Politica come comunità divisa

Jacques Rancière
Il disaccordo. Politica e filosofia
Meltemi, Roma, 2007
Mésentente: Absence d'entente.
Mésentente: Mauvaise entente, désaccord. «malentendu»

Alle origini della politica

All'inizio della politica, naturalmente in Occidente, c'è Aristotele.

L'uomo è l'unico animale che abbia la parola: la voce è segno del piacere e del dolore e perciò l'hanno anche gli altri animali, in quanto la loro natura giunge fino ad avere e a significare agli altri la sensazione del piacere e del dolore. Invece la parola serve a indicare l'utile e il dannoso, e perciò anche il giusto e l'ingiusto. E questo è proprio dell'uomo rispetto agli altri animali: esser l'unico ad avere nozione del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto e così via. E proprio la comunanza di queste cose che costituisce la famiglia e la città (Aristotele, Politica, I, 1253a 9-18).

Subito dopo c'è, ma solo come rimando, Hobbes. Al di là di questo mi sembra, però, che il primo capitolo de La Mésentente abbia come reale interlocutore Leo Strauss, che, non apparendo come tale, non è neppure citato in bibliografia (lapsus).

Così si riassume l'idea di una natura politica dell'uomo: chimera degli antichi, secondo Hobbes, il cui intento è quello di sostituirvi una scienza esatta delle competenze della natura umana; o, viceversa, principio eterno di una politica del bene comune e dell'educazione civica, che Leo Strauss contrappone all'avvilimento utilitarista moderno delle esigenze della comunità. Prima di respingere o esaltare tale natura, è tuttavia opportuno addentrarsi maggiormente nella particolarità della sua deduzione. La qualità eminentemente politica dell'individuo è attestata da un indizio : il possesso del logos, cioè della parola, che manifesta, laddove la voce indica soltanto. La parola manifesta, rende evidente a una comunità di soggetti che la ascoltano, l'utile e il dannoso e, di conseguenza, il giusto e l'ingiusto. La consapevolezza di quest'organo espressivo definisce la distinzione tra due generi di animali nei termini di una differenza tra due modi di partecipare al mondo sensibile: il modo del piacere e del dolore, comune a tutti gli animali dotati di voce; il modo del bene e del male, proprio solo degli uomini, e già presente nella percezione dell'utile e del dannoso. In tal modo si fonda non una politicità esclusiva, ma un essere politico superiore, che trova compimento nella famiglia e nella città.

La linea di confine tra la comunità del Bene e il contratto utilitarista sembra [..] molto difficile da tracciare. Diamo tuttavia ragione ai sostenitori dei "classici": questa linea può e deve essere tracciata. Solo che il suo percorso passa attraverso alcuni tracciati in cui rischiano di perdersi non soltanto il presupposto "utilitarista" denunciato da Leo Strauss, ma anche quello che lui stesso condivide con gli utilitaristi: il principio che assimila il logos del giusto alla deliberazione tramite la quale le soggettività individuali si trovano sussunte nell'universalità dello Stato. Il problema, in questa sede, non è quello di nobilitare l'accezione dell'utile, per avvicinarlo all'ideale del giusto, suo fine; piuttosto, il problema è scorgere che il passaggio dal primo al secondo non avviene se non grazie alla mediazione dei loro contrari, e che è nel gioco di questo contrari, nell'oscuro rapporto tra "dannoso" e ingiusto, che risiede il cuore del problema politico, del problema che la politica pone alla riflessione filosofica della comunità. L'esito del rapporto tra l'utile e il giusto viene in effetti contrastato da due discordanze. Innanzitutto, quella che separa i termini posti artificiosamente a confronto attraverso i concetti di "utile" e "dannoso". L'uso greco, infatti, non stabilisce alcuna chiara opposizione di questo tipo tra i termini aristotelici sumpheron e blaberon. Blaberon possiede, di fatto, due significati: in un'accezione, è la parte del fastidio riservata a un individuo per qualsiasi ragione, catastrofe naturale o azione umana. In un altro senso, è la conseguenza negativa subita da un individuo per il suo atto o, più spesso, per l'azione di altri. Blabè definisce così, generalmente, il danno nel senso giudiziario del termine, il torto oggettivamente determinabile recato da un individuo a un altro. La nozione, dunque, implica di norma l'idea di un rapporto tra due parti. Sumpheron, invece, designa essenzialmente un rapporto a sé stante, il vantaggio che un individuo o una collettività ottengono, o si aspettano di ottenere, da un'azione. Il sumpheron, dunque, non implica la relazione con altri. I due termini vengono quindi contrapposti impropriamente. Nell'uso greco corrente, ciò che si oppone abitualmente al blaberon inteso come torto subito è ophelimon, l'aiuto ricevuto. Nell'Etica Nicomachea, Aristotele stesso contrappone al blaberon, come parte cattiva, l'aireton, la buona parte da prendere. Ma dal sumpheron, dal vantaggio che un individuo riceve, non si deve affatto dedurre il danno subito da un altro. Questa conclusione falsata è proprio quella di Trasimaco quando, nel primo libro della Repubblica, traduce in termini di profitti e perdite la sua enigmatica e polisemica formula: la giustizia è il vantaggio di colui che è superiore (to sumpheron tou kreittonos). Osserviamo per inciso: tradurre, come si è soliti, con "l'interesse del più forte", significa ipso facto limitarsi all'ambito della posizione in cui Platone costringe Trasimaco, significa annullare tutta la dimostrazione platonica, che gioca con la polisemia della formula al fine di attivare una doppia disunione: non soltanto il "profitto" dell'uno non costituisce il "danno" dell'altro, ma, inoltre, la superiorità bene intesa ha sempre solo un beneficiario: l'"inferiore" sul quale va a esercitarsi. In questa dimostrazione, scompare un termine: il torto. Ciò che l'obiezione di Trasimaco anticipa è una città senza torto, una città in cui la superiorità esercitata secondo natura produce la reciprocità dei servizi tra i guardiani protettori e gli artigiani produttori.

