John Leslie Mackie

Tratto da Etica: inventare il giusto e l'ingiusto. Contrariamente al solito non distinguerò le parole di Mackie dalle mie.

I diritti, sul piano formale, possono essere di tipi molto differenti, ma la distinzione più basilare è quella tra un diritto-libertà e un diritto-pretesa. Affermare che qualcuno ha un diritto, di qualsiasi tipo sia, significa parlare riguardo a, o dall'interno di un qualche sistema giuridico o morale: il nostro rifiuto di credere nell'esistenza di valori oggettivi porta con sé il diniego che vi sia un qualsiasi diritto auto-sussistente. Affermare che qualcuno ha una qualche libertà, allora, potrebbe voler dire che il sistema in questione, quale che sia, non gli impedisce di agire nel modo indicato — o (parlando dell'interno del sistema) potrebbe significare il riconoscergli il permesso di agire o, esplicitamente, l'astenersi dall'impedirgli di compiere ciò che è libero di compiere. Affermare che qualcuno ha un diritto-pretesa, in maniera simile, potrebbe voler dire che, se quel qualcuno (o un altro individuo che, a suo nome, rappresenti le sue rivendicazioni) reclama qualcosa, qualsiasi cosa sia, a cui ha un diritto, il sistema sosterrà le sue richieste, affinché ottenga ciò che reclama — o (parlando dall'interno del sistema) affermare che egli ha questo diritto potrebbe significare fornirgli un tale sostegno, imponendo ad un altro individuo, o a più di uno, o a un numero indefinito di essi, il dovere di realizzare la sua rivendicazione, se egli la avanza. Una libertà, e un diritto-pretesa ad essa collegato, possono procedere insieme: per esempio, verrà spesso spontaneo associare alla libertà di fare qualcosa, il diritto-pretesa di non venire ostacolati dagli altri nell'esercitare tale libertà. I diritti si presentano spesso a gruppi e il possesso di una proprietà è un esempio tipico. Ora, una delle funzioni che un sistema di diritti può soddisfare è quella di assicurare, per i singoli individui cosi come per i gruppi, aree di libertà d'azione. Questa non è la sola funzione che possono svolgere i diritti, ma è una funzione che nessun altro elemento può svolgete altrettanto bene. Allora, dato che, da parte di ciascun individuo, il perseguire ciò che egli concepisce come la propria felicità rappresenta una parte consistente e centrale di ciò che è una vita buona, necessita di un'area, e preferibilmente di un'area che gli venga assicurata, in cui sia libero di fare quelle scelte che contribuiscono al perseguimento del suo obiettivo.

Considerazioni generali di questo tipo supportano l'idea, secondo cui vi dovrebbero essere alcuni diritti, ma non specificano quali diritti dovrebbero venire riconosciuti. La formulazione di Jefferson, relativa ad un diritto al perseguimento della felicità, è troppo vaga: non specifica alcun contenuto proprio di un diritto, ma piuttosto riassume ciò che ho indicato come ragione, a livello generale, per cui vi dovrebbero essere diritti. In realtà, vorrei difendere due tesi negative, che i diritti particolari non possono venire determinati a priori, su basi generali e che i diritti che vengono riconosciuti, quali che siano, non dovrebbero essere assoluti.

La prima tesi implica che, anche in sede teorica, i diritti possono essere determinati solo facendo riferimento ad un particolare ideale o ad una particolare concezione della felicità, o ad un qualche sistema di diritti che sia già riconosciuto, o ad una qualche interazione tra i due fattori e che, nella pratica, i diritti devono venire determinati dai processi giuridici e politici, in maniera tipica attraverso modificazioni parziali di un sistema esistente, tramite il conflitto e il compromesso tra ideali contrapposti.

È difficile stabilire una tesi negativa di questo tipo, ma cercherò di farlo, criticando un certo tentativo di derivazione a priori. Un diritto particolarmente importante sarebbe quello relativo al possesso della proprietà. John Locke aveva perentoriamente affermato e, recentemente, lo ha riaffermato Robert Nozick, che vi è una legge naturale di proprietà, in base a cui possiamo decidere, indipendentemente da ogni legge positiva o da ogni forma di moralità positiva, che vi è un modo in cui un uomo può legittimamente acquisire una proprietà a cui egli, di conseguenza, avrà diritto; e, inoltre, che vi sono legittimi per il trasferimento della proprietà (per esempio, degli scambi volontari, delle donazioni e dei lasciti); e quindi che, se qualcuno ora possiede una proprietà, o via di un'acquisizione iniziale di tipo legittimo, o come risultato di una serie, per quanto lunga, di trasferimenti legittimi, a partire da qualcuno che inizialmente aveva acquisito la proprietà in questione in maniera legittima, allora egli è titolato a possederla e qualsiasi tentativo di sottrargli anche una parte — per esempio, redistribuirla ad altri che sono in condizioni peggiori — sarebbe ingiusto.

