Di un ragionevole diritto di resistenza

Andrea Buratti
Dal diritto di resistenza al metodo democratico
Giuffrè, Milano, 2006

Difficilmente mi capita di parlare di un libro del quale non condivido la tesi. Nel caso del saggio di Andrea Buratti, Dal diritto di resistenza al metodo democratico, sono proprio le conclusioni dell'autore, che in parte non condivido, ad aver stimolato un approfondimento della mia posizione. Queste le conclusioni.

Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, appare chiaro come l'esplicita previsione del dovere di fedeltà alla Repubblica, di cui all'art. 54 Cost., non soltanto non osta al riconoscimento di un diritto di resistenza a tutela della legalità repubblicana, ma addirittura conferma la correttezza di quell'indirizzo dottrinale che, proprio dalla prevalenza del dovere di fedeltà rispetto all'obbligo di obbedienza alle leggi dello Stato ove queste contrastassero con i principi repubblicani, ricavava la natura costituzionale del diritto di resistenza (87). Non a caso l'attuale art. 54 Cost., che prevede il dovere di fedeltà alla Repubblica e l'obbligo di obbedienza alle leggi, è ciò che residua dell'art. 50 del Progetto di Costituzione, monco di quel II comma, dedicato al diritto di resistenza, che il costituente ha preferito sopprimere, salvaguardando forse l'illusione della coerenza intrinseca dell'ordinamento giuridico, ma privando quest'ultimo del suo estremo presidio.

Alla proclamazione della sovranità popolare (art. 1, II co., Cost.) e del « metodo democratico » quale sua forma tipica di espressione (art. 49 Cost.), si accompagnano le massime garanzie costituzionali: il « dovere di fedeltà alla Repubblica » (art. 54 Cost.) e l'irrivedibilità della « forma repubblicana » (art. 139 Cost.). Il diritto di resistenza, posto a presidio dell'ordinamento repubblicano e della sovranità popolare che lo costituisce, serra il catalogo delle garanzie attraverso il richiamo ad una responsabilità politica e ad un patriottismo repubblicano (88) le cui risorse si manifestano nelle prassi oppositive emergenti dalla società civile piuttosto che nel ragionevole e prudente linguaggio delle corti.

Praticamente in questo modo il diritto di resistenza viene posto a presidio dell'ordinamento republicano e della sovranità popolare che lo costituisce senza prevedere alternative.

Di fronte ad un diritto di resistenza così definito, e limitato alla difesa dello status quo, si pone (e mi pongo) il problema di come esercitare questo diritto, che è individuale prima ancora di essere collettivo, se vi fosse la necessità di una nuova e diversa costituzione. Una costituzione che, ad esempio, preveda il diritto di secessione.

Nel caso di una rivoluzione la Costituzione esistente nella concezione sostenuta da Buratti legittimerebbe una controrivoluzione, cioè la guerra civile. Ma, poiché per definizione il soggetto della rivoluzione è il popolo, chi è il soggetto della controrivoluzione?

Si può inoltre obiettare che il dovere di fedeltà alla republica italiana (o a qualsiasi altra forma di governo, republicana o monarchica che sia, in qualsiasi nazione) sarebbe legittimato soltanto se l'adesione ad essa (idem.) fosse oggetto di una libera scelta, cosa che non avviene e non può darsi per scontata in un contratto sociale non esplicito.

Di un mezzo legale di resistenza all'oppressione

Di Antigone e del fuorviante dissidio tra vecchia e nuova legge, locus classicus del diritto di resistenza, non tratterò, poiché non è su questo conflitto che il diritto di resistenza dei moderni si fonda. Neppure tratterò degli equilibrismi di Tommaso d'Aquino, ma entrerò subito in medias res con l'aiuto di una citazione nella quale Buratti dà alla disputa i corpi che le sono propri, quelli di Marie, Jean, Antoine, Nicolas Caritat de Condorcet e Maximilien François Marie Isidore de Robespierre. Dopo la Rivoluzione francese non si tratta di più di affermare o negare il diritto di resistenza, ma se e quale forma dargli.

