'Ariosto si andava a cercare nel vocabolario della Crusca il vocabolo meno ovvio, e si trovava una serie di versi dove si riconosceva talvolta quello cercato.

Ma bisogna rifarsi a tutti i livelli dell'organizzazione linguistica, a tutti i livelli dell'organizzazione del tessuto del testo, orale e scritto; e partirei proprio dall'oralità, che m'interessa maggiormente perché, come dicevo, ho in mente una visione prima ancora antropologica che letteraria o culturale. Se ci si rapporta alla storia, alla società, all'autoaddomesticarsi dell'uomo e al suo autocodificarsi, allora il riferimento al vocabolario è un riferimento provvisorio rispetto a quello che potremmo chiamare un ipercodice, cioè un sistema di codificazione generale che offre dei modelli entro i quali io mi muovo e non posso non muovermi. Mi si potrebbe obbiettare, tornando di nuovo al lessico, opponendomi tutti i neologismi, il caos di tutte le parole che continuamente si fabbricano, ma non sono altro che ipercompresi nell'ipercodice, che fra le tante altre cose contempla proprio la coniazione, l'estensione, l'adattamento, la metaforizzazione e demetaforizzazione. Il codice evidentemente prevede la propria estensione. Se lo prendiamo, per usare il caso più banale, come un insieme lessicale, io dunque cito, mettendole in atto, anche le norme che permettono al codice di muoversi. Infatti se dico ipercodice da un lato voglio sì indicare qualcosa che appartiene a una sorta di della cultura, ma con un accento fortissimo sopra il momento pratico, storico, concreto di una realtà del tessuto. Quando dico antropologico voglio dire che il fatto che io sia qui seduto a parlare a un'ora convenuta in un luogo istituzionale come è un'aula universitaria e abbia un certo contegno, è una somma di citazioni. Io sto citando non solo nelle parole che dico, ma nelle espressioni, nel delle mani, nel fatto che prendo una certa posizione del corpo. Insomma noi viviamo, seguendoli con diverso scrupolo, secondo certi modelli che si incrociano, si modificano, che prevedono iniziative ulteriori di sviluppo. A paragone di un fenomeno di questo genere, di onnipervasiva citazionalità dell'esistere, la citazione letteraria è un caso minimale, che ha interesse ai miei occhi proprio perché rientra in questo quadro infinitamente più largo.

Vorrei fare un esempio più solenne di quello della frase banale, del "buongiorno come va": prendete una messa, cerimonia piuttosto rilevante nell'esperienza umana; anche chi non sia credente sa bene che cosa significhi nella storia occidentale da un paio di millenni a questa parte. È una cerimonia iperritualizzata e, come sono naturalmente tutti i riti, è tutta una citazione, anzi è tutto un sistema di citazioni, perché i testi, anche considerando solo questo aspetto, variano all'interno di un codice molto regolato perché la lettura evangelica muta secondo i giorni, ecc. Ma quello che mi interessa è la citazionalità che comprende norme che vanno dal colore della veste al sistema gestuale assolutamente prescritto, ai luoghi deputati con relative tolleranze di spostamenti. Una volta c'erano orari prescritti (una messa alle sette del pomeriggio non si sarebbe fatta), e codici linguistici molto ristretti, che oggi sono stati allargati, visto che si può, anzi si deve, non dire la messa in latino. È questo che ho in mente, e quello della ritualizzazione è un caso estremo, quando parlo di questa sorta di ipercodice che avvolge la nostra esistenza. Per fare un esempio di citazione ricorrerò, questa volta letterariamente, a un caso molto noto e spesso utilizzato ad altri fini, quello esibito da Borges su Menard come autore del Don Chisciotte. Menard, come sapete dalla bellissima parabola, cita, copiando esattamente, il Don Chisciotte. Si tratta di una lunga citazione: l'uomo sognava di scrivere tutto il Don Chisciotte, ma comincia con certi episodi. Questo non è che una paradossale e divertente messa in evidenza di quello che cercavo di dire in altro modo: il fatto che si citi un solo testo, lo si riproduca tale e quale non mutando nulla, come osserva Borges, ne modifica completamente il significato. Insomma non ci si immerge mai per due volte nel medesimo testo, come non ci sono due messe uguali l'una all'altra. La citazione più fedele e scrupolosa, secondo l'uso corrente della parola citazione, per accurata, ossessiva che voglia essere non è mai pura ripetizione, e varierà infinitamente. Per anticipare subito il riferimento a Benjamin, al quale ricorrerò poi ancora in seguito, anche la riproducibilità tecnica fa sì che non si riproduca mai tecnicamente due volte la medesima cosa. Non a caso Cage componeva il silenzio come testo musicale per un dato numero di minuti e secondi, perché quel silenzio non è mai un silenzio assoluto e se il pezzo viene riregistrato dà dei risultati totalmente diversi. Inoltre in sede di ascolto gli effetti saranno altri.