C'è una superiorità ineliminabile del logos sulla forza e sulla stessa nobiltà intesa come superiorità in astratto. Ed il conflitto, tra chi detiene la forza o la superiorità e chi è inferiore, è tutto interno al logos. Questo si evince dalla divergenza tra Socrate e Trasimaco.

In tutta evidenza, il problema è che nessun ordine politico viene con ciò ancora definito. La politica comincia precisamente quando viene meno l'equilibrio tra profitti e perdite, laddove ci si occupa di ripartire le parti di ciò che è comune, e di armonizzare secondo proporzioni geometriche le parti della comunità e i titoli per ottenere queste parti, le axiai che garantiscono una comunanza. E affinché la comunità politica sia qualcosa di più rispetto a un contratto tra scambiatori di beni o di servizi, è necessario che l'uguaglianza che vi regna sia radicalmente diversa da quella che permette di scambiare merci e porre rimedio a danni. Ma il sostenitore dei classici" rivelerebbe un eccesso di ottimismo nel riconoscere in questo elemento la superiorità del bene comune — di cui la natura umana porta in sé il telos — sulla mercificazione degli interessi individuali. L'origine del problema è dunque la seguente: per i fondatori della " filosofia politica" , questa sottomissione al bene comune da parte della logica dello scambio si esprime in modo ben determinato: equivale alla sottomissione dell'uguaglianza aritmetica che presiede agli scambi commerciali e alle pene giudiziarie, all'uguaglianza geometrica che, in vista di un'armonia comune, ristabilisce la proporzione tra le frazioni della cosa comune posseduta da ogni parte della comunità, e la porzione rivolta al bene comune. Ma questo passaggio da una grossolana aritmetica all'ideale geometrico implica in sé uno strano compromesso con il dato empirico, un particolare conteggio delle "parti" della comunità. Affinché la città possa essere ordinata secondo il bene, è necessario che le parti in comune vengano rigorosamente proporzionate all'axia di ogni parte della comunità, ovvero al valore che essa aggiunge alla comunità, e al diritto conferitole da tale valore — di detenere una frazione del potere comune. Dietro al contrasto problematico del sumpheron e del blaberon si cela la questione politica essenziale. Affinché la filosofia politica esista, occorre che l'ordine degli ideali politici sia coerente con una combinazione delle "parti" della città, con un calcolo le cui complessità nascondono forse un errore cruciale, un errore che potrebbe coincidere con il blaberon, il torto costitutivo della politica stessa. La lezione dei "classici" è in primo luogo questa: la politica non tratta dei legami tra gli individui e dei rapporti tra l'individuo e la comunità, ma riguarda il calcolo delle "parti" della comunità, un computo sempre falsato, nel senso di un doppio conteggio o di un errore di conto.

Ma andiamo a esaminare più da vicino queste axiai, questi diritti di comunità. Aristotele ne enumera tre: la ricchezza dei pochi (gli oligoi); la virtù, o eccellenza (aretè), che qualifica i migliori (gli aristoi); e la libertà (eleutheria) che appartiene al popolo (demos). Considerato da un unico punto di vista, ognuno di questi titoli produce un regime particolare, sempre minacciato dalla sedizione in potenza degli altri: l'oligarchia dei ricchi, l'aristocrazia delle persone perbene o la democrazia del popolo. Viceversa, la corretta composizione dei loro diritti di comunità procura il bene comune. Uno squilibrio sotterraneo agita tuttavia questo edificante sistema. Possiamo indubbiamente misurare il contributo rispettivo alla ricerca del bene comune da parte delle competenze oligarchiche e aristocratiche, e del controllo popolare. E il libro terzo della Politica si adopera per rendere concreto questo calcolo, per definire le quantità di capacità politica detenute dalla minoranza degli uomini "virtuosi" e dalla maggioranza degli uomini comuni.