Il principio basilare di Locke è quello secondo cui chiunque ha un diritto esclusivo alla proprietà della sua persona e del suo lavoro; e argomenta che questo genera un diritto esclusivo ad una porzione, quale che sia, di ciò che Dio inizialmente ha dato agli uomini da usufruire in comune, a cui egli aggiunge il lavoro personale. Anche se concordiamo con le premesse offerte da Locke, questo non segue, senza qualificazioni. Se un uomo ha impiegato il proprio lavoro la raccolta delle mele, o per l'estrazione di qualche minerale, o per il disboscamento e la recinzione di qualche terreno, sarebbe naturale affermare che il valore di ciò che, in tal modo, egli possiede deriva da due fonti, in parte dal suo lavoro, ma in parte anche da ciò che era disponibile all'inizio — le mele sull'albero, il minerale nel suolo, la foresta selvatica o la boscaglia. Solo la prima di queste due parti appartiene, in maniera esclusiva, all'uomo: la seconda, in base alle assunzioni di Locke, è proprietà comune di tutti. Per prevenire quest'obiezione, Locke afferma che un individuo può acquisire qualcosa attraverso il proprio lavoro, solo quando quel qualcosa è disponibile in maniera sufficiente e lasciato come bene in comune per gli altri. Se la proprietà comune non viene effettivamente diminuita, i diritti che gli altri vantano nei confronti di ciò di cui un uomo si appropria, aggiungendo ad esso il proprio lavoro, possono venire ignorati: ciò che ho chiamato la seconda parte del valore di qualcosa può essere valutato come nullo e tutto il suo valore complessivo può essere ascritto al lavoro dell'uomo che ha preso possesso di quel qualcosa.

È chiaro che questa clausola vitale — cui fa riferimento Nozick — in base a cui vi dovrebbe essere abbastanza disponibilità di un certo bene, e come bene dovrebbe essere lasciato in comune per gli altri, in generale oggi non può venire soddisfatta, né avrebbe potuto essere soddisfatta, in molti paesi, neppure centinaia di anni fa. Se pensiamo all'acquisizione della terra, può venire soddisfatta solo dove vi sia una 'frontiera' espandibile in maniera indefinita e, se pensiamo a beni mobili, ma durevoli, come i metalli, le pietre o la boscaglia, la clausola può venire soddisfatta solo quando vi siano ampie porzioni inutilizzate, ma accessibili di essi. In un mondo in cui quasi tutte le risorse sono scarse e oggetto di competizione, la teoria di Locke non trova applicazione. Né egli potrebbe sostenere che l'acquisizione, la quale un tempo era legittima, perché la clausola allora veniva soddisfatta, conferisce un diritto permanente alla proprietà, che persiste anche quando la clausola non viene più soddisfatta. Sulla base dei principi di Locke, si dovrebbe presumere che Dio assegni l'intero pianeta in comune, per qualsiasi tempo, a tutti gli uomini che vi sono a quel tempo. Pertanto, quando la clausola vitale non viene più soddisfatta, i beni, che una volta sono stati legittimamente acquisiti, non possono più venire mantenuti attraverso un possesso esclusivo, ma devono essere riconvertiti in possesso comune.

Da qui il sospetto che l'intenzione recondita di Nozick sia quella di sostenere

Lo stesso segue, se spostiamo la discussione dai presupposti teologici impiegati da Locke alla scelta, per esempio, da parte di Rawls, dei principi. Probabilmente, sarebbe ragionevole, per persone che si trovino nella posizione iniziale di Rawls, adottare la regola lockeana circa l'acquisizione della proprietà, assieme alla clausola. Ma, quando la clausola non può venire soddisfatta, quando vi è un problema circa la divisone di risorse che sono scarse, non sarà ragionevole adottare un qualsiasi principio cosi semplicistico, che preveda che un individuo possa acquisire dei beni associando ad essi il proprio lavoro.