Questa era la prima e per così dire la principale cosa che volevo dire; adesso passerò al secondo punto, entrando più da vicino in quella che comunemente si intende per citazione, ma avvertendo di collocarla entro il quadro che ho detto prima, perché per me quello che è importante è quanto ho detto fin qui. Adesso resta qualche rimasuglio marginale e questa parte si risolve in indicazioni bibliografiche, le più ovvie del mondo, ma secondo me utili per essere ripensate in un'ottica un po' meno consumata. Il primo testo a cui vorrei rimandare è celeberrimo, anche se non mi pare lo si citi con quella frequenza che merita. Si cita tutto, naturalmente, a pie' di pagina, e più citiamo meglio è: le bibliografie non sono che un sistema di citazioni e vengono di solito valutate a peso, giustamente anche, visto che dovrebbero testimoniare le esperienze culturali assorbite e dunque l'ipercodificazione di una certa modalità di muoversi nell'orizzonte culturale. Però altro è citare e altro è servirsi effettualmente della cosa citata. Comincerei quindi con un testo che nel complesso direi è contro la citazione come correntemente s'intende: Pasquali, Arte allusiva del 1942, in Stravaganze quarte e supreme, che esce poi come raccolta nel 1951. Se io dovessi raccomandare a degli studenti diciamo dieci testi da cui partire per la loro formazione, probabilmente, come nella mia ormai conclusa carriera di docente mi avveniva di suggerire, uno dei dieci sarebbe certamente questo, anche perché, come sapete, in dieci pagine Pasquali dice tutto quello che ha da dire, anzi lo dice tutto in tre pagine perché il resto sono esempi, concreti e rilevantissimi, che non sono altro che l'applicazione di alcune idee. Pasquali si giustifica del fatto di servirsi largamente di riscontri, che è dire poi di citazioni: quando commenta dei testi cita per rendere evidenti alcune citazioni contenute nei testi, ma parla poi in generale di riscontri per intendere vocaboli e locuzioni non soltanto nel loro significato razionale, ma nel loro valore affettivo e nel loro colore stilistico. Il problema non è soltanto dire che questo è quello e raccordare due testi, ma è insieme dire che questo non è, o non è più, quello. Parla di poesia come fenomeno di cultura e trova quelle che lui non chiama più reminiscenze, ma allusioni e direi evocazioni e in certi casi citazioni. Questa modalità di classificazione mi pare interessante: citazione è una parola da usare con prudenza e dobbiamo natutalmente intenderci sui vocaboli, senza fare una di metafisica del lessico. Le reminiscenze possono essere inconsapevoli, le imitazioni il poeta può desiderare che sfuggano al pubblico, ma le allusioni non producono l'effetto voluto se non su un lettore che si ricordi chiararnente del testo a cui si riferiscono. In sostanza, per quel che ne so io, è Pasquali che inventa la categoria di arte allusiva, non soltanto per il vocabolo con cui la battezza, ma proprio per la concettualità del fenomeno. Se io dico una cosa e questa cosa vuole essere riconosciuta non è una reminiscenza, non è una imitazione, è uno strizzar l'occhio al lettore, gravemente o ironicamente. Il caso più importante di citazione largamente intesa e di allusione è la parodia: la parodia è capitale perché non posso capire quello che viene detto se non capisco l'allusione. Se si perde l'allusione è ancora parodia? Si potrebbe discuterne all'infinito. L'essempio che fa Pasquali, come è noto, è quello dei Pastori di D'Annunzio: O voce di colui che primamente / conosce il tremolar della marina! Qui Pasquali distingue: può darsi, però non ne è sicuro, che D'Annunzio abbia in mente il grido dei greci di Senofonte che arrivano al mare; può essere ma può anche non essere. Quello che è sicuro è che ha in mente Dante. Questo è il suo modo di interpretare; su quale sia l'intenzione si potrebbe discutere. D'Annunzio esige che ci si accorga di come egli abbia incastonato in una poesia di timbro così differente un verso del primo canto del Purgatorio, di come, in altre parole, abbia saputo evocare dinanzi all'Adriatico selvaggio l'infinito mare australe che cinge l'isoletta del Purgatorio. Sul perché si potrebbe aprire un lungo discorso, che naturalmente non faccio. Pasquali suggerisce comunque che io non posso capire questa poesia se non riconosco Dante. Tutto il problema dell'arte allusiva è proprio in questa definizione di un pubblico che può accedere o no a un testo a seconda della sua capacità di riconoscere l'allusione.