Si dovrà dunque semplicemente pensare che l'erudito calcolo della proporzione geometrica sia soltanto un artificio ideale tramite cui la buona volontà filosofica cerca in origine di correggere la realtà prima e irrinunciabile della lotta di classe? La risposta a questa domanda non può che svolgersi in due momenti. Prima di tutto è necessario fare il seguente appunto: sono gli antichi, molto più dei moderni, ad aver individuato all'origine della politica la lotta tra poveri e ricchi. Ma ne hanno precisamente riconosciuto — salvo poi volerla cancellare — la realtà propriamente politica. La lotta tra ricchi e poveri non è la realtà sociale con cui la politica dovrebbe fare i conti. Essa è tutt'uno con la sua istituzione. Vi è politica quando esiste una parte dei senza-parte, una parte o un partito dei poveri. Non vi è politica semplicemente perché i poveri si oppongono ai ricchi. Si deve piuttosto affermare che la politica vale a dire l'interruzione dei semplici effetti del dominio dei ricchi è ciò che permette ai poveri di sussistere come entità. La pretesa esorbitante del demos di essere il tutto della comunità non fa che portare a compimento, a suo modo — il modo della fazione — la condizione della politica. La politica esiste nel momento in cui l'ordine naturale del dominio viene interrotto dall'istituzione di una parte dei senza-parte.

Un apologo di Erodoto illustra questa alternativa secca. Questo racconto-apologo esemplare è dedicato alla rivolta degli schiavi degli sciiti. Gli sciiti, racconta l'autore, hanno l'abitudine di strappare gli occhi di coloro che riducono in schiavitù, al fine di assoggettarli meglio al ruolo servile di mungere il bestiame. Ma il corso abituale delle cose venne turbato dalle loro grandi spedizioni. Partiti alla conquista della Media, i guerrieri sciiti si spinsero fino in Asia, dove furono trattenuti per il periodo di una generazione. Durante questo stesso periodo, una generazione di figli di schiavi era nata e cresciuta con gli occhi aperti. Il suo sguardo sul mondo l'aveva convinta che non esistevano ragioni particolari di essere schiavi, dato che erano nati nello stesso modo dei loro padroni lontani, e con gli stessi attributi. Le donne rimaste a casa si erano mostrate disponibili a confermare questa loro identità naturale, ed essi decisero che, fino a prova contraria, sarebbero stati uguali ai guerrieri. Di conseguenza, circondarono il territorio con un grande fossato e si armarono in vista del ritorno dei conquistatori. Quando quelli fecero ritorno, erano convinti di poter risolvere facilmente questa rivolta di vaccari, con l'aiuto di lance e archi. L'attacco si risolse in un fallimento. Fu allora che un guerriero più astuto comprese la gravità della situazione, e la espose ai suoi fratelli in armi:

Ora quindi mi sembra opportuno lasciare da parte lance e archi e avvicinarci a loro impugnando ciascuno la frusta che usa con il suo cavallo. Finché ci vedevano armati, credevano di essere uguali a noi e di uguale nascita. Ma quando ci vedranno con le fruste al posto della armi, capiranno che sono nostri schiavi e, una volta riconosciuto questo non opporranno più resistenza (Erodoto, Storie, IV, 3).

Così fu fatto, e con successo: colpiti da un simile atto, gli schiavi fuggirono senza combattere.