Forse, tuttavia, possiamo sviluppare la teoria dei diritti di proprietà basata sul lavoro in un'altra direzione: un uomo è il legittimo proprietario di una qualsiasi parte del valore di qualcosa a cui ha contribuito con il proprio lavoro. Questo principio, semplicemente, evita il problema legato alla distribuzione di risorse scarse, lasciando che venga risolto in qualche altro modo. Ciò che sostiene, riguardo a ciò di cui si occupa, è plausibile (ad esempio sia dal punto di vista di Locke che da quello di Rawls). Ma vi sarebbero difficoltà insuperabili nell'applicarlo nella maggior parte dei casi. Quasi tutti i beni che vengono prodotti mediante il lavoro (per contrasto con le risorse naturali così come sono in situ) comprendono, direttamente o indirettamente, il lavoro di un numero indefinito di persone e, anche ciò che possiamo considerare come il lavoro di un solo uomo, può incorporare tecniche, abilità e conoscenze che provengono da altri. Inoltre, i beni che sono già stati prodotti, possono acquisire maggior valore attraverso il mutare delle circostanze; tali incrementi di valore non possono venire ascritti al lavoro di chi ha prodotto quei beni (ma forse al lavoro di chi ha prodotto altri beni). Egualmente, il mutare delle circostanze può ridurre il valore di mercato. Quando i beni, alla fine, vengono scambiati, pertanto, il loro valore di scambio può avere scarsa relazione, per via della revisione che abbiamo apportato al principio di Locke, con il valore di cui, chi li ha prodotti, è il legittimo proprietario. Né è ovvio che l'eredità sia un modo legittimo, senza restrizioni, per acquisire il possesso di qualcosa. Sembra ragionevole affermare che, se A è il legittimo proprietario di una qualche porzione di proprietà, una delle cose che egli potrebbe fare è quella di darla a B; ma, quando A, essendo morto, non c'è più, i suoi diritti sicuramente scompaiono automaticamente; così i diritti di A non possono più autorizzare che B usufruisca della proprietà. Vi è certo un motivo per riconoscere qualche diritto di lascito e di eredità per la proprietà, ma deve essere messo a fuoco per i suoi meriti specifici e in competizione con altre considerazioni: nessun diritto assoluto di lascito segue dalla sola teoria dei diritti di proprietà basata sul lavoro.

Il principio, così come lo abbiamo rivisto, allora, quanto intrinsecamente plausibile, non si presta, di per sé, ad un'applicazione pratica e non vi sono certo ragioni per supporre che i risultati di un qualsiasi processo ordinario di produzione da parte di un'impresa privata, gli scambi ai prezzi di mercato, i doni e le eredità, rifletteranno tale principio con un qualsiasi grado di accuratezza. Né i beni di proprietà reale, né i beni che fanno parte di un qualsiasi sistema in grado di funzionare possono venire giustificati solo mediante questo principio. Al più, il pensiero che sta alla base di questo principio rappresenta una considerazione tra altre che, ragionevolmente, può venire inserita nella discussione riguardo quali regole concrete sulla proprietà e quali diritti vi debbano essere.

In ogni caso, il possesso di una proprietà costituisce, già di per sé, un insieme di diritti. Non è semplice e non è assoluto: si deve determinare cosa il proprietario può e non può fare con i diversi tipi di proprietà. È difficile, pertanto, aspettarsi che vi sia un qualsiasi modo a priori e semplice per assegnare ciò che, già di per sé, è complesso e variabile.

Tuttavia, la conclusione che possiamo ricavare da questo non è che non vi siano diritti di proprietà (o, in particolare, di proprietà privata), ma solo che questi diritti non possono venire derivati da principi primi auto-evidenti. Devono venire ricavati e creati o modificati attraverso il tempo, per mezzo dell'interazione tra considerazioni e pressioni di vario tipo. Certo, vi è un motivo generale molto forte, fondato sulla legittimità di un considerevole grado di egoismo e di altruismo auto-referenziale, e connesso con ciò che ho proposto come motivo di base per i diritti, intesi come un espediente essenziale per assicurare aree per il libero godimento della libertà, in favore di una qualche forma di proprietà privata. Vi è almeno un punto, tra molti altri, in cui le nostre motivazioni di base per essere insoddisfatti, almeno delle forme più rozze di utilitarismo, hanno delle conseguenze pratiche. Se concepiamo il bene per l'uomo nella forma della felicità, concepita come un singolo, indifferenziato elemento di prima necessità, dovremmo anche supporre che potrebbe venire fornito a tutti, in un qualche modo pianificato in maniera unitaria, se solo potessimo rinvenire un'autorità sufficientemente potente e intelligente e tale da sperare che sia anche ben disposta verso tutti i suoi soggetti; allora, il naturale corollario di ciò sarebbe che la proprietà dovrebbe essere posseduta da tutti in comune, in maniera collettiva, e applicata alla massimizzazione della felicità, sotto la direzione di questa autorità. Ma, se rifiutiamo questa nozione unitaria di felicità e identifichiamo piuttosto il bene per l'uomo con il perseguimento, in parte competitivo, di diversi ideali e di fini privati, allora il possesso separato della proprietà diverrà uno strumento appropriato per questo tipo di perseguimento. Da un punto di vista semplicemente utilitaristico, con la felicità generale intesa come un fine oggettivamente identificabile e intorno al quale si suppone vi sia il consenso generale, i diritti individuali (o dei gruppi) e la proprietà privata verrebbero ad essere dei meri ostacoli al perseguimento più efficiente possibile di questo fine; ma questo non accade più, aver riconosciuto che i fini reali degli uomini sono irrisolvibilmente diversi. In breve, allora, non vi è alcuna legge naturale di proprietà; ma vi è perlomeno una legge naturale, nel senso di Hobbes secondo cui vi dovrebbe essere una qualche legge di proprietà.