Lasciatemi ritornare sul fatto che tutto è citazione: qui si dà per scontato che grosso modo intesa la lingua italiana, quella che pur malamente io parlo e voi eccellentemente ascoltate e decifrate. Il presupposto è cioè che noi abbiamo in comune un sistema di citazioni, per cui quando dico sistema di citazioni grosso modo intendiamo la stessa cosa. Poi se cominciassimo a discutere le cose potrebbero complicarsi. Ma è garantita comunque una primaria comunicazione. Anche se Pasquali non avesse addotto questi esempi, si presuppone che se io avessi letto quei due versi, tutti in quest'aula avreste riconosciuto I pastori di D'Annunzio, e all'interno la citazione di Dante. Questo è dato Per scontato, e questo costituisce un pubblico. Il pubblico a cui si rivolgeva D'Annunzio era così definito. Ogni pubblico è definito dal suo sistema citazionale. Sopra c'è l'ipercodice, che abbraccia tutti i codici dell'universo, per cui se cito una frase in turco - che non so, state tranquilli - può darsi che qualcuno di voi Per accidente la riconosca, e allora nascerebbe una complicità magari carica di conseguenze. Ma tutti noi di queste intese: siccome si vive di citazioni tutti condividiamo l'ultima locuzione che ormai è diventata citazionale. Nel Grande fratello, come avrete visto, è entrata la locuzione "a pelle", che credo non esistesse o quasi nella lingua italiana o per lo meno non vi ero mai inciampato consapevolmente e memorabilmente. Quando si apre la seconda ondata del Grande fratello bisogna subito mandar via qualcuno e tutti si dichiarano molto imbarazzati perché si sono appena visti e non sanno come fare. Dunque nasce tutto un sistema di valutazioni basato appunto su codificazioni esistenziali molto convenute; quello è simpatico, antipatico, gentile, quello è un rivale pericoloso. Il primo che va al confessionale e deve dire chi deve procedere alla nomination dice: mah, è un po' difficile andare a pelle. La locuzione a pelle, non so, magari è nel primo dizionario che troviamo all'angolo di questo edificio, ma per me è nuova, è una coniazione Dopo il codice lanciato dal Grande fratello sono convinto che ormai tutti coloro che l'hanno ascoltata la riconoscono. Non più di due giorni fa ho sentito qualcuno che parlando in televisione li ripeteva. La fonte in questo caso è sicura: c'è una complicità di codice, e chi ha detto "a pelle" lo ha fatto perché aveva sentito Il grande fratello. Poniamo - siamo in piena filologia esistenziale - che la locuzione esistesse diversamente, già autonoma e codificata, si trovasse nei dizionari e si potessero citare autorevoli autori che dicono "a pelle" per dire "alla prima impressione"; è sicuro però che quel tale che ha detto "a pelle" in non so quale trasmissione aveva visto Il grande fratello e subito si era impadronito, o eventualmente reimpadronito, di questa locuzione.