Il racconto di Erodoto ci aiuta a comprendere come il paradigma della "guerra servile" e dello "schiavo in rivolta" abbia potuto accompagnare in negativo ogni manifestazione della lotta dei "poveri" contro i "ricchi". Il paradigma della guerra servile corrisponde a una realizzazione puramente militare dell'uguaglianza fra dominati e dominanti. Gli schiavi degli sciiti riproducono su un terreno armato lo spazio della loro antica servitù, contrastando armi con armi. Questa dimostrazione di uguaglianza sconvolge, in un primo momento, coloro che si consideravano come i loro padroni naturali. Ma nel momento in cui questi ultimi esibiscono di nuovo le insegne della differenza naturale, i rivoltosi non hanno più mezzi per reagire. Non sono in grado di trasformare l'uguaglianza guerriera in libertà politica. Questo tipo di uguaglianza, contrassegnata ottusamente sul territorio e difesa con le armi, non crea una comunità divisa. Non si trasforma nell'impropria proprietà tipica di quella libertà istituita dal demos come parte e, contemporaneamente, come tutto della comunità. Vi è politica solo grazie all'interruzione e all'originario movimento che istituisce la politica come il dispiegamento di un torto o di un litigio fondamentale. Questo movimento è il torto, il blaberon fondamentale cui il pensiero filosofico della comunità va incontro. Blaberon significa "ciò che ferma la corrente", secondo una delle etimologie di fantasia del Cratilo (Platone, Cratilo, 417d/e). Capita molto spesso che queste immaginarie etimologie arrivino al nodo della riflessione essenziale. Blaberon traduce la corrente interrotta, la torsione originaria che blocca la logica naturale delle "proprietà". Un'interruzione simile obbliga a pensare alla proporzione, all'analogia del corpo comunitario. Ma distrugge anche, all'origine, il sogno di questa proporzione.

Il torto, infatti, non è soltanto la lotta di classe, il dissenso interno da correggere fornendo alla città il suo principio unitario, fondando la città sull'arkhè della comunità. E l'impossibilità stessa dell'arkhè. Sarebbe tutto troppo semplice se vi fosse soltanto l'inquietudine della lotta che oppone ricchi e poveri. La soluzione del problema verrebbe presto trovata. Basterebbe sopprimere la causa del dissenso, ovvero la disuguaglianza delle ricchezze, distribuendo a ciascuno una parte uguale di terra. Ma il male è più profondo. Così come il popolo non è costituito in realtà dal popolo ma dai poveri, i poveri stessi non sono veramente poveri. Sono soltanto il regno dell'assenza di qualità, l'originaria disunione - divenuta fatto che porta il nome vuoto di libertà, la proprietà impropria, il titolo del litigio. Sono costoro in prima persona il contorto movimento del proprio che non è veramente proprio, e del comune che non è veramente comune. Sono semplicemente il torto o la torsione costitutivi della politica in quanto tale.. Il partito dei poveri non incarna altro se non la politica in sé, come istituzione di una parte dei senza-parte. Parallelamente, il partito dei ricchi non può che rappresentare l'antipolitica. Dall'Atene del V secolo a.C. fino ai governi dei giorni nostri, il partito dei ricchi non smetterà di affermare una sola cosa — che corrisponde precisamente alla negazione della politica: non esiste parte per i senza-parte.

Questa cruciale affermazione può ovviamente essere modulata in maniera diversa a seconda dell'evoluzione dei costumi e delle mentalità. Affidandosi al senso comune degli antichi, che ancora sussiste nei "liberali" del diciannovesimo secolo, potremmo esprimerla nel seguente modo: esistono soltanto capi e subordinati, persone per bene e persone da nulla, élites e moltitudini, esperti e ignoranti. Seguendo contemporanei eufemismi, la proposizione prende tuttavia una forma differente: esistono soltanto parti della società: maggioranze e minoranze sociali, categorie socio-professionali, gruppi di interesse, comunità ecc. Non vi sono che parti, e da queste occorre ricavare partenari. Ma sotto le nobili tracce della società contrattuale e del governo di concertazione, così come sotto le forme più brutali dell'affermazione delle disuguaglianze, la proposizione fondamentale resta Immutata: non esiste parte per i senza-parte. Esistono soltanto le parti di coloro che hanno parte. In altri termini: non esiste politica, e non dovrebbe essercene. La guerra tra poveri e ricchi diventa quindi la guerra sull'esistenza stessa della politica. Il litigio sul calcolo dei poveri in quanto popolo, e del popolo in quanto comunità, equivale al litigio sull'esistenza della politica attraverso cui la politica esiste. La politica è la sfera di attività di un comune che può essere solo conflittuale, un rapporto tra parti che non sono altro che partiti, e fattori la cui sommatoria è sempre diversa dal tutto.

Il progetto in nuce della filosofia, condensato in Platone, è quello di sostituire l'uguaglianza aritmetica con l'uguaglianza geometrica.

