Le pensioni d’oro non si toccano

La casta, come spesso accade in questo Paese, ha vinto un'altra volta. E la casta degli intoccabili, salvati nei giorni scorsi da una sentenza della Corte Costituzionale è quella dei pensionati ricchi.
Ha suscitato sdegno la sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale il contributo sulle pensioni d'oro introdotto nell'estate del 2011 dal governo Berlusconi e poi rafforzato dal governo Monti

Fra le reazioni alla sentenza le dichiarazioni di Giorgia Meloni richiamano l'attenzione sulla diversa sorte delle leggi che hanno introdotto il sistema pensionistico contributivo creando una discriminazione tra giovani e vecchi. Incostituzionale è il precedente sistema retributivo che ad uguale contribuzione faceva corrispondere pensione diversa.

Considero vergognosa la sentenza della Corte Costituzionale: gli italiani devono sapere che quello che è stato dichiarato incostituzionale è chiedere un contributo di solidarietà del 5% per la parte che eccede i 90 mila euro l’anno di pensione. Mi chiedo perché la Corte, che guarda caso è composta da tutti i pensionati d’oro, non abbia mai ritenuto di considerare incostituzionale sulla base dell’art. 3 della Costituzione, invece, l’introduzione del sistema contributivo che condanna intere generazioni a non prendere mai una pensione decente a fronte di centinaia di migliaia di pensionati d’oro e il blocco delle indicizzazioni di quelle della povera gente da 1400 euro.

Veniamo ai fatti. Con la sentenza n. 116 del 5 giugno 2013 (presidente Gallo, relatore Tesauro), la Corte Costituzionale:

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, come modificato dall’articolo 24, comma 31-bis, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.

Si tratta del «contributo di solidarietà» imposto sulle pensioni di importo superiore ai 90.000 euri lordi annui, estensione di una norma introdotta nel 2010 (Governo Berlusconi) per gli stipendi dei manager pubblici, e cancellato dalla stessa Corte costituzionale nell'ottobre scorso con la sentenza 223/2012 (anche in quell'occasione il relatore fu Giuseppe Tesauro)

A porre la questione, giunta innanzi alla Corte Costituzionale è stato un magistrato Presidente della Corte dei conti in quiescenza dal 21 dicembre 2007, titolare di pensione diretta di importo superiore a euro 90.000,00 annui, il quale ha chiesto il riconoscimento del proprio diritto di percepire il trattamento pensionistico ordinario, privo delle decurtazioni introdotte dall’art. 18, comma 22-bis, del d.l. 6 luglio n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, nonché la condanna dell’Amministrazione ai conseguenti pagamenti. La Corte Costituzionale gli ha dato ragione.

La pronuncia della Corte Costituzionale appare scontata e sorge il sospetto che la norma sia stata proposta dal governo Berlusconi, reiterata dal governo Monti e approvata dal Parlamento ben sapendo che il prelievo sarebbe stato virtuale. Vediamo ora le motivazioni della sentenza:

Il prelievo, ribadisce la Corte costituzionale, ha natura tributaria (lo aveva già spiegato anche nella sentenza 241/2012), perché determina "una decurtazione patrimoniale definitiva del trattamento pensionistico, con acquisizione al bilancio statale del relativo ammontare". Quando si parla di Fisco, però, le richieste devono essere commisurate alla capacità contributiva (articolo 53 della Costituzione) dei cittadini, che sono "eguali davanti alla legge" (articolo 3), e non si può distinguere tra tipologie di reddito per penalizzare alcuni o premiare altri.

La Consulta:

Quindi trattasi di un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini. L’intervento riguarda, infatti, i soli pensionati, senza garantire il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità di reddito, attraverso una irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi, divenuta peraltro ancora più evidente, in conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’analogo prelievo di cui al comma 2 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010 (sentenza n. 223 del 2012)

Di fronte a questi fatti che cosa deve pensare il cittadino comune: forse che il governo composto da professori e professionisti della politica non sapesse che la norma che si apprestava a proporre era contraria agli art. 3 e 53 della Costituzione italiana?