Pasquali parte con le tre corone, come si diceva una volta, di fine ottocento: fa osservare che se si legge il Solon di Pascoli evidentemente bisogna conoscere le citazioni di Solone e di Saffo che vengono incorporate dal Pascoli bizantino. Ma l'esempio clamoroso è la lirica del Cinquecento, che per la parte maggior è un'infinita serie di ingegnose variazioni su un libro sacro che tutti avevano a memoria e tutti riconoscevano subito, direi per trasparenza, nei sonetti e nelle canzoni nuove: il Canzoniere del Petrarca. E Pasquali accenna appena a tutti i centoni, cioè a tutti i sistemi di costruzioni di testi per citazioni: se io faccio un centone e se ne sono fatti a tonnellate, evidentemente presuppongo un pubblico che conosca Virgilio a memoria. Va bene le acrobazie: un lettore può anche dire: mi fido; son convinto che tutto quello che hai messo lì insieme son tutti lacerti virgiliani. Credo però che Pasquali metta l'accento sul problema giusto, che è proprio il problema antropologico dell'uso letterario; per questo insisto sulla complicità che si instaura fra autore e lettore. Non si parla mai a tutti, ma si parla a coloro che possono intendere il codice in cui ci si muove. Questo codice può essere estremamente ristretto, ed è in ogni caso un canone. Se io adesso vi citassi due righe di Pitigrilli scommetto che, salvo un eroe che sta facendo una tesi di laurea su Pitigrilli, la cosa passerebbe assolutamente inosservata; anzi non escludo affatto di aver citato delle frasi di Pitigrilli nel mio discorso, senza aver letto, lo confesso, Pitigrilli, perché appartenevano a un codice largamente condiviso, così come quando dico "buongiorno" sto citando ma non ci penso, non ci rifletto, non mi accorgo nemmeno che sto pronunciando una parola d'augurio. Nessuno pensa che dicendo "buongiorno" dice "ti auguro che la giornata di oggi sia per te buona, propizia". E quando dico "come va non sto domandando, come qualche volta s'intende, "come va la salute"; invece "come va" è una frase priva di senso, non un'inchiesta medica. Se vado invece a una visita medica e il medico mi dice "come va" allora è giusto rispondere "questa settimana è andata così, mi son tornati quei dolori che avevo".

Secondo testo raccomandabile: Curtius, Europäische Literatur, che non è un sistema di citazioni ma un sistema di codici: i topoi sono un sistema di citazioni e se invoco la musa posso non accorgermi di stare facendo una citazione ma sto invece citando uno schema, un modello, e si può arrivare a distinzioni sottilissime. Rimasi impressionato la prima volta che aprii il Curtius, edito nel 1948 - c'è anche un ordine cronologico: prima Pasquali del 1942, del 1948 il Curtius, a parte anticipazioni varie - dal punto in cui scopre il comico da cucina. Quando scopre che nel medioevo dire cuoco o cucina fa ridere scopre un codice che altrimenti sarebbe perduto. È come se io racconto una barzelletta e dico "C'è un carabiniere": tutti sorridono perché esiste un codice che dice che i carabinieri fanno ridere nelle barzellette. Dio mi guardi naturalmente dall'offendere il nobile corpo dei carabinieri, ma succede come con le suocere, o con i matti: appena sentiamo dire "c'è un matto che..." , oppure "un tale incontra la suocera un mattino" subito noi ridiamo, perché abbiamo capito che siamo sul terreno della facezia. Il comico da cucina magari non l'avrà scoperto Curtius, e darà tutta la bibliografia del caso, ma ricordo che rimasi impressionato perché di solito noi non ridiamo per il fatto che si parli di cucina; ci si aspetta una buona ricetta, una raccomandazione di un ristorante per bene; queste sono le cose che vengono in mente. Invece nel medioevo e già nel mondo latino ghignavano subito, avevano una reazione del tutto diversa. Se io non lo so, posso essere lì serissimo a vedere entrare in scena un cuoco e solo dopo magari capisco che ci sarà sotto qualche altra cosa, perché bene o male i codici poi circolano. Questo fa sì che per esempio è evidente che se io scrivo un endecasillabo sto citando, perché questa forma non è una foma naturale e io voglio che si riconosca che è un endecasillabo, se no non mi verrebbe in mente