Vi è politica perché - o quando - l'ordine naturale dei re pastori, dei signori della guerra o dei proprietari viene interrotto da una libertà capace di rendere attuale l'uguaglianza ultima su cui riposa ogni ordine sociale. Prima del logos che discute sull'utile e sul dannoso, vi è il logos che ordina, e autorizza a ordinare. Ma questo logos primordiale è lacerato da una contraddizione originaria. Nella società esiste un ordine perché alcuni comandano e altri obbediscono. Ma per obbedire a un ordine occorrono almeno due requisiti: bisogna comprendere l'ordine, e bisogna comprendere che è necessario rispettarlo. E, per fare questo, bisogna già essere uguale a colui che formula l'ordine. E questa uguaglianza che scardina ogni ordine naturale. Senza dubbio, nella quasi totalità dei casi, gli inferiori obbediscono. Ma rimane il fatto che l'ordine sociale viene in questo modo ricondotto alla sua estrema contingenza. In ultima istanza, la disuguaglianza diventa possibile solo tramite l'uguaglianza. Vi è politica nel momento in cui la presunta logica naturale del dominio viene contaminata dagli effetti di questa uguaglianza. Ciò significa che non c'è sempre politica. Anzi, ce n'è poca, e raramente. Tutto quello che comunemente imputiamo all'ordine della storia politica o della scienza del politico deriva in effetti molto spesso da altri dispositivi che riguardano l'esercizio della sovranità, il vicariato della divinità, il comando delle armate o la gestione degli interessi. Vi è politica solo quando questi dispositivi sono interrotti per effetto di un presupposto del tutto distinto e senza il quale, tuttavia, in ultima istanza, nessuno di loro potrebbe funzionare: il presupposto dell'uguaglianza di ciascuno con chiunque, ovvero, in definitiva, l'effettivo paradosso della pura contingenza di ogni ordine.

Sarà un "moderno" a formulare questo segreto ultimo della politica, Hobbes, il quale provvederà poi subito a ribattezzarlo, per i bisogni della sua causa, guerra di tutti contro tutti. I "classici", dal canto loro, riescono a distinguere chiaramente questa uguaglianza, benché poi si sottraggano alle conseguenze del suo enunciato. Il fatto è che la loro libertà si definisce in relazione a un opposto ben specifico, la schiavitù. E lo schiavo è precisamente colui che ha la capacità di comprendere un logos senza avere la capacità del logos. Egli è quella transizione specifica tra l'animale e l'umano che Aristotele definisce così bene: "lo schiavo è colui che partecipa alla comunità del linguaggio solo nella forma della comprensione (aisthesis), e non del possesso (hexis)" (Aristotele, Politica, I, 1254b 22). La naturalità contingente della libertà dell'uomo del popolo e la naturalità della schiavitù possono allora essere distinte senza rimandare all'estrema contingenza dell'uguaglianza. Ciò significa anche che questa uguaglianza può essere posta come un elemento privo di conseguenze su qualcosa come la politica. E la dimostrazione già messa in atto da Platone, quando faceva scoprire allo schiavo di Menone la regola del raddoppio del quadrato. Che il povero schiavo possa arrivare tanto agevolmente quanto Socrate all'operazione che separa l'ordine geometrico dall'ordine aritmetico, e che riesca così a partecipare al medesimo grado di comprensione, non gli garantisce alcuna forma di inclusione nella comunità.

I "classici" individuano dunque l'uguaglianza originaria del logos, ma non la mettono in parola.

Il movimento che produce la politica è lo stesso che istituisce le classi come diverse le une dalle altre.

Dalla politica alla polizia

La semplice contrapposizione tra animali logici e animali fonici non è dunque in alcun modo il dato su cui la politica potrebbe fondarsi. Al contrario, è un elemento del conflitto stesso che istituisce la politica. [..] Vi è politica perché il logos non è mai semplicemente la parola, ma sempre, indissolubilmente, il resoconto che si fa con questa parola: il resoconto attraverso cui un'emissione sonora viene intesa come parola, in grado di enunciare il giusto, laddove un'altra è percepita soltanto come rumore che segnala piacere o dolore, consenso o rivolta.

È ciò che narra un pensatore francese del diciannovesimo secolo, riscrivendo il racconto fatto da Tito Livio della secessione dei plebei romani sull'Aventino. Nel 1829, Pier-Simon Ballanche pubblica sulla «Revue de Paris» una serie di articoli dal titolo Formula generale della storia di tutti i popoli applicata alla storia del popolo romano. A suo modo, Ballanche stabilisce un legame tra la politica dei classici" e quella dei "moderni". Il racconto di Tito Livio metteva insieme la fine della guerra contro i volsci, il ritiro della plebe sull'Aventino, l'ambasciata di Menenio Agrippa, la sua celebre leggenda e il ritorno dei plebei all'ordine. Ballanche rimprovera allo storico latino la sua incapacità di pensare l'evento in maniera diversa rispetto a una rivolta, a una sommossa della miseria e della collera che istituì un rapporto di forza insensato. Tito Livio è incapace di attribuire un senso compiuto al conflitto in quanto incapace di situare la leggenda di Menenio Agrippa nel suo autentico contesto: quello di una disputa sulla questione della parola in sé. Centrando il suo racconto-apologo sulle discussioni dei senatori e sugli atti di parola dei plebei, Ballanche mette in atto una (ri)messa in scena del conflitto in cui tutta la posta in gioco è sapere se esiste una scena comune in cui plebei e patrizi possano dibattere intorno a qualcosa.