Va infatti, al riguardo, precisato che i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai fini dell’osservanza dell’art. 53 Cost., il quale non consente trattamenti in pejus di determinate categorie di redditi da lavoro.
A fronte di un analogo fondamento impositivo, dettato dalla necessità di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, il legislatore ha scelto di trattare diversamente i redditi dei titolari di trattamenti pensionistici: il contributo di solidarietà si applica su soglie inferiori e con aliquote superiori, mentre per tutti gli altri cittadini la misura è ai redditi oltre 300.000 euro lordi annui, con un’aliquota del 3 per cento, salva in questo caso la deducibilità dal reddito.
La tassazione non deve essere uniforme, ma la capacità contributiva rispetta i criteri di progressività ed il principio di eguaglianza. La Consulta ha ricordato che “la Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; ma esige invece un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)”. Sentenza n. 341 del 2000. 

La tassazione non deve essere uniforme. Infatti l'art 53 della Costituzione, in contrasto con l'art 3, non specifica, se non indirettamente - in ragione della loro capacità contributiva - che la contribuzione debba essere fondata su criteri di uguaglianza. Nei fatti il secondo comma dell'art 53 che prescrive: Il sistema tributario è informato a criteri di progressività determina una impossibilità tecnica di mantenere l'uguaglianza impositiva. Il criterio di progressività spezza appunto l'uguaglianza formale introducendo un'uguaglianza "sostanziale" che giustifica anche prelievi settoriali. L'unico fondamento della sentenza della Corte è quindi l'art 3 della Costituzione, nella sua interpretazione più formale. Il concetto generale che guida lo spirito dell'art 53, e cioè che l'imposta deve essere uguale a parità di capacità contributiva, dovrebbe quindi essere meglio interpretato.

Ma il reale problema, il non detto, sul quale la Corte Costituzionale non si sofferma, è, come notano Fabio Pavesi sul Sole 24 Ore ed Enrico Marro sul Corriere della Sera, che la determinazione dell'importo pensionistico per alcune classi di pensionati privilegiati è ben superiore alla contabilizzazione attuariale dei versamenti effettuati. E questo è contrario all'art 3 della Costituzione.

[..] la cosa forse più curiosa è che tra i pensionati d'oro ci sono certamente anche gli ex giudici della Corte costituzionale, con assegni superiori ai 20mila euro al mese. Ora, se queste pensioni fossero il risultato dei contributi versati durante la carriera lavorativa ci si potrebbe pure stare. Purtroppo spessissimo sono solo il frutto di privilegi: un regalo ingiusto.
Si dirà che i super-fortunati prendono assegni d'oro perché hanno molto versato nel corso della vita lavorativa. Ma questa è una mezza verità: in realtà le pensioni d'oro in essere sono liquidate con il diseguale sistema retributivo dove la somma dei contributi non corrisponde all'entità assai più elevata delle prestazioni.

Questa stortura del sistema pensionistico italiano, che fa pagare le pensioni dei ricchi ai lavoratori più poveri, è contraria all'art. 3 della Costituzione. Ma nessuno lo ha mai fatto rilevare, neppure la Corte Costituzionale.

La sentenza appare viziata anche dal fatto che si applichi agli stessi giudici che l'hanno emessa. Sembra evidente l'esistenza di un conflitto di interessi che il Costituente non ha previsto.

Le cifre di cui si parla non sono in realtà esigue se comparate con il limitato numero di persone coinvolte.

Già perché i pensionati d'oro, quelli cioè sopra i 90mila euro lordi annui, sono pochi circa 33mila ma pesano molto sul sistema pensionistico. Il valore totale dei loro assegni sfiora i 3,3 miliardi di euro. Non poca cosa per il drappello dei fortunati che da soli incassano l'1,2% dell'intero monte pensioni italiano che viaggia a quota 265 miliardi. [..] Quei 3,3 miliardi di spesa per le super-pensioni a 33mila soggetti valgono poco meno dei 4,1 miliardi che costano le magre pensioni sociali di oltre 800mila italiani.

Come pensa di agire il nuovo governo?