Se ci spostiamo dal possesso individuale della proprietà all'occupazione del territorio da parte dei gruppi nazionali, si applicano più o meno le medesime considerazioni. I norvegesi, ad esempio, hanno un diritto a seguitare ad occupare e controllare il territorio che risponde al nome di Norvegia; ma, che essi abbiano questo diritto, non è la conseguenza di alcuna legge di natura assoluta, ma una applicazione, priva di contestazioni, di quei principi, a cui comunemente si appellano i gruppi nazionali e che, di solito, sono pronti a riconoscere, permettendo che vengano formulate rivendicazioni in tal senso, da parte di altri gruppi nazionali. Ma non tutto, in questo contesto, è privo di controversie. Continua ad essere un elemento di disputa internazionale e di negoziazione quanta parte del mare attorno alla Norvegia appartenga al popolo norvegese e quali tipi di restrizioni essi possano applicare all'impiego di tale mare da parte degli altri. Il diritto di una nazione, così come si presenta al momento attuale, nei confronti del proprio territorio, include il diritto di impedire o di limitare l'immigrazione, o di negare la piena cittadinanza agli immigrati e pure ai figli degli immigrati, che siano nati in loco? Ovviamente, questo solleva la questione riguardo cosa precisamente costituisce una medesima nazione col trascorrere del tempo, il potenziale soggetto di diritti che stiamo ora considerando. Inoltre, come è noto, vi sono territori soggetti a disputa — ad esempio, aree di confine e regioni occupate da gruppi che non costituiscono nazioni indipendenti, ma molti dei cui membri vorrebbero che così fosse. Ancora, vi sono territori come quello che un tempo era denominato Palestina; qui i principi che, nel caso della Norvegia, fanno capo in maniera univoca ad un unico gruppo nazionale, a cui appartiene l'area in questione, divergono, alcuni supportano le rivendicazioni degli Israeliani e altri le rivendicazioni degli Arabi Palestinesi. Cipro e l'Irlanda del Nord rappresentano altri due esempi ovvi di diritti prima facie in conflitto, rivendicati da gruppi nazionali distinguibili.

In tali casi, l'appello, da entrambe le parti in disputa, a supposti diritti assoluti è disastroso. Riduce la possibilità di negoziare e di trovare dei compromessi e sembra giustificare qualsiasi forma di atrocità verso il nemico e qualsiasi perdita e sofferenza, dalla propria parte, che siano necessarie per vendicare quei diritti. Ma è perlomeno altrettanto inutile chiedersi quale soluzione massimizzerà l'utilità totale in quell'area, o la felicità come somma della felicità di tutte le persone coinvolte. Non è uno scopo a cui i gruppi in conflitto si possono prefiggere di mirare. Né può essere una soluzione stabile un compromesso che sia un mero compromesso, basato semplicemente sulla forza militare delle parti, al momento attuale. Il solo approccio, a questo problema ingestibile, che sia di qualche speranza è di prendere coscienza della realtà e del probabile perpetuarsi del conflitto tra i diversi scopi, di tentare di portare entrambe le parti a riconoscere i loro diritti prima facie in conflitto come tali e di mirare ad una soluzione che possa essere vista come un compromesso ragionevole tra questi diritti prima facie e che, pertanto, possa venire difesa sul piano morale e non solo politico, alla corte dell'opinione internazionale, in termini di principi che siano già riconosciuti e a cui si possa fare riferimento, con sicurezza, nei casi non controversi.

MP

Bibliografia

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Barbara De Mori
- Cosa sono i diritti morali? : un punto di vista analitico, Verifiche, Trento, 2000
Eugenio Lecaldano
- Un'etica senza Dio, Laterza, Roma-Bari, 2006
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