La posizione dei patrizi intransigenti è semplice: non vi è modo di discutere con i plebei, per la semplice ragione che costoro non parlano. E non parlano perché sono esseri senza nome, privi di logos, ovvero di iscrizione simbolica nella città, Vivono una vita puramente individuale e incapace di trasmettere alcunché, se non la vita medesima, ridotta alla sua facoltà riproduttiva. Chi è senza nome non può parlare. Un errore fatale ha fatto credere al deputato Menenio che dalla bocca dei plebei uscissero parole, laddove poteva logicamente uscire solo rumore.

Hanno la parola come noi, hanno osato dire a Menenio! Ma forse è un dio colui ad aver chiuso la bocca di Menenio, turbato il suo sguardo, fatto risuonare il suo orecchio? È stato forse colto da una sacra vertigine? ... non ha saputo rispondere loro che avevano una parola transitoria, una parola che è un suono fuggitivo, sorta di muggito, segno del bisogno e non manifestazione di intelligenza. Sono costoro privati della parola eterna che era nel passato, che sarà nel futuro (Ballanche 1830, p. 94).

Il discorso attribuito da Ballanche a Menenio evidenzia chiaramente l'argomento della disputa. Tra il linguaggio di coloro che hanno un nome e il muggito degli esseri senza nome, non vi è possibilità di istituire uno scambio linguistico, né regole, né un codice per la discussione. Questo verdetto non riflette soltanto la cocciutaggine dei dominanti o il loro accecamento ideologico, ma esprime in senso stretto l'ordine del sensibile che organizza il loro dominio, che è quel dominio stesso. Prima di essere un traditore della sua classe, il deputato Menenio, convinto di aver sentito i plebei parlare, è vittima di un'illusione dei sensi. L'ordine che struttura il dominio dei patrizi non conosce logos che possa essere articolato da esseri privi di logos, non conosce parola che possa essere proferita da esseri senza nome, da esseri di cui non vi è conto.

Di fronte a ciò, cosa fanno i plebei riuniti sull'Aventino? Non tracciano difese sul territorio, come gli schiavi degli sciiti. Fanno ciò che per quelli sarebbe stato impensabile: istituiscono un altro ordine, un'altra divisione del sensibile, autorappresentandosi non come guerrieri uguali ad altri guerrieri, ma come esseri parlanti che condividono le stesse proprietà di coloro che gliele negano. Così facendo, eseguono una serie di atti di parola che mimano quelli dei patrizi: pronunciano imprecazioni e apoteosi; delegano uno tra di loro ad andare a consultare i loro oracoli; eleggono dei rappresentanti, rinominandoli. In breve, si comportano come esseri dotati di nome. Si scoprono, nella modalità della trasgressione, come esseri parlanti, dotati di una parola che non esprime semplicemente il bisogno, la sofferenza e il furore, ma manifesta anche intelligenza. Scrivono, dice Ballanche, "un nome nel cielo": un posto all'interno di un ordine simbolico della comunità degli esseri parlanti, in una comunità non ancora riconosciuta nella città romana.

Il racconto presenta queste due scene, e nell'intervallo tra queste riesce a mostrarci alcuni spettatori ed emissari che si muovono, in un solo senso, certo: sono patrizi atipici, giunti a vedere e a sentire ciò che si sta svolgendo su questa scena teoricamente inesistente. Ed essi osservano questo incredibile fenomeno: i plebei hanno trasgredito nei fatti l'ordine della città. Si sono dati dei nomi. Hanno eseguito una serie di atti di parola che uniscono la vita dei loro corpi a parole e a usi di parole. In sostanza, nel linguaggio di Ballanche, costoro sono diventati, da "mortali" che erano, degli "uomini", ovvero esseri che imbastiscono sulle parole un destino collettivo. Sono diventati esseri capaci di fare promesse e stipulare contratti. Di conseguenza, quando Menenio Agrippa racconta il suo apologo, lo ascoltano con discrezione e lo ringraziano, ma poi gli chiedono un trattato. Costui ovviamente si lamenta, sostenendo che la cosa è logicamente impossibile. Sfortunatamente, ci dice Ballanche, il suo apologo era in un sol giorno "invecchiato di un ciclo". La questione può essere formulata semplicemente: dato che i plebei erano in grado di comprendere il suo apologo l'apologo della disuguaglianza necessaria tra il principio vitale dei patrizi e i membri esecutivi della plebe —, ciò significa che erano già, altrettanto necessariamente, dei pari. L'apologo vorrebbe illustrare una divisione disegualitaria del sensibile. Il senso necessario per comprendere questa divisione presuppone una dixisione egualitaria che inficia la precedente. Ma soltanto il dispiegarsi di una scena di manifestazione esplicita restituisce a quest'uguaglianza un grado di attuazione. Solo quel dispositivo misura lo scarto del logos da se stesso, e ha il medesimo effetto di questa misura, ponendo in essere un altro spazio sensibile in cui si avvera che i plebei parlino come i patrizi, e che il dominio di questi ultimi non ha altro fondamento se non la pura contingenza di ogni ordine sociale.

