L'apologo di Menenio Agrippa

Da "Le antichità romane" di Dionigi di Alicarnasso

Il capitolo sesto delle Antiquitatum romanarum, dove Dionigi di Alicarnasso narra l'apologo di Menenio Lanato Agrippa, inizia con elezione dei consoli Aulo Sempronio e Marco Minucio durante la settantunesima olimpiade (496 aC.), nella quale Tisicrate di Crotone fu vincitore della corsa dello stadio, e si conclude con la morte di Menenio Agrippa nel 493 aC. e la celebrazione dei suoi funerali a spese dello stato.

Dionigi inizia a scrivere Le antichità romane dopo il suo trasferimento a Roma, nel 30 aC. [I, 7,2], e publica la sua opera l'8 aC. quasi cinquecento anni dopo i fatti. Sul valore storico del racconto è quindi lecito dubitare, sebbene la critica contemporanea sia meno negativa di quella ottocentesca ed abbia portato ad una rivalutazione dell'opera di Dionigi anche dal punto di vista storico.

Bisogna tuttavia ammettere che in tempi recenti è venuta formandosi una valutazione più equilibrata dell'opera di Dionigi, basata non tanto su di un riesame globale del suo procedimento storiografico, quanto piuttosto sulla crescente consapevolezza del suo valore come storico quale risulta dalle sue conoscenze e dalla sua ricostruzione delle fonti romane ancora disponibili a quel tempo. Di fatto, per motivi che cercheremo di definire più avanti, Dionigi è più fedele alle sue fonti di quanto non lo sia ad esempio Livio; un esame del suo testo condotto accuratamente e, se cosi si può dire, con metodo stratigrafico, permette sovente di identificare il materiale originario sotto la rielaborazione. Di tale materiale si possono in tal modo riconoscere le tendenze politiche e si può ridefinire il contributo personale apportato da Dionigi stesso.

Poiché il mio intento è genericamente antropologico non mi soffermerò oltre sull'attendibilità storica del testo, ma darò per buona la narrazione di Dionigi, tanto più che la sequenza degli avvenimenti narrati in questo capitolo non è esposta in modo cronachistico, ma tende ad individuare le interazioni psicosociali tra i protagonisti che, nella mente di Dionigi, determinano lo svolgersi dei fatti.

Allo scopo citerò dalla nuova pregevole edizione Einaudi. Naturalmente non sono in grado di assicurare sempre la correttezza della trascrizione, ragione per la quale in caso di necessità, come sempre, è utile rifarsi all'originale.

[..]

Il contenzioso nasce per una questione di debiti a seguito del protrarsi della guerra.

[XXII I] A Roma, dopo la conclusione delle guerre esterne, esplose di nuovo la lotta civile; il senato infatti aveva deliberato che i tribunali, radunatisi, giudicassero secondo le leggi le controversie, rinviate a causa della guerra. Le questioni relative ai contratti avevano provocato preoccupanti tafferugli e spaventose stranezze e manifestazioni di tracotanze; da una parte, infatti, i plebei mettevano sotto gli occhi di tutti la loro impossibilità di saldare i debiti, visto che la loro terra era andata distrutta nel corso di una guerra pluriennale, il bestiame perduto e il numero degli schiavi decurtato da diserzioni e incursioni, e le rendite urbane svuotate dalle spese per la spedizione militare; dall'altra parte, i creditori replicavano che le disgrazie avevano colpito tutti e non si erano abbattute solo sui debitori, e reputavano inaccettabile il fatto di veder svanire non solo i beni sottratti loro in guerra dai nemici, ma anche ciò che avevano dato in prestito, in tempo di pace, ad alcuni cittadini indigenti. [2] E cosi, mentre i creditori non erano disposti ad accordare nulla che fosse ragionevole, i debitori non volevano adoperarsi per alcunché di giusto: ma né gli uni volevano rinunciare agli interessi, né gli altri a tener fede ai contratti; pertanto, quanti erano nella stessa situazione si riunivano già a gruppi e si schieravano, gli uni di fronte agli altri, nel foro, giungendo talvolta allo scontro, cosi che tutto l'assetto dello stato ne era sovvertito. [3] Esaminando attentamente la situazione, Postumio, che ancora fruiva della stima di tutti senza distinzioni per aver concluso con felice esito una difficile guerra, decise di evitare i turbini della politica e, prima di giungere all'ultimo giorno della sua magistratura assoluta, depose la dittatura; dopo avere stabilito un giorno per le elezioni, ripristinò, in collaborazione con il suo collega nel consolato, le magistrature regolari.

La guerra esterna come rimedio alla guerra civile

[XXIII I] I consoli che ricoprirono la magistratura suprema, di nuovo annuale e regolare, furono Appio Claudio Sabino e Publio Servilio Prisco. Essi erano ben consapevoli che, per recare alla patria il più equo giovamento, bisognava indirizzare il tumulto civile alle guerre esterne; e facevano preparativi perché uno di essi guidasse una spedizione contro il popolo dei Volsci, con l'intenzione di punirli per l'intervento militare in sostegno dei Latini contro i Romani, e di prevenire i loro allestimenti, ancora ridotti. Si annunciava infatti che i Volsci si accingevano già ad arruolare truppe con tutto l'impegno possibile, e che inviavano ambasciatori ai popoli vicini incitandoli a stringere alleanza con loro. Erano a conoscenza che i plebei si trovavano in contrasto con i patrizi e consideravano che non sarebbe stato difficile conquistare la città, vessata dalle discordie civili. [2] I consoli, dopo che ebbero decretato di compiere una spedizione contro questo popolo, e dopo che la loro proposta era stata accolta da tutti i senatori, diedero ordine a tutti gli uomini in età militare di presentarsi, dopo aver fissato il periodo nel quale si proponevano di mettere in atto la leva dei soldati. Ma poiché i plebei, più di una volta sollecitati a prestare il giuramento militare, non davano ascolto, i consoli non mantennero più un parere unanime ma, da quel momento in poi, ebbero opinioni opposte e seguitarono a comportarsi in modo divergente l'uno dall'altro, lungo tutta la durata della loro carica. Servilio, infatti, era del parere che si dovesse adottare una linea più equilibrata, associandosi in questo all'opinione di un uomo molto vicino al popolo, Manio Valerio, il quale consigliava di tutelare le cause della rivolta deliberando piuttosto la remissione o almeno la riduzione dei debiti, oppure, qualora ciò non fosse possibile, proibendo per il momento l'arresto di quanti non avevano saldato i propri debiti entro il limite di legge; egli esortava anche a infondere coraggio piuttosto che forzare i poveri a pronunciare il giuramento militare, e a non comminare agli insolventi castighi aspri e spietati, come in una città concorde, ma misurati e indulgenti; v'era infatti il pericolo che uomini bisognosi anche delle necessità quotidiane, costretti a militare a proprie spese, si associassero volgendosi a gesti di follia, dettati dalla disperazione.