di farlo. È vero che la lingua italiana è piena di endecasillabi. C'è un articolo credo di Angioletti sulla "Fiera letteraria" in non so quale anno, e forse non era nemmeno di Angioletti, perché la citazione è un'arte delicata giustappunto, che enumerava una quantità di endecasillabi involontari contenuti in scritte, ecc. Insomma ci imbattiamo in tanti endecasillabi perché tutta una acculturazione di codici fa si che l'endecasillabo diventi quasi il verso naturale della lingua italiana; allora uno scrive non vietato sputare sul pavimento perché quello non è un endecasillabo, ma qualcosa del genere, e se ce la avesse fatta avrebbe messo anche quello in endecasillabo, e viene fuori il verso, non per amore dell'arte ma perché gli ronza nell'orecchio. È come il povero Ovidio che come apriva bocca, si lamentava, era subito verso: una specie di alienazione professionale. Figuriamoci se uno scrive un sonetto, ma anche un articolo di giornale, per parlare di scritti non particolarmente complicati. Solo chi patisce un lutto sa che parte fondamentale dell'elaborazione del lutto è l'elaborazione dell'annuncio sui giornali, e così un telegramma per nozze è più duro a comporsi della Divina Commedia perché c'è tutto un codice che impone dei criteri, ma non si può nuotare nel codice banalmente per poco che si voglia apparire fini, e dunque occorre escogitare qualcosa di un po' diverso. Citerò un aneddoto perché i fatti valgono sempre più che i discorsi: quando morì Stravinskij Berio mandò - me lo raccontò la moglie - un telegramma che diceva Grazie, firmato Luciano Berio. Fu considerata una cosa vergognosa e non capirono che era il massimo dell'emozione, della commozione. Era il ringraziamento per tutta la grande musica che Stravinskij aveva portato al mondo e che Berio aveva considerato punto di riferimento fondamentale per le proprie operazioni. Ma un musicista, lo ricordava proprio Pasquali fra l'altro, sa che scrivere un quartetto è già citare. Naturalmente i codici cominciano, questo è evidente, e si può cercare quando è nato il primo quartetto quando è nata la prima sinfonia che si chiamasse sinfonia. Ma se io dipingo un'annunciazione - oggi se ne fanno pochine, ma capita, anche se appartengono a un genere sottoartistico - nel complesso sto citando. Non sono un esperto di storia ma non ho mai visto in un'annunciazione un angelo che non stesse a sinistra e una madonna a destra, almeno statisticamente parlando; poi se per caso le cose non stanno così la questione è piena di interesse: io sto citando e lavoro sulla citazione, quindi strizzo l'occhio allo spettatore, e infatti ce ne sono che non corrispondono agli schemi. Ieri, appena arrivato qui a Firenze, sono andato a vedere una mostra di Bueno, vecchio amico defunto, dove c'è un'annunciazione con le parole in ebraico, ecc. Naturalmente l'angelo annunciatore, che però ha una faccia diabolica apposta, è a sinistra e la vergine a destra. Così anche nel Purgatorio, se non sbaglio, e lo si deduce dalla famosa scultura opera di Dio

Per chiudete il secondo punto: Benjamin, Che cos'è il teatro epico: leggete la sezione sul gesto citabile, dove si parla molto della citazione come sistetna di interruzione. Siamo in piena filosofia antropologica benjaminiana: si rornpe il continuum e si stacca qualcosa dal contesto; il gioco è quello di contestualizzare e decontestualizzare, di spezzare il discorso. Siamo al polo opposto, se volete, della diligenza di Pierre Menard: quello replicava e voleva dire tutt'altra cosa perché, come sapete bene, ma val la pena di ricordarlo, il Don Chisciotte di Menard e totalmente diverso dal Don Chisciotte originale, perché qua si scopre un'allusione alla fenomenologia, là alla fisica atomica, perché a leggerlo oggi acquista dei significati che naturalmente non aveva. Allora non è modificata una parola ma è già tutta un'altra cosa, il che vuol dire fra l'altro che il famoso ipercodice iperuranico è il massimo di storicità possibile, perché non sta nell'iperuranio, ma è il sistema delle relazioni storiche. Cito me stesso: ho scritto un po' di anni fa un Brecht secondo Benjamin dove facevo riferimento proprio a queste cose e