Nel racconto di Ballanche, il Senato romano è animato da un Consiglio segreto di vecchi saggi. Questi sanno che quando un ciclo è terminato, piaccia oppure no, è terminato. E concludono che, poiché i plebei sono diventati esseri di parola, non v'è nient'altro da fare che parlare con loro. Questa conclusione è conforme alla filosofia che Ballanche deduce da Vico: il passaggio da un'età della parola a un'altra non è una questione di rivolte da reprimere, ma di rivelazione progressiva, riconoscibile da suoi particolari segnali, e contro la quale non è possibile lottare. Ma ciò che qui ci preme, più che questa determinata filosofia, è il modo in cui l'apologo tratta il rapporto tra il privilegio del logos e il gioco conflittuale che istituisce la scena politica. Prima ancora di ogni misura di interessi e titoli a questa o quella parte, il conflitto riguarda l'esistenza delle parti in quanto parti, l'esistenza di un rapporto che le costituisca in quanto tali. Il doppio senso del logos, come parola e come resoconto, diviene il luogo in cui si gioca questo conflitto. L'apologo dell'Aventino consente di riformulare l'enunciato aristotelico sulla funzione politica del logos umano e sul significato del torto che esso rende manifesto. La parola che permette la politica è quella che misura lo scarto medesimo tra la parola e il suo resoconto. E l'aisthesis che si palesa in questa parola è proprio la querelle sulla costituzione dell'aisthesis, sulla pluralità del sensibile attraverso il quale dei corpi si trovano in comunità. In questa sede intenderemo "pluralità" nel doppio senso della parola: comunità e separazione. E il rapporto tra l'una e l'altra a definire una plurdità del sensibile. Ed è questo rapporto a essere in gioco nel "doppio senso" dell'apologo: quello che esso fa intendere, e quello che occorre per intenderlo. Sapere se i plebei parlano significa sapere se esiste qualcosa "tra" le parti. Per i patrizi non esiste scena politica dato che non esistono controparti. Non esistono controparti poiché i plebei, non possedendo logos, non sono. "La vostra sciagura è di non essere, dice un patrizio ai plebei, e questa sciagura è ineluttabile" (Ballanche 1830, p. 75). Ecco il punto decisivo, definito in maniera ambigua dalla proposizione aristotelica o dalla polennica platonica, ma del resto chiaramente occultato da tutte le concezioni utilitaristiche, contrattualistiche o comunicazionali della comunità politica. La politica è in primo luogo il conflitto intorno all'esistenza di una scena comune, sull'esistenza e sulla qualità di coloro che sono presenti su questa scena. Bisogna in primo luogo stabilire che la scena esiste a uso di un interlocutore che non è in grado di vederla, e che non ha ragioni di vederla, poiché essa non esiste. Le parti non preesistono al conflitto che nominano e nel quale si fanno contare in quanto parti. La "discussione" del torto non è uno scambio - per quanto violento - tra partenari costituiti. Essa concerne la situazione di parola stessa, e i suoi attori. Non vi è politica perché gli uomini, grazie al privilegio della parola, mettono in comune i loro interessi. Vi è politica perché coloro che non hanno diritto di essere contati come esseri parlanti si fanno comunque contare, e istituiscono una comunità mettendo in comune il torto, lo scontro stesso, la contraddizione tra due mondi costretti a condividerne uno solo: il mondo in cui sono e quello in cui non possono essere, il mondo in cui sussiste qualcosa tra loro e coloro che non li riconoscono affatto come esseri parlanti e suscettibili di essere contati, e il mondo in cui non c'è nulla. La fattualità della libertà ateniese e l'elemento straordinario della secessione plebea mettono così in scena un conflitto fondamentale che è nello stesso tempo rilevato e trascurato dalla guerra servile di Scizia. Il conflitto separa due modi dell'essere-insieme umano, due tipi di pluralità del sensibile, opposti nel loro principio e tuttavia legati l'un l'altro nei resoconti impossibili della proporzione, e nelle violenze del conflitto. Esiste il modo di essere-insieme che dispone i corpi al loro posto e nell'ambito delle loro funzioni, a seconda delle loro "proprietà del loro nome o della loro assenza di nome, del carattere "logico" o "fonico" dei suoni pronunciati. Il principio di questo essere-insieme è semplice: dare a ciascuno la parte che gli spetta, secondo l'evidenza di ciò che è. I modi dell'essere, del fare e del dire - o non dire - rimandano esattamente gli uni agli altri. Gli sciiti, strappando gli occhi di coloro che devono solo eseguire con le loro mani la funzione prestabilita, ne forniscono l'esempio più brutale. I patrizi, che non possono sentire la parola di coloro che non possono averla, forniscono il paradigma classico.