Gli oppositori della plebe: Appio Claudio Sabino, console nel 493 aC

[XXIV 1] Ma il parere di Appio [Claudio Sabino, console nel 493 aC], personalità di spicco tra i dirigenti dell'aristocrazia, era inflessibile e tracotante; asseriva infatti che essi non dovevano manifestare verso il popolo alcuna benevolenza, ma anzi dovevano consentire a coloro che avevano dato in prestito il denaro di assicurarsi il pagamento dei debiti secondo le condizioni fissate, convocando i tribunali, mentre il console che era rimasto a Roma doveva, secondo le tradizioni patrie e [..], reclamare le pene contemplate per i disertori dalle leggi relative a tali temi; essi non dovevano cedere al popolo in nulla tranne che nel giusto, e non sostenerlo nella conquista di un potere scellerato. [..]

Il vecchio milite impoverito dalla guerra

[XXVI 1] Mentre ancora il senato, in seduta plenaria, prendeva in esame l'entità delle forze che sarebbero uscite in campo, si mostrò nel foro un uomo alquanto vecchio, vestito di stracci, con barba e capelli lunghi, che, urlando, implorava l'aiuto dei cittadini. Quando una moltitudine di gente gli si raccolse intorno, egli, situatosi in un posto dal quale avrebbe potuto esser visto da molti: «Io, — disse, — nato libero, dopo aver prestato il mio servizio come soldato in tutte le campagne, fino a quando sono stato in età militare, e dopo aver guerreggiato in ventotto battaglie e aver ottenuto più volte i premi al valore militare, nel tempo in cui la città è venuta a trovarsi in estrema miseria, sono stato costretto a gravarmi di un debito per pagare i tributi che mi s'imponevano. Alla fine, poiché i nemici avevano distrutto il mio podere e le rendite urbane erano andate esaurite per la penuria di viveri, io, non sapendo più come saldare il mio debito, sono stato ridotto in schiavitù dal creditore, insieme con i miei due figli; e giacché il padrone mi dava ordini non facili da eseguire, di fronte alle mie lagnanze mi ha bastonato con moltissime frustate». E cosi dicendo, si cavò di dosso gli stracci e scopri il petto pieno di ferite e il dorso sanguinante per le percosse. Poiché da parte dei presenti si levarono urla e gemiti, il senato tolse la seduta, mentre i poveri correvano lungo la città lagnandosi della loro triste sorte e scongiurando l'aiuto dei vicini; allora, quanti erano stati ridotti in schiavitù per debiti uscirono di corsa dalle case dei creditori con i capelli lunghi e incolti, la maggior parte anche con catene e ceppi, senza che alcuno ardisse intralciarli: e se qualcuno li sfiorava soltanto, era dilaniato, secondo la legge della violenza. [3] Tale rabbia in quella contingenza invase il popolo: non molto dopo il foro si riempi di uomini che si erano liberati delle loro catene. Appio, avendo il timore che la furia del popolo si riversasse su di lui come responsabile dei mali e della ribellione, fuggi via dal foro. Invece Servilio, spogliatosi della toga orlata di porpora e prostratosi in lacrime ai piedi di ciascuno dei plebei, con fatica li indusse a fermarsi per quel giorno e a ritornare il di seguente, promettendo loro che il senato si sarebbe occupato della loro situazione. Detto questo, egli diede ordine all'araldo di bandire che nessun debitore poteva far imprigionare un cittadino per un debito privato, fino a che il senato non avesse emesso un decreto su tale questione, e che i presenti potevano recarsi senza paura dove volessero; in questo modo, egli riusci a placare la rivolta.

[XXVII 1] Essi allora si allontanarono dal foro; ma il giorno seguente vi si raccolsero non soltanto gli abitanti della città, ma anche i plebei provenienti dalle campagne vicine, e il foro era gremito di gente fin dal mattino. Intanto, riunitosi il senato per valutare il da farsi in quella situazione, Appio inveì contro il collega definendolo demagogo e istigatore della tracotanza della plebe, mentre Servilio appellò l'altro caparbio e borioso, e origine degli attuali mali della città: e non c'era fine al loro alterco. [2] Nel frattempo, alcuni cavalieri latini, spingendo con veemenza i loro animali, si presentarono nel foro e diedero la notizia che i nemici, già in sortita con un poderoso esercito, erano ormai ai confini del territorio romano, Cosi fecero sapere costoro: allora i patrizi, il corpo dei cavalieri e tutti quanti fruivano di ricchezze e di antenati gloriosi si armarono in gran foga, dal momento che andavano incontro a un grave pericolo; ma quanti fra loro erano indigenti, e soprattutto tutti coloro che erano angariati dai debiti, non prendevano le armi né mettevano a disposizione alcun soccorso alla causa comune, anzi si rallegravano e recepivano la guerra esterna come un felice esito delle loro preghiere, presumendo che essa li avrebbe sottratti alle attuali sciagure. A coloro che li pregavano di recare aiuto, essi ostentavano le catene e i ceppi, e li schernivano chiedendo se fosse il caso di combattere per difendere benefici di tal fatta; anzi, molti ardivano anche affermare che sarebbe stato meglio essere schiavi dei Volsci piuttosto che subire le angherie dei patrizi. E la città era invasa da lamenti, da trambusti e da ogni genere di pianti femminili.