facevo uno sperticato elogio, che è il meno che si possa fare secondo me, dei commenti ad alcune poesie di Brecht stesi da Benjamin. Quindi al famoso studente bisogna far leggere Pasquali, dargli in mano Curtius, e raccomandargli la lettura di Benjamin, prima ancora forse di Che cos'è il teatro epico, dei commenti ad alcune liriche di Brecht, dove c'è una filosofia del commento, e tante altre cose. Ma non è tanto questo che mi interessa ora, quanto capire a che genere appartiene questa poesia: cioè non quali citazioni vengono fatte ma a quale sistema si allude nell'organizzazione del testo. Esempio tipico: la famosa poesia contro la seduzione: Non lasciatevi sedurre, che poi è nel terzo atto di Mahagonny e mirabilmente messa in musica da Weil, mirabilmente perché confluisce con l'intenzione dell'autore. Non lasciatevi sedurre è una specie di canto sacro luterano, e allora uno s'aspetterebbe un testo che dicesse: non lasciatesi sedurre, bisogna piamente. Ma si dice esattamente l'opposto: non lasciatevi sedurre, una volta che siete morti non c'è più niente. Vi seducono coloro che dicono sii buono, opera secondo il bene, e vi promettono mari e monti, anzi cieli precisamente, e invece no, tutte queste sono frottole; non lasciatevi portare sulla cattiva strada dalla gente per bene, pia, proba e massimamente dai religiosi. Tutto questo è montato come un canto luterano; uno lo sente e pensa subito a un canto ecclesiastico. Tutto il bello è quello, e se perdiamo il riferimento sacro la poesia magari non cessa di fare effetto del tutto, ma non entriamo in sintonia con quel codice e non l'afferriamo.

Ultimo esempio, anche questo personale: in questi giorni a hanno rimesso in scena una traduzione che fatto delle Tesmoforiazuse di Aristofane. Chi non le ha lette non si spaventi; infatti io l'ho tradotta col titolo La festa delle donne; poi la cosa ha avuto successo ed è stata replicata perché Tesmoforiazuse è un titolo che non incita nessuno spettatore probo a la soglia di un teatro. Questa traduzione l'avevo fatta nel 1979 per lo stesso gruppo teatrale genovese e adesso l'hanno rimessa in scena per Siracusa. Il testo è molto difficile perché è un testo antieuripideo e pieno di citazioni di Euripide, soprattutto nella seconda parte, e c'è tutto un sistema di riferimenti da noi remotissimi. Per esempio ci sono tanti inni e canti sacri perché le donne celebrano la festa di Demetra e di Core. È chiaro che il contemporaneo sentiva tutte le allusioni, le deformazioni, gli scarti, ma la cosa diventa più complessa perché nella parte finale ci sono tre parodie di tre tragedie di Euripide di cui due perdute (per fortuna gli scoli permettono di ricostruire almeno essenzialmente le parti citate) e una invece conservata. Anche se lo spettatore magari non ha letto niente, Euripide è però citabile, sia pure come fantasma colto. Se in mezzo a un linguaggio basso a un certo punto io prendo un'aria come se citassi l'Iliade di Monti, allora scatta qualcosa; in una situazione che è più o meno grottesca si riesce a far capire che c'è uno scarto stilistico e questo è sufficiente a creare l'effetto comico, dà l'idea che lì sto citando e alludendo, anche se manca il riferimento preciso, che spesso non abbiamo nemmeno noi, perché due volte su tre ci fidiamo di quello che dice lo scoliaste. Ma qui introduco un'altra idea che mi pare importante: la traduzione è una citazione da far invidia a Menard: quando traduco non faccio che citare. Io prendo un testo e naturalmente passo da una lingua a un'altra, ma il risultato è una compatta, lunga citazione, con pretesa anche di fedeltà. E naturalmente il sogno del traduttore è fare non una ma la traduzione di qualcosa, e tra l'altro, a proposito dei sistemi di codici che mutano, le traduzioni non resistono. Ossia, se resistono, resistono come opera del traduttore, cioè noi leggiamo la traduzione di Monti perché vogliamo leggere Monti. Se voglio leggere Omero non vado a prendere Monti, anche se i contemporanei credevano davvero che fosse fedelmente citato il povero Omero. Noi naturalmente non lo pensiamo più; pensiamo invece che stiamo leggendo Monti e tutto sommato facciamo bene.