Nel conflitto originario che mette in discussione la relazione tra la capacità dell'essere parlante generico e la comunità del giusto e dell'ingiusto, occorre allora riconoscere due logiche dell'essere-insieme umano che generalmente vengono confuse sotto il nome di politica, laddove l'attività politica è soltanto l'attività che le divide e le rende plurali. Definiamo in generale con il nome di politica l'insieme dei processi attraverso cui si operano l'aggregazione e il consenso delle collettività, l'organizzazione dei poteri, la distribuzione dei posti e delle funzioni e i sistemi di legittimazione di questa distribuzione. Io propongo di attribuire un nome diverso a questa distribuzione e al sistema di queste legittimazioni. Propongo di chiamarlo polizia. [..]

Questioni di costituzionalità

In questo frammento, molto interessante, Rancière evidenzia la torsione operata dal giuridico sul politico attraverso l'applicazione al giudizio di costituzionalità di quello che definisce primo assioma della "filosofia politica".

Oggi l'identificazione tra democrazia e Stato di diritto serve a produrre un regime di identità a sé della comunità, e far svanire la politica sotto le spoglie di un concetto di diritto che la identifica allo spirito della comunità. [..] Si sottoscrive così di buon grado una nuova fondazione della democrazia, a partire dai principi fondamentali del liberalismo, la sottomissione del politico, nella persona dello Stato, alla regola che incarna il contratto, e mette in comune le libertà individuali e le energie sociali. Ma questa presunta sottomissione dello statale al giuridico si rivela essere piuttosto una sottomissione del politico allo statale per il tramite del giuridico. [..] Lo Stato moderno, si dice, è uno Stato minimo, uno Stato che restituisce al giuridico per un verso, al sociale per l'altro, tutto ciò che aveva loro tolto. [..] Così la pratica del "controllo di costituzionalità" non è tanto la sottomissione del legislativo e dell'esecutivo al "governo dei giudici" quanto la dichiarazione del non-luogo della manifestazione publica del conflitto. Si tratta, insomma, di una mimesis statale della pratica politica del conflitto. Tale mimesis trasforma in problema dipendente da un sapere esperto l'argomentazione tradizionale che dà luogo alla manifestazione democratica, lo scarto dell'uguaglianza rispetto a sé stessa. [..] L'argomentazione "giuridica" di incostituzionalità costruisce dunque una parodia del conflitto democratico che sottometteva il testo egualitario alla prova dei casi di disuguaglianza. L'argomentazione del conflitto, la costruzione della comunità divisa, viene caricaturata, in quelle motivazioni che individuano in qualsiasi insignificante articolo di una legge indesiderabile una contraddizione con il principio di uguaglianza, fulcro della Costituzione. A questa trasformazione del conflitto politico in problema giuridico, il giudice costituzionale può allora rispondere con una lezione di diritto che non è nient'altro che il primo assioma della "filosofia politica", quello della distinzione tra le uguaglianze, assiome che, a partire da Platone, si enuncia nel seguente modo: il principio d'uguaglianza significa dare cose simili a esseri simili, e cose dissimili a esseri dissimili. L'uguaglianza, dice la saggezza dei giudici costituzionali, deve applicarsi in ogni circostanza (Dichiarazione dei diritti dell'uomo, articolo 1), ma nelle condizioni diverse che la differenza delle circostanze autorizza (articolo IV della medesima dichiarazione).

La questione dell'uguaglianza, in questo contesto, si dissolve quindi nella questione se sia la politica o il diritto a stabilire quali siano gli esseri simili e quelli dissimili. Ovvero, qualora si accetti la subordinazione della politica al diritto, il tutto si risolve in una questione di circostanze.

Fermiamoci qui! Fermiamoci qui! Ché le parole sulle quali riflettere son già troppe.

MP

Bibliografia

Jacques Rancière
- Il disaccordo. Politica e filosofia, tr. Beatrice Bagni, Meltemi, Roma, 2007
- La Mésentente. Politique et Philosophie, Éditions Galilée, Paris, 1995