[XXVIII 1] A tale visione, i senatori esortarono uno dei consoli, Servilio, che nel presente frangente sembrava fruire di maggiore stima presso la massa, di portare aiuto alla patria. Ed egli, riunito il popolo nel foro, fece capire che la necessità della condizione attuale non consentiva più contese civili, ed esortò la plebe ad avanzare ora contro i nemici con unanime risoluzione e di non permettere lo sterminio della terra natia, dove erano gli dèi della patria e le tombe degli avi di ciascuno, cose a tutti gli uomini carissime; egli li implorò di dar prova di rispetto per i genitori, che a causa della vecchiaia non sarebbero stati capaci di difendersi, di mostrare pietà delle loro mogli, che ben presto sarebbero state costrette a soffrire orrendi e insostenibili soprusi, e soprattutto di aver commiserazione dei figli ancora piccoli, che, non allevati certamente per aspettative di tal genere, avrebbero dovuto patire insolenze e mortificazioni atroci. [2] Quando poi tutti, con unanime ardore, avessero ricacciato l'incombente pericolo, allora avrebbero valutato il modo di istituire un governo democratico, comune e vantaggioso per tutti, in cui i poveri non tessessero inganni contro i beni dei ricchi, né questi ultimi umiliassero chi si trovava in situazioni pill sfortunate, essendo tali comportamenti, infatti, per nulla confacenti a dei cittadini, ma un governo nel quale non solo gli indigenti avrebbero ottenuto un aiuto da parte dello stato, ma anche i creditori e quelli che avevano sofferto sopraffazioni avrebbero ricevuto un misurato sostegno; pertanto la fede nei contratti, che è il più grande fra i beni umani e quello che mantiene nella concordia tutti gli stati, non sarebbe scomparsa del tutto e per sempre dalla sola città di Roma. [3] Dopo aver esposto queste e altre cose richieste dalla circostanza presente, infine egli richiamò alla mente di tutti, in suo sostegno, la benevolenza che aveva sempre manifestato verso il popolo; e li esortò a partecipare con lui a quell'azione militare in virtù della sua premura verso di loro; infatti, mentre al suo collega era stata assegnata l'amministrazione della città, a lui era stato affidato il comando della spedizione: tali competenze erano state date loro dalla sorte. Servilio asserì che il senato gli aveva assicurato di approvare gli accordi che egli avrebbe concluso con il popolo, e che egli stesso aveva promesso ai senatori che il popolo non avrebbe messo a tradimento la patria nelle mani dei nemici.

[XLIII 1] Risoltasi la guerra secondo le sue aspettative, Valerio, dopo aver celebrato il trionfo, congedò il popolo dal servizio militare, per quanto il senato non ritenesse quello il momento giusto, poiché voleva evitare che i poveri reclamassero le promesse fatte loro. Egli poi mandò nelle terre, che avevano tolto ai Volsci, dei coloni scelti tra i poveri. A costoro fu affidato il compito sia di sorvegliare l'area territoriale portata via ai nemici sia di ridurre in città la quantità dei ribelli. [2] Dopo aver organizzato ciò, Valerio chiese che il senato rispettasse le promesse fatte, dal momento che il popolo aveva partecipato con ardore e di propria iniziativa all'impresa militare. Il senato invece non prestava ascolto alle sue richieste, ma quei giovani e furiosi senatori, che superavano l'altra fazione per numero e già avevano fatto unanime opposizione alla sua proposta, anche ora lo contrastavano e inveivano contro di lui, appellando la sua famiglia lusingatrice della massa e fautrice di leggi scellerate e asserendo che essi avevano del tutto disfatto il potere dei patrizi mediante la misura politica inerente il ruolo dell'assemblea come luogo deputato alla giustizia. Valerio ne fu profondamente irritato e, dopo averli deplorati per averlo infamato iniquamente di fronte al popolo, commiserò la sfortuna che stava per abbattersi su di loro per aver assunto tale posizione politica, e come è naturale in un simile calamitoso frangente, lanciò loro delle profezie, alcune dettate dalla sofferenza del momento, altre dal suo profondo acume. Poi, allontanatosi in tutta fretta dal senato, radunò il popolo in assemblea e cosi lo arringò: [3] «Ho il dovere, o cittadini, di esprimervi la mia riconoscenza per lo slancio di cui avete dato prova partecipando con me alla guerra di vostra iniziativa, e ancor di più per l'ardimento da voi dimostrato negli scontri. Io ho profuso tutto il mio impegno per gratificarvi, anche in altri modi, ma in particolare mantenendo fede alle promesse che vi ho fatto in nome del senato e, assunta la funzione di consigliere e giudice tra le parti, contribuendo alla fine a trasformare la discordia che regnava fra di voi in concordia. Ma ecco che ora ostacolano la mia opera di conciliatore alcuni uomini che antepongono a ciò che è più vantaggioso per i cittadini i loro capricci del momento e che sono riusciti a imporsi con la superiorità numerica e il vigore che nasce più dalla loro giovane età che dallo stato attuale delle cose. [4] Io al Contrario sono vecchio, come vedete, e sono tali anche altri miei compagni la cui energia è fondata sui consigli che non riescono a mutarsi in azioni; e quanto era reputato cura del pubblico interesse da parte mia è apparso come un odio privato verso le due parti. Sono infatti incolpato dal senato di essere un fautore della vostra fazione, e non ho credito presso di voi per il fatto che mostro benevolenza verso il senato.

[XLV 1] Tale discorso gli attirò l'affetto di tutti i plebei, che lo seguirono quando si allontanò dal foro, ma rese anche più ostico il senato nei suoi confronti. Infatti subito dopo di ciò avvennero i seguenti fatti: i poveri non facevano più riunioni notturne e clandestine, come in precedenza, ma ormai palesemente disegnavano una secessione dai patrizi; e l'ordine del senato, che cercava di ostacolarla, fu la leva permanente dell'esercito. Ciascuno di essi infatti era ancora a capo delle tre legioni, che erano tuttora impedite dai giuramenti militari e nessuno osava lasciare le insegne - era cosi forte nella loro mente il timore di non rispettare i giuramenti. Come pretesto del perdurare della leva fu presentato il fatto che gli Equi e i Sabini si erano alleati per la guerra contro i Romani. [2] Dopo che i consoli si furono allontanati dalla città con gli eserciti ed ebbero disposto l'accampamento non distante l'uno dall'altro, i soldati fecero una riunione generale, mantenendo il possesso delle armi e delle insegne e, sotto la spinta di un tale di nome Sicinio Belluto fecero proprie le insegne — queste infatti, durante le spedizioni militari, erano tenute in grande rispetto e reputate sacre come immagini degli dèi - e si sollevarono contro i consoli. Furono perciò designati altri centurioni e un comandante assoluto, Sicinio, poi entrarono in possesso di un monte che si ergeva presso il fiume Aniene, non distante da Roma, ancor oggi denominato Monte Sacro, in virtù di quell'avvenimento. [3] E ai consoli che tentavano di farli tornare sui loro passi con implorazioni e lamenti e promettendo grandi cose, Sicinio rispose: «Che cosa avete in mente, o patrizi, che ora pregate per il ritorno di coloro che avete scacciato dalla loro patria e che avete reso schiavi da liberi che erano? Quale fede ci offrirete a salvaguardia di quelle promesse cui ormai troppe volte a voi è stato biasimato di esser venuti meno? Suvvia, visto che mirate ad avere da soli il possesso della città, ritornateci e non avrete più alcun fastidio dai poveri e dai miseri; a noi invece sarà sufficiente poter aver come patria ogni terra, qualunque essa sia, purché in essa ci sia possibile godere della libertà».