Ultima osservazione su questo secondo punto: vorrei spendere due parole sul citazionismo che viene identificato con la postmodernità. Nessuno sa bene che cos'è il postmoderno, salvo gli architetti che sono le uniche persone assennate, non in quanto architetti ma perché quando dicono postmoderno hanno un'idea chiara e distinta. È solo per dire che la modernità è morta, come si diceva poco tempo fa, prima dell'undici settembre, che la storia è finita, dopo di che il povero Fukuyama ha spiegato che voleva dire un'altra cosa. In realtà il citazionisrno, poiché non esiste altro che arte allusiva e perché tutto e allusione ovvero citazione, è sempre esistito. Se consideriamo Omero, limitandoci all'area della nostra tradizione culturale, l'Iliade e l'Odissea sono due sistemi di citazione: gli aedi si rubavano, ossia si scambiavano continuamente mezzi versi prefabbricati, versi interi, li combinavano, li montavano, li adattavano, non facevano che citare. Questa è l'epica, ma tutte le culture partono chiaramente come sistemi di citazione e non abbandonano mai il citazionismo. Altro che postmoderno; se mai è prearcaico. Ma altro è se vogliamo intendere proprio l'arte allusiva nel senso nostro, cioè la strizzata d'occhi; allora non occorreva strizzare nessun occhio, perché quello era l'unico codice di un certo tipo di comunicazione, dal quale non si poteva fuoriuscire. Invece, come Pasquali documenta con precisione, se io leggo Virgilio devo conoscere Omero a memoria e non solo. Come è noto, a proposito di traduzioni, i primi a tradurre sono i latini (per i greci, gli altri erano barbari, li derubavano ma non li traducevano). Che cos'è Ille mihi par esse deo videtur se non precisamente una citazione globale, ossia una traduzione? Per forluna ci è arrivato anche il testo di Saffo e allora possiamo metterci li a fare tutti i calcoli e i rapporti. Immaginate invece che non avessimo il carme di Saffo e leggessimo Ille mihi par esse deo videtur, sarebbe tutta un'altra cosa, e non capiremmo nemmeno bene come sta tutta quella faccenda, perché è pieno di tali e tante malizie che non oso nemmeno suggerirle. Ma se c'è un sistema citazionale forte è il sistema moderno, e non il postmoderno. Se dovessi citare qual è il più citante testo che esiste sarei in gravi dubbi: Omero l'ho già promosso ad archetipo generale, di Dante non posso capire una parola se non faccio riferimento al sistema di allusioni e citazioni. Nel mezzo del cammin di nostra vita: ma chi capirebbe mai una cosa del genere se non sapesse ad esempio tutto quello che è legato ai famosi settant'anni. E quello è ancora il meno, perché basta una noterella a spiegarlo; ma tutto il metaforismo del cammino della vita, tutte le infinite note sul nostra vita e su mi ritrovai, e poi la selva oscura. Tutto è codificato. La questione è come mi muovo all'interno di questa iperallusività che scoppia da tutte le parti. Dovessi indicare dunque il testo più citante sceglierei la Waste Land di Eliot, dove le citazioni sono buttate lì esplicitamente, promosse, dichiarate, nella lingua originale tanto perché non nasca nemmeno l'equivoco che si tratti solo di calco e di trasposizione; e note a pie' di pagina che dicono che quello è il Tristano e Isotta, o che si sta citando un passo in sanscrito.

La pittura moderna, lo do per scontato, comincia con Manet, e particolarmente con due dipinti, Le déjeuner sur l'herbe e Olynpia. É impossibile leggere Olympia se non si sono viste le Veneri del Cinquecento e non si ha nemmeno l'idea che esistono; non si capisce nemmeno che al posto della Venere c'è una prostituta. Siamo evidentemente in pieno baudelairismo con la serva negra, i fiori, il gatto e tutto il resto. Se non afferro l'allusione mi trovo come il povero Napoleone III, che si sdegnava e diceva Che puttanata è questa, e diceva la verità, perché era una puttanata, solo che lo voleva essere e bisognava cogliere tutto questo sistema, se no non si capisce niente e quello non è più l'Olympia, cioè il quadro fondatore in qualche modo dell'arte moderna. Per Le déjeuner sur l'herbe si possono indicare come genere prossimo di riferimento un dettaglio di un'incisione di Raimondi derivato da Raffaello e giocato sulle varie rappresentazioni di dei fluviali, più Les demoiselles des bords de la Seine di Courbet. I signori borghesi in posa lì davanti con la donna nuda sulla riva della Senna: una cosa dell'altro mondo. Se guardo il quadro e non so queste cose tutto il sistema delle allusioni si perde e resto lì scandalizzato come i borghesi del tempo; ma quelle pose sono invece tutte calcolatissime.