Il progetto proposto da Condorcet prevedeva, all'art. XXXI della Dichiarazione dei diritti naturali, civili e politici dell'uomo, che i cittadini dovessero godere di un mezzo legale di resistenza all'oppressione, mentre l'articolo successivo (XXXII) si preoccupava di specificarne limiti e condizioni di esercizio:

II y a oppression lorsqu'une loi viole les droits naturels, civils et politiques qu'elle doit garantir.

Il y a oppression lorsque la loi est violée par les fonctionnaires publics dans son application à des faits individuels.

Il y a oppression lorsque des actes arbitraires violent les droits des citoyens contre l'expression de la loi.

Dans tout gouvernement libre, le mode de résistance à ces différents actes d'oppression doit être réglé par la Constitution.

A Condorcet, che riteneva necessario inquadrare il diritto di resistenza in una cornice legale, Robespierre rispondeva che assoggettare la resistenza all'oppressione a forme legali costituiva le dernier raffinement de la tyrannie (135).

Così, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino che precede l'Atto costituzionale della Repubblica francese del 24 giugno 1793, disponeva:

Art. 33. - La resistenza all'oppressione è la conseguenza degli altri diritti dell'uomo.

Art. 34. - Vi è oppressione contro il corpo sociale quando uno solo dei suoi membri è oppresso. Vi è oppressione contro ogni membro quando il corpo sociale è oppresso.

Art. 35. - Quando il governo viola i diritti del popolo, l'insurrezione è per il popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri.

Tuttavia, astraendo dal tono enfatico della proclamazione, appare evidente che, nell'identificare il diritto di resistenza con il dovere d'insurrezione ciò che ne comportava il trasferimento dal piano della resistenza e della conservazione a quello del potere costituente e del diritto di rivoluzione -, i giacobini non modificavano i termini del problema dell'obbligo politico: il dilemma della conciliazione tra diritto individuale alla resistenza ed obbligo politico permaneva così come era posto nella Dichiarazione del 1789, nel rispetto dell'assoluta preminenza riconosciuta al principio di legalità (art. 7 della Dichiarazione dei diritti del 1793), mentre risalta la difficoltà di individuare un criterio giuridico in base al quale distinguere l'insurrezione lecita dall'insurrezione malvagia [..]

Se nel progetto di Condorcet la riduzione della resistenza a garanzia della gerarchia dei poteri costituiti aveva significato la profonda insofferenza della gironda per lo « slittamento » (137) cui la rivoluzione era stata costretta, la proclamazione del diritto di resistenza e del dovere d'insurrezione nella Dichiarazione giacobina appare al contrario volta a legittimare a posteriori le gloriose journées (14 luglio, 10 agosto e 31 maggio-2 giugno) che avevano costituito il viatico della Montagna (138).

Ma, ciò che più importa, i due testi che si sono confrontati rappresentano due differenti percorsi che il diritto di resistenza si trovò a compiere agli albori dello Stato costituzionale: da un lato, « il progetto girondino, nell'invocare la resistenza come « mezzo legale », si sforza di inscriverlo in forme giuridiche strette in cui i fatti di oppressione sono nettamente nominati e qualificati » (139): conquista rivoluzionaria, senz'altro, ma che illustra molto chiaramente come il diritto di resistenza, assorbito dal diritto costituzionale in garanzie tipiche, veda sublimate le proprie radici antagonistiche nei confronti dei poteri costituiti; dall'altro, il progetto giacobino, presentando la resistenza in una forma « délégalisée » (140), la riconduce all'insurrezione (141), identificando così resistenza e rivoluzione (142), secondo una retorica che conoscerà i suoi fasti nel corso dell'ottocento, ma che avrebbe comportato l'annullamento delle specificità restauratrici implicite nell'esercizio del diritto di resistenza (143).