[XLVI 1] Allorché tali cose furono riportate a coloro che erano in città, si generarono trambusto e pianto e un generale accorrere per le strade, sia il popolo che si accingeva a lasciare Roma, sia i patrizi che tentavano di distoglierlo e facevano ricorso alla violenza contro chi opponeva resistenza. Forti erano le grida e i lamenti presso le porte, e le accuse e le ostilità reciproche, e nessuno più diversificava l'età o l'amicizia o l'omaggio dovuto al valore. Ma quelli che erano stati collocati a presidiare le uscite - erano infatti pochi e non più capaci di opporre resistenza - furono costretti dal popolo a lasciare il posto di guardia, allora finalmente i plebei in massa si sparsero fuori, e i sentimenti erano simili a quelli di una conquista della città, d'altra parte c'erano i lamenti di coloro che rimanevano, e le reciproche accuse nel vedere la città disabitata. Dopo di questo, molte furono le riunioni del senato e molteplici le incriminazioni contro i capi della secessione. In tale frangente anche i popoli nemici li assaltavano, distruggendo i campi fino alla città. I rivoltosi si procacciarono i necessari rifornimenti dalle campagne vicine, senza danneggiare oltre le distese di terreno, restarono all'aperto e diedero accoglienza a tutti coloro che in gran numero giungevano dalla città e dalle fortezze circostanti. [3] Accorrevano infatti presso di loro non solo quelli che volevano sottrarsi ai debiti, alle condanne e alle punizioni che si attendevano, ma anche altri, che vivevano nell'ozio e nell'indolenza o sprovvisti dei mezzi sufficienti ad appagare i loro desideri o coloro che praticavano cattive abitudini o provavano invidia della prosperità degli altri o quanti per qualche altra motivazione o sorte avversavano l'attuale ordinamento politico.

[XLVII 1] Allora un violento sconvolgimento e spavento s'im-padronirono dei patrizi, insieme al terrore che i ribelli alleatisi con i nemici esterni fossero in procinto di attaccare la città. Poi, come a un unico richiamo, prese le armi ciascuno con i propri clienti, alcuni si adoperarono per la difesa delle vie attraverso cui presupponevano che sarebbero giunti i nemici, mentre altri si diressero alle fortezze per presidiarle, e altri ancora si accamparono nelle pianure prospicienti la città; e quanti non erano impegnati in alcuna di queste opere, si schierarono lungo le mura. Ma come furono informati che i ribelli non si alleavano ai nemici, non devastavano le campagne e non recavano alcun altro danno notevole, posero fine ai loro timori e si accinsero a riflettere sul modo in cui avrebbero potuto ricomporre l'amicizia con loro: furono espressi discorsi di ogni sorta e diversificati gli uni dagli altri da parte dei senatori più autorevoli. Ma i consigli più saggi e più adatti a quel frangente furono espressi dai consiglieri più anziani; costoro sottolinearono che i plebei non avevano attuato la sedizione di propria iniziativa per qualche scellerato piano, ma sia perché indotti dalle proprie fatali sciagure, sia perché tratti in inganno dai loro consiglieri, e valutando il proprio vantaggio con lo sdegno più che con il ragionamento, cosa che suole accadere a una massa priva di cultura; affermavano inoltre che i più erano ben coscienti di aver deciso in modo scellerato e cercavano di eliminare gli errori commessi, qualora si fosse presentata loro l'occasione per correre ai ripari. Avevano infatti un atteggiamento da pentiti e, qualora avessero potuto nutrire una buona speranza per il futuro, con una votazione del senato che avesse loro assicurato l'impunità e avesse proposto loro una dignitosa riconciliazione, avrebbero riacquisito con piacere le loro cose. [3] Oltre a tali suggerimenti i senatori chiedevano anche che uomini più autorevoli non si mostrassero più ostinati degli inferiori, e non volessero procrastinare la riconciliazione al momento in cui il popolo stolto sarebbe stato forzato o a divenir saggio o a curare il male minore con uno più grave, lasciandosi da se stesso sfuggire la libertà con la consegna delle armi e la resa incondizionata, cosa che era vicina all'impossibile. Al contrario facendo ricorso alla moderazione, essi avevano il dovere di dare per primi prudenti consigli e di anticipare gli altri nell'indurre alla riconciliazione, riflettendo che, per quanto sia compito dei patrizi reggere ed essere al comando, i buoni hanno la cura dell'amicizia e della pace. Essi facevano osservare che l'onorabilità del senato non viene meno quando questo consiglio mette in atto una linea saggia di governo, fronteggiando dignitosamente le ineluttabili disgrazie, ma quando, facendo una rabbiosa opposizione ai colpi della sorte, scompagina l'assetto dello stato. E proprio degli sciocchi e di coloro che si preoccupano delle apparenze non darsi pensiero della sicurezza; è infatti auspicabile avere entrambe le cose, ma, se diventa necessario eliminare una delle due, la sicurezza deve essere ritenuta più urgente dell'apparenza. Il fine cui miravano i consiglieri che davano tali suggerimenti era di inviare ambasciatori a trattare la pace con i secessionisti, come se essi non fossero responsabili di alcun danno irrimediabile.