Terzo e ultimo punto: da tempo, ossessionato come tutti i miei diciamo coevi in largo senso, più vecchi e più giovani di me, vado cercando un bilancio del Novecento. È stato il secolo dell'avanguardia, della psicoanalisi, il secolo dell'anarchismo culturale, il secolo del cinematografo. I tempi combinano quasi perfettamente. La psicoanalisi va al millimetro perché c'è l'Interpretazione dei sogni che apre il secolo; guardate il calendario e vedrete che aveva calcolato giusto. Invece nel cinematografo c'è un disguido di cinque anni, ma nel complesso funziona bene. Quando sostengo che il Novecento è il secolo del cinematografo, come da un po' di tempo vado dicendo in circostanze di questo genere, punto su quello non perché il cinematografo abbia avuto un'influenza così decisiva (e risparmio tutte le considerazioni che si potrebbero fare), ma perché è il secolo del montaggio. Il montaggio è quello che una volta si chiamava sintassi, ma se sintassi implica un galateo, un codice selezionato, col montaggio salta tutto. Vedere Benjamin, teoria dello choc, rottura del continuo, e questo è il sistema comunicativo. Non è necessario essere andati al cinematografo per di montaggio: una volta si sarebbe detto è lo spirito dei tempi, cioè, per dirla con i piedi per terra, ci sono delle ragioni strutturali che influenzano la cultura europea con la crisi dello sviluppo borghese e fanno sì che si vive di montaggio, e l'effetto choc perfettamente individuato da Benjamin è la regola dell'arte moderna. É questo che se mai entra in crisi proprio con l'età della postmodernità; non che la modernità sia finita, io spero di no, saremmo davvero in cattive acque, ma c'è un indebolirsi di queste spinte anarchiche, contestative, avanguardistiche, della stessa psicoanalisi, che non gode più di eccellente salute, del cinema stesso, perché dopo Godard si è sempre più disabilitato, si è sempre più televisionizzato. Non ho niente contro la televisione, ma gioca a sfavore del sentimento del montaggio. Se dico che il montaggio è tipico della modernità mi si può rispondere che è sempre esistito; ma questo è proprio quello che volevo dire, perché il montaggio non è altro che la messa in evidenza del fatto che tutto è citazione, nel senso che tutto è combinazione di codici. Questo è sempre esistito ma non lo sapevamo. È ben diverso se io leggo Omero dopo che so che esiste il montaggio: non è che cambi tutto, però ho una chiave che mi permette di comprenderne il funzionamento e più ancora di percepirlo e di viverlo come un effetto costante di choc, cioè col senso del frantumarsi di una continuità. Altro che classicismo: comincio a godere di tutti gli sbalzi, di tutte le sorprese. Occorreva arrivare al montaggio per leggere come montaggio tutto il lavoro di cucitura che faceva Omero. E Dante mi si sleviga tutto, perde tutta la buona educazione. Ma perfino i petrarchisti, che dovrebbero essere il colmo del leccato (non metto quella rima perché quella parola in rima il Petrarca non la metteva) con il loro cruciverbalismo ossessivo diventano finalmente godibili perché nascono degli choc continui nel sistema combinatorio. Niente è più scorrevole e fluido nel momento in cui io entro davvero nel gioco citazionale, non come un sistema autoritario, ma come un sistema continuo di opzioni per cui tra gli infiniti — potenzialmente, in realtà finiti, come sempre — scarti che mi posso permettere scelgo quelli e non altri.

Bibliografia

Edoardo Sanguineti
- Per una teoria della citazione, in Cultura e realtà, a cura di Erminio Risso, Feltrinelli, 2010, pp. 335-347