Nel pensiero di Robespierre, l'assorbimento della categoria della resistenza nel più ampio universo concettuale delimitato dal potere contrattuale del popolo costituente è chiarissimo, e dimostra come il discorso lockiano sia stato recepito nella filosofia del settecento in quella componente democratica radicale, implicita nel discorso contrattualistico, e recuperata in questi termini da Rousseau e da Sieyès. In Robespierre, infatti, «è presente la concezione del diritto di resistenza come sanzione per l'inadempimento del contratto sociale da parte dei governanti [... nonché] l'idea ... che la violazione del contratto sociale da parte di chi detiene il potere riporta gli uomini nella situazione precedente al contratto stesso, nello stato di natura, con tutte le conseguenze che ne discendono in ordine alla tutela dei propri diritti » (144). Allo stesso modo, qualsiasi forma di temperamento dei poteri è rifiutata alla luce di un'accezione democratica della sovranità: Non può esistere che un solo Tribuno del popolo: il popolo stesso (145)

Condorcet vs Robespierre dunque. Astrattamente la ragione sembrerebbe stare dalla parte di Robespierre. Se i governanti non rispetteranno la costituzione il popolo insorgerà e la ripristinerà. Ma non è così. È la visione di Condorcet quella che offre maggiori garanzie che la costituzione verrà rispettata perché obbliga ad un confronto prima dell'insurrezione popolare. Condorcet non presuppone che la ragione sia predeterminata prima del confronto. Una costituzione democratica, secondo Condorcet, deve prevedere la possibilità di non essere adeguata ai tempi, se non addirittura intrinsecamente sbagliata e quindi di essere cambiata.

Condorcet introduce nel concetto di costituzione l'idea che si debba dare al popolo la voce, prima di arrivare all'exit rappresentato dall'insurrezione e dalla rivoluzione. La costituzione deve contenere un mezzo legale di resistenza alle errate applicazioni della stessa costituzione ed agli errori che essa stessa può contenere.

In questo senso la democrazia costituzionale, così come è stata concepita da Condorcet, non è la chimerica espressione di diritti immutabili e mai raggiungibili. Il progetto "girondino" di costituzione sebbene respinto è, per comune opinione, il più democratico che la Francia abbia mai conosciuto.

Condorcet lavorò presto e bene [..] tanto da poter dire con assoluta certezza che quelle pagine così tecniche, segmentate in titoli, sezioni, articoli, commi e capoversi costituiscono uno dei risultati più significativi dell'illuminismo giuridico e una delle massime espressioni del riformismo legislativo democratico di tutti i tempi.

Con questo credo di aver chiarito la posizione che intendo sostenere.

Il vaso di Pandora del diritto di resistenza

Citazione senza commento. Il senso mi sembra intuitivo e condivisibile. Il diritto di resistenza non è un concetto univoco ed il suo utilizzo è fonte di confusione.

La riapertura del vaso di Pandora del diritto di resistenza riconduce dunque al nodo dell'obbligo politico in una società democratica e pluralistica, da un lato rammentando che « anche gli ordinamenti giuridici più democratici non possono prescindere da un margine di eteronomia, di pura forza, senza il quale non sarebbero più ordinamenti coercitivi » (151), dall'altro invitando a riconsiderare le modalità procedurali della deliberazione di maggioranza: essa potrà pretendere obbedienza solo nella misura in cui sia maturata in un contesto proceduralmente corretto, che integri standard comunicativi in grado di garantire la trasparenza della dialettica parlamentare, la ponderazione di interessi e ragioni dissenzienti, in definitiva, lo svolgersi di quel «metodo democratico» che, inteso nella sua valenza procedurale minima, residua come unico valore preselezionato in società ad elevato tasso di disomogeneità.

E evidente tuttavia che le prestazioni legittimanti rese dalle prassi discorsive nei processi deliberativi democratici possono aspirare a risolvere il conflitto tra ragioni del singolo e deliberazione di maggioranza solo a costo di un'astrazione dalle reali condizioni di dissenso e dalle fratture che attraversano le società contemporanee, la cui eterogeneità talora coinvolge la stessa concezione di «metodo democratico» e che non necessariamente converge nell'accoglimento del «principio del dialogo» (152).

Di fronte a tale dilemma, suscettibile di ulteriori complicazioni, l'analisi giuridica si arresta, mentre al singolo sembra non residuare alcuna alternativa tra l'obbedienza e la secessione dalla propria comunità (153).

Ad esempio il diritto alla secessione legislativa non può essere inteso come obbligo all'espatrio. Posto che in un mondo globalizzato il diritto tenderà ad uniformarsi il dissenso sulle leggi, e quindi il diritto di resistere ad esse, diverrebbe impraticabile.