[XLVIII 1] Cosi sembrò opportuno al senato; pertanto scelti gli uomini più adatti, li inviò presso i ribelli che erano nell'accampamento, con il compito di chiedere loro che cosa volessero e a quali presupposti avrebbero accettato di far ritorno in città; infatti, qualora qualcuna delle loro istanze fosse stata misurata e attuabile, il senato non l'avrebbe loro respinta. Qualora tuttavia essi avessero consegnato le armi ora e fossero rientrati in città, sarebbe stata loro assicurata l'impunità per gli errori del futuro e un'amnistia per l'avvenire; inoltre nel caso in cui avessero preso le decisioni migliori per lo stato e avessero fatto fronte con slancio ai pericoli per la patria, ne avrebbero ottenuto gratificazioni decorose e fruttuose. Ricevute queste direttive, gli ambasciatori le riportarono a coloro che erano nell'accampamento e si espressero in modo consono a esse. Ma i ribelli non accolsero queste istanze, anzi rinfacciarono ai patrizi la loro prepotenza, inflessibilità e la scaltra abilità nel mascherare l'inganno, da una parte, di fingere di non vedere le esigenze del popolo e le motivazioni che lo avevano indotto alla secessione, e, dall'altra, gli assicuravano l'impunità dalla stessa, come se fossero stati gli arbitri assoluti della situazione. E si comportavano in tale modo, sebbene fosse loro necessario l'aiuto dei cittadini contro i nemici esterni, che erano in procinto di piombare sulla città da un momento all'altro con l'intera armata, nemici contro i quali essi non erano capaci di opporre resistenza, visto che erano abituati a vedere nella salvezza non un utile personale, ma una fortuna per quelli che avevano il dovere di sostenerli in battaglia. Infine aggiunsero che, come ora i patrizi avevano maggiori capacità di capire gli affanni che tormentavano la città, avrebbero avuto anche la consapevolezza di quali avversari sarebbero stati forzati a fronteggiare, e le ultime parole furono numerose e pesanti minacce. [3] Gli ambasciatori, ottenute tali risposte, andarono via, senza ribattere nulla e riferirono ai patrizi le repliche dei rivoltosi. La cittadinanza, appena ebbe tali risposte, precipitò nel caos e in uno spavento più devastante che prima; il senato d'altro canto non riusciva a escogitare una soluzione né a rimandare la questione, ma, dopo che ebbe preso atto delle offese e delle accuse reciproche che i consiglieri pié influenti si scambiavano, sciolse la seduta; d'altra parte i plebei, che si trattenevano ancora in città indotti dalla benevolenza verso i patrizi o dall'amor di patria, non avevano più lo stesso pensiero di prima, ma una gran parte di essi si era dispersa sia palesemente che celatamente, e sembrava che non si potesse nutrire alcuna fiducia in quelli che erano restati. Mentre lo stato delle cose era tale, i consoli era ormai ridotta la durata della carica rimasta loro — stabilirono un giorno per i comizi.

[XLIX 1] Quando giunse il momento in cui si doveva varare la nomina dei magistrati che erano convenuti nella pianura, poiché nessuno di essi acconsentiva ad assumere il consolato assegnatogli, il popolo stesso designò consoli tra coloro che avevano già ricoperto la carica ed erano ben accetti sia al popolo che agli aristocratici, Postumio Cominio e Spurio Cassio, per opera dei quali i Sabini, dopo aver subito una sconfitta, avevano smesso di mirare all'egemonia al tempo della settantaduesima Olimpiade, anno in cui vinse la gara dello stadio Tisicrate di Crotone e ad Atene era arconte Diogneto. [2] Assunto il consolato alle Calende di settembre, in anticipo rispetto al tempo regolare dei predecessori. Prima che affrontassero qualsiasi altro problema, riunito il senato, essi giudicarono opportuno esporre la loro opinione sul ritorno della plebe. Fu invitato a prendere per primo la parola Menenio Agrippa, persona che allora era nel pieno dell'età matura ed era ritenuto migliore degli altri per saggezza e godeva di una stima particolare in virtù dei principî cui s'ispirava la sua attività politica, che, situandosi in una posizione di centro, non contribuiva a promuovere l'arroganza né d'altra parte assecondava tutte le istanze del popolo. [3] Egli esortò il popolo alla pacificazione con il seguente discorso: «O senatori, qualora si raggiungesse l'unanime accordo degli astanti e nessuno avesse intenzione di ostacolare la riconciliazione con i plebei, ma si sollevasse la questione sulle modalità dell'accordo con essi, siano esse rette o inique, io vi esporrei concisamente quel che penso. Ma dal momento che alcuni sono certi che il senato debba ancora raggiungere l'accordo su questo dilemma, vale a dire se sia per noi preferibile giungere a un accordo con i secessionisti o al contrario contrastarli, non reputo sia semplice per me un'esposizione di poche parole su che cosa bisogna esortare a fare, ma occorre che io con un discorso più dettagliato chiarisca le idee a quanti fra voi la pensano in maniera diversa sulla riconciliazione. Il problema nasce dal fatto che costoro suggeriscono soluzioni incompatibili e che, mirando a infondere terrore in voi che già siete spaventati per le motivazioni di poco conto e che in verità sono agevolmente rimediabili, lasciano da parte i mali più grandi e insanabili e vi offrono tali bei suggerimenti per l'unico motivo che essi prendono in considerazione ciò che è opportuno, facendo ricorso non alla razionalità, ma all'impulso e alla follia. Come infatti possono affermare di aver ponderato con prudenza le misure vantaggiose o almeno effettuabili coloro che presumono che una città siffatta, detentrice di un cosi vasto dominio e già divenuta oggetto d'invidia e di ostilità da parte dei popoli vicini, sia in grado vuoi di tenere in pugno le altre genti senza il sostegno dei plebei vuoi di introdurre al suo interno un altro popolo più energico in luogo di uno più scellerato pronto a lottare non per la propria ma per l'egemonia di quello e che infine miri con esso a costruire un unico stato, realizzando una grande sicurezza sociale e dando prova di moderazione sia in tempo di pace che di guerra? Solo questo discorso potrebbero rivolgervi quanti reputano bene distogliervi dall'accettare la riconciliazione.