Tre giorni fa il ministro del Lavoro Enrico Giovannini è stato chiaro sulle intenzioni del governo: «Sulle pensioni d'oro non si può mettere un contributo di solidarietà perché è stato bocciato dalla Corte Costituzionale - ha detto - ma si può bloccare l'indicizzazione (ovvero l'aggiornamento Istat)». Un «blocco» - ha aggiunto - che a seconda del livello di importo al quale si fissa «può produrre effetti non trascurabili». Si ripartirà da lì, dopo che ai primi di giugno la Consulta ha stabilito senza ombra di dubbio che il contributo di solidarietà chiesto ai pensionati che prendono più di 90 mila euro lordi l'anno viola la Costituzione.

Appendice

Sulle motivazioni della sentenza il professor Felice Ancora evidenzia tre punti, che riporto qui a titolo di promemoria, poiché su di essi sarebbe utile un approfondimento:

[..] Il primo (recato dal n. 7.2 della motivazione) è che il contributo (di percentuale a salire, dal 5 al 15 per cento in relazione a diversi scaglioni di importo di pensione) è da qualificarsi come tributo. La ragione di ciò è addotta nella circostanza che esso comporta una decurtazione patrimoniale definitiva del reddito pensionistico connessa alla acquisizione al bilancio statale del relativo ammontare. Questa conclusione è identica a quella che la sentenza n. 223 [2012] della Corte costituzionale aveva dato su un contributo analogo, imposto sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici (a sua volta sostenuto da numerosi precedenti sugli elementi idonei ad identificare un tributo, a partire dalla sentenza n. 73 del 2005).
Il secondo (recato dal terz’ultimo capoverso della motivazione) è la esplicitazione che, dal punto di vista della soddisfazione del principio di uguaglianza e dell’adeguamento alla capacità contributiva, occorre che gli eventuali contributi di solidarietà e perequativi resi necessari da esigenze di stabilizzazione finanziaria siano il possibile generali. Da ciò viene la conseguenza che, potendosi scegliere tra due tipi di interventi perequativi solidaristici, quello più particolare, in quanto più esposto a vizi di arbitrarietà e irragionevolezza (se non di rispondenza a pure contingenze), deve essere scartato a favore di quello più generale (la sentenza usa il termine “universale”), a maggior ragione quando il secondo sia in grado di assicurare una più efficace soddisfazione della esigenza finanziaria. Si presenta in questo caso quella preferenza, dal punto di vista della garanzia della imparzialità, per la misura più generale, rispetto a quella più particolare, che spesso si trova nelle scelte del legislatore (v. i minori vincoli di motivazione che circondano gli atti normativi e generali, ex articolo 3 della legge n. 241 del 1990) e che in dottrina generale è stata ammirevolmente spiegata da A. FALZEA (in Ricerche di teoria generale del diritto, Milano 1999, 344-345, in termini di eterna tensione tra opportunità di scelta a priori e opportunità di scelta sulla base del caso formato e, in definitiva, di intima contraddittorietà tra la funzione ordinatrice del diritto, per definizione a priori, e provvedimenti contingenti, legati a singoli casi reali già realizzatisi, e, quindi necessariamente retroattivi).
Il terzo punto (recato dal penultimo capoverso della motivazione) è una precisazione sulla sostanza e natura della pensione e, cioè, che essa è retribuzione differita e costituisce un reddito da considerare consolidato perché risultato finale di fattispecie ormai formatesi completamente e irreversibilmente per l’esaurimento del rapporto di lavoro (e, cioè, per usare le parole della sentenza, per l’esaurimento della “vita lavorativa”). In questo contesto (e, cioè, sempre nello stesso capoverso) c’è una sottolineatura della differenza tra retribuzione e trattamento pensionistico: mentre la prima è componente di un rapporto (detto sinallagmatico) ancora in corso, che è possibile “ridisegnare” e, cioè, adeguare con evoluzioni e cambiamenti e recuperi, l’altro è risultato finale di situazioni ormai irretrattabili. In tali condizioni, secondo la sentenza, la reformatio in pejus del trattamento pensionistico è da considerare più discriminatoria che quella della retribuzione. [..]
MP