Diritto di resistenza e rivoluzione

Che esista una relazione tra resistenza all'oppressione e insurrezione e poi rivoluzione è provato dalla storia. Ma quale sia questa relazione è controverso. Nel ragionamento che segue il diritto che nasce dalla resistenza al potere costituito, nella figura dell'oppressore, ovvero la rivoluzione, viene contrapposto al diritto di resistenza del potere costituito al mutamento, ovvero alla rivoluzione. Come si può notare è soltanto una questione di parole.

Il fenomeno della resistenza collettiva, strettamente correlato all'affermazione del principio democratico nella storia del costituzionalismo, deve preliminarmente essere distinto dalla rivoluzione. Mentre infatti la rivoluzione, manifestando la volontà di innovare l'ordinamento, non aspira ad una qualificazione all'interno delle categorie giuridiche proprie dell'ordinamento che mira a rovesciare, la resistenza - specie ove se ne consideri la specifica natura da esso rivestita, di garanzia dell'ordinamento giuridico azionabile come extrema ratio, una volta esperito ogni ulteriore rimedio predisposto dall'ordinamento - si pone l'obiettivo di conservare un ordine che appare minacciato, sviato (56). L'analisi comparata ha fatto emergere come il diritto di resistenza collettiva, inteso quale istituto di garanzia della normatività della Costituzione e dei principi di regime, costituisca un corollario del principio democratico. Peraltro, la peculiarità di simile garanzia della sovranità popolare comporta che la sua legittimità prescinda da un esplicito riconoscimento costituzionale e persista come risorsa estrema ed ineludibile degli ordinamenti costituzionali contemporanei (57).

Se esiste un diritto-dovere costituzionalmente stabilito di difendere l'ordine costituito, anche di fronte alla rivoluzione, cioè all'atto estremo di ribellione a quello stesso ordinamento sentito come iniquo dal popolo (questa è l'unica definizione corretta di rivoluzione) allora, anche per questo diritto di resistenza, vale il ragionamento di Robespierre, seppure capovolto. Buratti nota come all'Assemblea costituente fu posta la questione dell'inserimento del diritto di resistenza in Costituzione.

l'ipotesi di una vigenza del diritto di resistenza, a prescindere dall'assenza di un suo riconoscimento formale nella Costituzione, è stata al centro del dibattito teorico già a partire dalla riflessione dedicata dall'Assemblea costituente al II comma dell'art. 50 del Progetto di Costituzione (58).

Ma non se ne fece nulla, nel dibattito prevalse la concezione attribuita a Robespierre. Il diritto di resistenza come diritto extra legem, inalienabile, ma inesprimibile.

Nel dibattito svoltosi in seno all'Assemblea costituente [..] emerse chiaramente la contraddittorietà insita nel procedere ad una codificazione di un diritto per sua natura insuscettibile di predeterminazione normativa. Esso, infatti, qualificandosi come garanzia extrema ratio di un ordinamento che ha già predisposto ogni forma di tutela di se stesso contro qualsivoglia lesione della legalità costituzionale, fino alla più sofisticata costituita dal sindacato di legittimità costituzionale delle leggi, rifugge qualsiasi tipizzazione procedurale (59).

Così, tanto gli argomenti svolti a favore del mantenimento del II comma dell'art. 50 del Progetto di Costituzione nel testo definitivo, quanto quelli addotti in senso sfavorevole, non appaiono privi di fondamento: da un lato, coglieva nel segno chi, muovendo dalla distinzione tra resistenza e rivoluzione, sottolineava la necessaria appartenenza del diritto di resistenza all'arsenale delle garanzie costituzionali:

Il comma che tanto spaventa non è se non il corollario, logico prima che giuridico, di tutti i diritti di libertà e di tutti i diritti politici garantiti dalla Costituzione. In che consisterebbe tale garanzia, se i singoli cittadini e le collettività dovessero considerarsi obbligati alla obbedienza passiva anche di fronti ad atti e ad ordini della pubblica Amministrazione che manomettessero quei principi e quei diritti? La resistenza non è un'aggressione e tanto meno una rivoluzione; essa è una difesa (60).