[LXXXIII 1] Non appena pose fine al suo discorso, tutti i presenti acclamarono manifestando il loro consenso a lui, che aveva detto le cose dovute. Dopo di ciò, quando la situazione fu di nuovo tranquilla, segnalò di voler anch'egli prendere la parola Menenio Agrippa, il quale pure in senato aveva fatto discorsi a sostegno del popolo ed essendo egli stato promotore dell'invio di un'ambasceria plenipotenziaria, ne era stato il principale attore. Ai plebei il suo intervento sembrò essere proprio ciò che si auspicavano e presupposero che ora finalmente avrebbero ascoltato parole sincere e consigli fruttuosi per entrambe le parti. [2] Dapprima tutti applaudirono con gran fragore sollecitandolo a parlare; poi si placarono e nell'assemblea regnò un silenzio cosi assoluto che quel luogo sembrava esser divenuto un deserto. Parve dunque che egli si avvalesse in linea generale, per quel che poteva, di discorsi molto convincenti e in sintonia con la volontà degli ambasciatori e che abbia concluso la sua allocuzione narrando alla maniera di Esopo una favola e che aveva grande somiglianza con la situazione presente e che proprio con questa li abbia persuasi. Per questa ragione il suo discorso è degno di essere menzionato ed è riportato in tutte le storie antiche. Le parole da lui riferite sono le seguenti: [3] «O plebei, noi siamo stati inviati a voi dal senato, non per difendere loro e accusare voi — non sembrava infatti che le circostanze questo richiedessero né fosse un bene per le condizioni in cui ora versa lo stato, ma per porre fine alla secessione con tutta la disponibilità e con ogni mezzo e per ripristinare l'assetto primitivo dello stato, ed è per questa ragione che siamo investiti di pieni poteri. Pensiamo pertanto che non si debba andare per le lunghe, come ha fatto il qui presente Giunio; al contrario riguardo alle eque condizioni cui riteniamo che si debba trattare la riconciliazione, e in merito alla garanzia dei nostri accordi, vi riferiremo quanto abbiamo stabilito. Considerando che ogni insurrezione in ogni stato si debella con la rimozione delle cause che hanno determinato il sorgere della discordia, ci è parso imprescindibile analizzare e porre fine ai moventi che sono all'origine del dissenso. Abbiamo scoperto infatti che le riscossioni dei crediti rigorosamente regolamentate sono state la causa dei mali presenti e pertanto abbiamo fatto una rettifica: noi riteniamo giusto che a coloro che hanno contratto dei debiti, che non possono pagare, siano condonati i loro debiti. E se qualcuno, essendo in mora, è pressato dalle scadenze stabilite dalla legge, noi decidiamo che anche costoro siano assolti. E quanti, condannati in cause private, sono stati rimessi alla parte antagonista vincente, vogliamo che anche costoro siano liberi e revochiamo la loro condanna. Quanto ai debiti contratti in passato, che ci sembra siano l'origine della vostra secessione, li abbiamo regolati in questo modo; riguardo ai vostri debiti futuri le condizioni saranno come sembrerà a voi, plebei, e ai senatori riuniti per deliberare, una volta che sia entrata in vigore la legge. Non erano forse queste, o plebei, le controversie che vi mettevano in conflitto con i patrizi e non credevate che sarebbe stato sufficiente per voi riuscire ad avere ciò e non esigevate null'altro ? Ora vi è accordato. Dunque tornate con gioia in patria.

[LXXXIV 1] Le garanzie che renderanno saldi questi accordi e che vi offriranno la sicurezza saranno tutte quelle che le leggi e la tradizione impongono per chi scioglie una discordia. Il senato approverà con una votazione e ratificherà sotto il profilo legale gli accordi che avremo scritto. Anzi siano qui scritte da voi le vostre richieste e il senato le accoglierà. [2] Poi quanto al fatto che le concessioni fatte ora abbiano carattere definitivo e che per l'avvenire il senato non avanzerà alcuna proposta contraria garantiamo in primo luogo noi ambasciatori e come pegno vi offriamo le nostre persone, la nostra vita, la nostra famiglia, in secondo luogo gli altri senatori il cui nome sarà trascritto nel decreto. Nulla infatti sarà deliberato contro il popolo se noi opponiamo il nostro veto, poiché noi siamo i capi del senato e manifestiamo le nostre opinioni prima degli altri. [3] Avrete infine quel pegno che esiste per tutti gli uomini, sia Greci che barbari, che lo scorrere del tempo non sopprimerà mai, cioè i giuramenti e gli accordi, mediante i quali si rendono gli dèi garanti degli accordi, pegno con il quale si è posto fine a numerose amare discordie tra privati come molte guerre tra stati. Orsù accogliete questo pegno, accordate a pochi rappresentanti del senato di giurare a nome dell'intero senato oppure chiedete che coloro che siglano queste decisioni prestino giuramento, nel corso dei sacrifici, di difendere la sacralità. E tu, Bruto, non tradire la fede garantita dalle destre e dagli accordi, in nome degli dèi e non cancellare la pill sacra tra le istituzioni umane, e voi non consentitegli di parlare delle violenze degli empi e dei tiranni che sono molto distanti dal prestigio dei Romani.

[LXXXV 1] Dopo aver espresso ancora una sola garanzia che non è sconosciuta da alcuno né confutata, smetterò di parlare. Qual è dunque questa garanzia? E quella che coinvolge l'interesse comune e che consente che entrambe le parti in competizione siano salve l'una grazie all'altra. Essa è certamente la prima e sola garanzia che ci rende uniti e che non lascerà mai che ci dividiamo. Infatti la plebe incolta avrà sempre bisogno di una guida assennata, come d'altronde il senato, in grado di offrire tale guida, ha bisogno di masse che vogliano essere governate. E ne siamo consapevoli, non solo perché lo fondiamo su una supposizione, ma anche perché l'abbiamo sperimentato nella realtà. [2] Perché dunque siamo intimoriti e ci creiamo difficoltà reciprocamente ? Perché teniamo discorsi malvagi piuttosto che compiere buone azioni pur avendo le occasioni tra le mani ? Perché non apriamo le braccia, stringiamo le destre e non facciamo ritorno in patria per riprendere l'antica letizia degli affetti più cari e il desiderio più dolce di tutti, invece di cercare dei pegni impossibili, delle promesse a cui non prestar fede, come i nemici più ostinati che sospettano le cose peggiori in tutto? O plebei, a noi che siamo inviati dal senato è sufficiente una sola promessa, cioè che voi, se ritornate, non nutrirete odio verso di noi che siamo consapevoli della vostra educazione, dei vostri costumi conformi alla legge e a ogni altra virtù di cui avete dato prova sia in pace che in guerra. [3] E se in virtù della necessità della fiducia e della speranza gli accordi subissero una rettifica adottata di comune accordo, siamo persuasi che anche sotto ogni altro aspetto voi sarete dei bravi cittadini e non abbiamo bisogno né di giuramenti né di ostaggi né di ogni altra assicurazione da parte della plebe. Di sicuro non contrasteremo alcuna delle vostre richieste. E quanto all'attendibilità, per la quale Bruto provava a calunniarci, sia sufficiente quanto detto. Ma se resta in voi qualche giustificato rancore che vi trascina a pensare male del senato, voglio farvi un discorso anche riguardo a questo, o plebei, e, per gli dèi, datemi ascolto con calma e attenzione.

[LXXXVI 1] Uno stato è per certi versi simile a un corpo umano. Entrambi infatti constano di un insieme di molte parti. E di tali parti non tutte hanno la stessa capacità né eseguono le stesse funzioni. [2] Dunque, se le parti del corpo umano assumessero, ciascuna, sensazione e voce propria e poi tra loro nascesse una discordia, per effetto della quale si associassero tutte contro il solo ventre, e i piedi dicessero che tutta la fatica ricade su di loro, le mani che esse eseguono i lavori, provvedono al necessario, combattono contro i nemici e offrono molti altri vantaggi comuni; le spalle che esse sorreggono tutti i pesi su di sé; la bocca che parla; la testa che vede, che ascolta e che, ricevute tutte le altre percezioni, in virté delle quali il corpo si mantiene in vita, le memorizza; se poi dicessero al ventre: "Ma tu, mio caro, quale di queste funzioni svolgi? O qual è il tuo compenso o il tuo vantaggio per noi? Anzi sei tanto lontano dal fare e dal collaborare con noi nel provvedere a qualche utile comune che addirittura fai il contrario dai fastidio e ci obblighi a prestarti servizio e a recare da ogni parte ciò che serve a saziare i tuoi piaceri, cosa che è davvero intollerabile. [3] Allora, perché non reclamiamo la nostra libertà e non ci scrolliamo dei numerosi oneri cui ci sottoponiamo per lui? " Se le membra venissero a patti su tale decisione e nessuna svolgesse più la propria funzione, è possibile che il corpo sia in grado di resistere a lungo o piuttosto non si spegnerebbe in pochi giorni della peggiore delle fini, per fame ? Nessuno potrebbe dire il contrario. Figuratevi dunque una situazione simile riguardo allo stato. Molte sono infatti le classi di cui consta anche questo e nessuna simile all'altra, ciascuna delle quali esegue una funzione particolare per la comunità come le membra del corpo. Alcuni infatti coltivano i campi, altri combattono per difenderli contro i nemici, altri importano molte merci utili per mare, altri ancora svolgono le attività necessarie. Ma se tutte queste classi insorgessero contro il senato che è composto di aristocratici e dicessero: "Tu, o senato, quale bene ci offri e in ragione di che cosa ti arroghi la prerogativa di comandare sugli altri ? Non potresti citarne neppure uno e noi allora non ci sgraveremo di questa tua tirannide e non vivremo dunque finalmente senza un capo? " [5] Se dunque pensando in questo modo lasciassero le loro consuete occupazioni, che cosa potrebbe impedire che questo infelice stato soccomba miseramente per la fame, per la guerra e per ogni altra sciagura ? Comprendete dunque, o plebei, che come nel nostro corpo il ventre cosi vilipeso ingiustamente da molti, provvede ad alimentare il corpo essendone alimentato e lo mantiene in vita e ne è mantenuto, ed è come un banchetto preparato in comune che in cambio offre a tutti ciò che serve loro, cosi negli stati il senato, che amministra gli affari pubblici e si occupa di ciò che spetta a ognuno, mantiene in vita, salvaguarda e regola ogni cosa. Pertanto smettete di indirizzare parole di odio verso il senato dicendo che siete stati banditi dalla città e che per colpa loro siete poveri e raminghi».

[LX XXVII 1] Mentre Menenio teneva questo discorso, numerose e diverse voci si diffondevano durante tutta la sua allocuzione, ma, quando concludendo si volse ai lamenti e compianse le sciagure che incombevano su coloro che erano rimasti in città e sui secessionisti e sul destino di entrambi, tutti proruppero in lacrime ed elevarono grida comuni di ricondurli in città e di non perdere tempo. E poco mancò che in tutta fretta abbandonassero l'assemblea affidando ogni questione agli ambasciatori, senza essersi dato pensiero di avere nessun altro pegno se Bruto, fattosi avanti, non avesse frenato il loro impulso affermando che le promesse fatte dal senato andavano bene per i plebei ed era giusto essergli grati dei favori fatti; tuttavia diceva anche di temere l'avvenire e gli uomini che prima o poi atteggiandosi di nuovo a tiranni avrebbero tentato, qualora si presentasse l'occasione, di vendicarsi del passato sui plebei. [2] Una sola e unica garanzia c'era per chi ha timore dei potenti, vale a dire che fosse evidente che chi aveva l'intenzione di offenderli non ne avrebbe avuto la possibilità; infatti fino a quando fosse stato possibile compiere delle cattiverie, la volontà di farle non avrebbe abbandonato i cattivi. Nel caso in cui avrebbero ottenuto tale assicurazione, non avrebbero fatto altre richieste. [3] Menenio allora riprese la parola e chiese che Bruto riferisse quale fosse la garanzia di cui riteneva che i plebei avessero ancora bisogno; la sua risposta fu la seguente: «Dateci l'opportunità di eleggere fra noi ogni anno una certa quota di magistrati, ai quali non sarà conferito altro potere se non di prendere le difese dei plebei che subiscano ingiustizie o siano malmenati o che non consentiranno che qualcuno sia privato dei suoi diritti. Questo chiediamo e preghiamo che voi aggiungiate agli altri favori che ci avete accordato, se i patti si fondano nel dare e favorire non a parole, ma di fatto».