D'altro canto, non errava neppure chi — pur mantenendosi all'interno delle strette maglie imposte dall'identificazione tra diritto vigente e diritto codificato - sottolineava

la intollerabile antinomia di una disposizione legislativa, e quindi di carattere positivo, che preveda la conseguenza giuridica di una contrapposizione non fra lo Stato ed il diritto naturale, ma fra lo Stato e la legge positiva, cioè l'ipotesi di una crisi assoluta della giuridicità, e mentre la prevede, come situazione antigiuridica, pretende anche di regolarla giuridicamente (61).

Quest'ultimo ordine di argomentazioni — che ebbe infine il sopravvento — non negava valore al principio della resistenza, né ne escludeva la capacità di porre in essere effetti giuridico-costituzionali, ma ne postulava l'esclusione dalle categorie valutative del diritto, incapace di qualificarlo secondo i suoi strumenti ordinari:

La pretesa di disciplinare legalmente l'insurrezione, come si vorrebbe, è infantile. La rivolta contro i pubblici poteri è giudicata, giustificata o condannata volta a volta dal successo o dall'insuccesso (62).

Una posizione espressa con lucidità in sede costituente da Costantino Mortati:

Circa la sostanziale esattezza e, vorrei dire, la santità di questo principio, nessuno potrebbe sollevare delle obiezioni, e tanto meno noi cattolici, poiché è tradizionale nel pensiero cattolico l'ammissione del diritto naturale alla ribellione contro il tiranno. Ci sono scrittori cattolici che riconoscono la legittimità perfino della soppressione del tiranno. Quindi non è al principio che noi ci opponiamo, ma alla inserzione nella Costituzione di esso, e ciò perché a nostro avviso il principio stesso riveste carattere metagiuridico, e mancano, nel congegno costituzionale, i mezzi e le possibilità di accertare quando il cittadino eserciti una legittima ribellione al diritto e quando invece questa sia da ritenere illegittima. Siamo condotti con questa disposizione sul terreno del fatto, e pertanto su un campo estraneo alla regolamentazione giuridica (63).

È da condividere - in ultima analisi — il giudizio secondo cui dal silenzio della Costituzione può sì ricavarsi la inorganizzabilità in forme giuridiche della resistenza, ma non dedurre la sua antigiuridicità, intesa quale giudizio di non conformità all'ordinamento giuridico (64).

Note finali

Non si può condividere la riduzione del diritto di resistenza alla difesa della Costituzione. Trovo del tutto infondate le considerazioni con le quali si pretende di concepire il diritto di resistenza come "diritto di resistenza alla rivoluzione".

Altresì identificare resistenza all'oppressione e rivoluzione ha come conseguenza la negazione del diritto di resistenza ogniqualvolta non ottenga l'effetto di rovesciare il potere costituito, il ché non è quasi mai l'obiettivo dal quale la resistenza ha avuto inizio.

Il diritto di resistenza, nella formulazione à la Robespierre è il diritto che il vincitore riconosce a sé stesso e nega allo sconfitto.

Non considerare questo fatto determina il misconoscimento del diritto di resistenza, che non è il diritto di fare la rivoluzione, che non è un diritto in quanto la rivoluzione (come dice l'etimo, volgere indietro) è un ritorno su se stessi e non ha bisogno di nessuna autorizzazione.

L'equivoco nasce dal considerare la situazione esistente sempre la migliore. La teodicea del migliore dei mondi possibili impedisce di concepire un altro mondo (quale esso sia) e impedisce quindi di immaginare qualsiasi cambiamento che non sia rivoluzionario. Solo la prospettiva del progesso in quanto perfettibilità consente di relativizzare l'esistente ed accogliere l'idea che l'altro possa desiderare un mondo diverso e, per questo, si opponga alla legge e al diritto costituito.

Solo una costituzione che, sul modello proposto da Condorcet, consenta di dissentire e di modificarsi, anche in modo radicale, pur senza uscire dal confronto, è in grado di rispondere alle esigenze poste dalle differenze evidenziate della globalizzazione.

Qui mi fermo perché il vaso di Pandora è scoperchiato.

MP

Bibliografia

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