[LXXXVIII 1] I plebei, non appena ebbero ascoltato queste, colmarono di lodi Bruto con una grande acclamazione, che echeggiò a lungo, e chiesero agli ambasciatori di accordare loro anche questo. Gli ambasciatori, ritiratisi dall'assemblea, si consultarono tra loro e dopo poco tempo fecero ritorno. Quando ci fu silenzio, Menenio si fece avanti e cosi parlò: «O plebei, la questione è impegnativa ed è piena di molti strani sospetti. Siamo infatti timorosi e impensieriti che formeremo due città in una sola; non respingiamo tuttavia, per quel che concerne le nostre competenze, nemmeno questa vostra istanza. [2] Ma accordateci almeno questo, che è vantaggioso anche per voi. Consentite a qualcuno degli ambasciatori di recarsi in città per illustrare la faccenda al senato. Infatti, per quanto noi siamo autorizzati da parte sua a stringere i patti secondo la nostra volontà, investiti come siamo di pieni poteri di assumere qualsiasi impegno, noi tuttavia non consideriamo giusto prenderci questo impegno, ma, essendosi presentata una condizione nuova e inattesa, rinunciamo al nostro potere e, riferendogli lo stato attuale delle cose, rimettiamo la questione al senato. E siamo convinti che di sicuro anche il senato sarà del nostro stesso avviso. Pertanto io rimarrò qui con una parte degli ambasciatori mentre Valerio con gli altri si recherà a Roma». [3] Tale mozione fu accolta e coloro che dovevano riferire ai senatori quanto era avvenuto montarono prontamente a cavallo e si diressero a Roma. Dopo che i consoli ebbero esposto al senato la faccenda, Valerio fu dell'avviso che anche questa richiesta della plebe fosse accolta. Ma Appio, che sin dall'inizio aveva avversato la riconciliazione, anche allora manifestò la sua opposizione alzando la voce, chiamando gli dèi a testimoni e preconizzando tutti i disastri, di cui si stavano gettando i semi nello stato. Ma non riusci a persuadere la maggioranza che, come ho detto, era pronta a porre fine alla sedizione. Il senato deliberò che tutte le promesse fatte dagli ambasciatori fossero ratificate e cosi accordò la garanzia, di cui avevano fatto richiesta. Il giorno seguente, portato a termine l'accordo, gli ambasciatori fecero ritorno nell'accampamento e resero note le decisioni adottate dal senato. Dopo di ciò Menenio suggeri ai plebei d'inviare in città degli uomini, cui i senatori avrebbero concesso delle garanzie; fu pertanto mandato Lucio Giunio Bruto, riguardo al quale prima ho parlato, e con lui Marco Decio e Spurio Icilio: di coloro che erano venuti da parte del senato, la metà ritornarono in città con gli uomini del seguito di Bruto; Agrippa restò con gli altri nell'accampamento, poiché gli era stato chiesto di redigere la legge in base a cui avrebbero eletto i loro magistrati.

[LXXXIX 1] Il giorno successivo ritornarono Bruto e le persone che erano state inviate con lui dopo aver siglato i trattati con il senato per mezzo dei giudici di pace che i Romani chiamano fetiales. Il popolo, diviso allora nelle fratrie, o comunque si vogliano chiamare quelle che i Romani denominano curiae, designò come magistrati in carica per un anno Lucio Giunio Bruto e Gaio Sicinio Belluto, che fino ad allora avevano avuto come capi, e in aggiunta a questi Gaio e Publio Licinio e Gaio Visellio Ruga. [2] Costoro furono i primi uomini che furono investiti della carica di tribuni della plebe nel quarto giorno prima delle Idi di dicembre, come è ancora oggi consuetudine. Ultimate le elezioni, agli inviati del senato parve che tutte le faccende per le quali avevano avuto la missione fossero compiutamente assolte. Ma Bruto, convocata l'assemblea, consigliò ai plebei di far diventare tale magistratura santa e inviolabile, garantendone la sicurezza con una legge e un giuramento. [3] Poiché tutti furono d'accordo, da lui e dai suoi colleghi fu messo per iscritto il seguente testo di legge: «Che nessuno costringa un tribuno della plebe, come una persona qualsiasi, a fare alcunché contro la sua volontà, né lo frusti, né comandi ad altri di frustarlo, né lo uccida, né comandi di ucciderlo. Se qualcuno commetterà qualcuna delle azioni vietate, sia maledetto e i suoi beni siano consacrati a Demetra, e colui che uccide qualcuno dei rei di tali crimini non sia colpevole dell'uccisione». [4] E affinché per l'avvenire il popolo non avesse la possibilità di abrogare questa legge e che questa fosse eterna, fu ordinato che tutti i Romani giurassero con riti sacrificali di rispettare la legge, essi stessi e i loro discendenti, per sempre, e al giuramento si aggiunse la preghiera rivolta alle divinità celesti e agli dèi degli inferi che essi fossero benevoli a chi osservasse la legge e al contrario avversi ai trasgressori, come rei del peggiore dei sacrilegi. Da ciò nacque per i Romani la consuetudine di considerare sacre le persone dei tribuni, consuetudine che è rimasta intatta fino ai nostri tempi.

[XC 1] Dopo aver cosi votato, allestirono un altare sulla sommità del monte su cui si erano accampati, che chiamarono, come si dice nella loro lingua, di Zeus Deimatios dallo spavento che li prese allora. Dopo aver celebrato i sacrifici in onore di questo dio e aver consacrato il luogo che li aveva accolti fecero ritorno in città insieme con gli ambasciatori. [2] Quando ebbero compiuto sacrifici di ringraziamento anche agli dèi della città, convinsero i patrizi a rendere legale con una votazione la loro magistratura. Accolta anche questa loro istanza, chiesero ancora che il senato concedesse loro di eleggere ogni anno due plebei, che avrebbero eseguito per i tribuni i servigi di cui avessero bisogno, avrebbero giudicato le cause che quelli avessero loro affidato e avrebbero avuto la cura dei templi, dei luoghi pubblici e del mercato, perché fosse provvisto a sufficienza. [3] Dopo che riuscirono a ottenere anche questa concessione dal senato, elessero degli uomini che chiamarono assistenti e colleghi dei tribuni e giudici. Ora in verità, nell'idioma locale, sono denominati, in base a una delle funzioni che svolgono, amministratori dei templi e hanno un potere non più soggetto a quello degli altri magistrati come in precedenza, ma sono assegnati loro svariati compiti impegnativi e per molti particolari sono assimilabili pressappoco agli agoranomoi dei Greci.

Concordanze tra il libro VI di Dionigi ed il libro II di Tito Livio

Dionigi 1 2 4 11,2 21,3 23 - 33 29,2 - 29,5
Livio 21,I 21,2 - 21,4 19,3 - 20,3 19,6 21,5 21,5 - 27,13 24,8 - 25,6
Dionigi 31 32 - 33 34 - 38 39,1 40 42,1 - 43,1 43,2 - 48,3
Livio 26,1 - 26,3 28,1 - 33,3 21,8 - 33,3 30,2 - 30,7 30 30,7 - 31,6 31,7 - 32,8
Dionigi 49 - 69,3 69,3 - 86 87 - 89 91 92 - 94,3 95 96
Livio 32,5 - 32,7 32,8 - 32,12 33,1 - 33,3 33,4 33,5 - 33,9 33,4 33,10 - 33,11

Bibliografia

Dionigi di Alicarnasso
- Le antichità romane, a cura di Francesco Donadi e Gabriele Pedullà, tr. Elisabetta Guzzi, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2010
- ANTIQUITÉS ROMAINES, VI, 1723 uRL