Progresso e povertà

Il rimedio

Henry George
Progresso e povertà
UTET, Torino, 1888

La più chiara e sintetica presentazione del libro di Henry George Progress and Poverty: che ho trovato è quella dello storico americano Eric Foner. Siccome non potrei scrivere di meglio la userò come introduzione al mio discorso, nel quale attualizzerò l'opera di George in senso più strettamente politico.

Dei molti libri che proponevano rimedi per la diseguale distribuzione della ricchezza, i più popolari furono Progress and Poverty di Henry George (1879), e Looking Backward di Edward Bellamy (1888). Lo straordinario successo di entrambi, che furono tra i libri più venduti del secolo, testimonia quella che George definiva «una coscienza assai diffusa che vi sia qualcosa di radicalmente sbagliato nell'attuale organizzazione sociale». Entrambi gli scrittori cercavano di restaurare un'immaginaria «Età Dorata» della libertà e dell'armonia sociale. Le loro soluzioni puntavano però in direzioni opposte: George verso una società in cui individui autodiretti controllavano il proprio destino all'interno di un mercato del laissez-faire, Bellamy verso un futuro collettivista nel quale l'autonomia personale veniva subordinata al bene comune, determinato collegialmente.

Nessuno sa quanti dei molti lettori di Henry George credessero realmente che l'imposta sulla proprietà terriera — panacea per tutti i mali sociali della nazione — avrebbe aperto la strada a un futuro egualitario, la «città di Dio sulla terra». Ma milioni risposero alla sua esposizione, espressa in un linguaggio semplice, dei rapporti economici esistenti e alla sua appassionata descrizione di come la «miseria sociale», che si era a lungo ritenuta limitata al Vecchio Mondo, avesse fatto la sua comparsa nel Nuovo. La libertà era al centro dell'analisi di George. Il «nome più appropriato» per il movimento politico ipotizzato dal suo libro era «uomini della libertà». Essi avrebbero «fatto per la questione della schiavitù sociale» quello che il Partito repubblicano aveva fatto di recente per la schiavitù dei neri. La libertà politica, scriveva George in conclusione del Progress and Poverty, non aveva senso in mancanza della controparte economica. Se George rifiutava la tradizionale equazione tra libertà e possesso della terra (dal momento che l'imposta rendeva in effetti la terra «proprietà comune» dell'intera società), per altri versi la sua definizione della libertà era totalmente in linea con la corrente di pensiero prevalente. George nutriva una fede ardente nella giustezza del libero mercato; il problema era che il monopolio della terra aveva consentito ai non-produttori di arricchirsi a spese, in egual misura, dei lavoratori e degli industriali. Nonostante l'auspicio di un unico ingente intervento pubblico in economia, George vedeva il governo come un «governo repressivo», la cui funzione nella «cooperativa sociale» del mondo futuro si sarebbe limitata a migliorare la qualità della vita: costruendo «bagni pubblici, musei, biblioteche, giardini», e simili. Il vero laissez-faire, scriveva George, avrebbe risolto il problema dell'ingiustizia sociale: «libertà [è] sinonimo di eguaglianza"

Si noti come Foner sottolinei la compatibilità di libertà e proprietà publica della terra nell'opera di George. Tratto tipicamente americano.

Il testo

Per iniziare ho raccolto alcuni frammenti dell'opera maggiore di Henry George nell'edizione storica della UTET. Per ora mi sono limitato a sottolineare alcuni passaggi, che ritengo di straordinaria attualità, il resto seguirà.

Mi propongo di cercare la legge, che associa la povertà al progresso, che fa aumentare la miseria col crescere della ricchezza e credo che nella spiegazione di questo paradosso noi troveremo la spiegazione di quei corsi e ricorsi di paralisi industriale e commerciale, che, osservati indipendentemente dalle loro relazioni con fenomeni più generali, sembrano inesplicabili.

La causa, che genera la povertà in mezzo all'aumento della ricchezza, è evidentemente quella che si rivela nella tendenza, dappertutto constatata, che hanno le mercedi a discendere ad un minimum. Formuliamo adunque l'oggetto della nostra indagine in questa forma compendiosa:

Perchè, malgrado l'aumento della potenza produttiva, le mercedi tendono a discendere verso un minimum, che procura appena il necessario per vivere?

La risposta della Economia politica corrente si è che le mercedi sono determinale dal rapporto fra il numero dei lavoratori e la somma di capitale destinata all'impiego del lavoro e tendono costantemente a discendere al minimum di ciò che è necessario ai lavoratori per vivere e riprodursi perchè l'aumento del numero dei lavoratori tende naturalmente a seguire e superare qualsiasi aumento del capitale. L'aumento del divisore non essendo rattenuto che dalle possibilita del quoziente, il dividendo può aumentare all'infinito senza dare per ciò un risultalo più grande.

Questa dottrina, nella opinione universale, ha una autorità indiscussa.

Le leggi della distribuzione tra i fattori della produzione

Libro III

La terra, il lavoro e il capitale sono i fattori della produzione. [..] Il prodotto totale è distribuito in retribuzioni a questi tre fattori. La parte che va ai proprietari della terra, come pagamento delle forze o ricchezze naturali, dicesi rendita; la parte, che costituisce la retribuzione per lo spiegamento dell'attività umana, dicesi mercede; la parte, che costituisce il compenso per l'uso del capitale, dicesi interesse. Questi tre termini si escludono l'un l'altro.

Parentesi

Vivendo e facendo le loro osservazioni in uno stato di società, in cui in generale il capitale prende a conduzione la terra e il lavoro, e sembra così essere l'imprenditore e il primo motore dela produzione, i grandi cultori della scienza furono condotti a considerare il capitale come il fattore più importante della produzione. [..] Questa abitudine di considerare il capitale come il padrone del lavoro, da una parte condusse alla teoria secondo cui le mercedi dipendono dall'abbondanza relativa di capitale, non meno che alla teoria, secondo cui l'interesse è in ragione inversa delle mercedi, mentre dall'altra allontanava da verità, che altrimenti sarebbero apparse evidenti. Insomma il passo falso, per ciò che riguarda le leggi della distribuzione, ha fatto traviare l'Economia politica, fu commesso quando Smith, nel suo primo libro, abbandonava il punto di vista espresso nel principio, secondo cui il prodotto del lavoro costituisce la ricompensa i mercede naturale del lavoro, per mettersi a quell'altro, nel quale il capitale è considerato come quello che impiega il lavoro e paga le mercedi.

Questo ordine, dice George, non è quello naturale delle cose dove il capitale viene a trovarsi per ultimo. Anzi, il capitale non è un fattore necessario della produzione. Il lavoro applicato alla terra può produrre ricchezza senza l'aiuto del capitale.


L'azione del progresso materiale sulla
distribuzione della ricchezza

Libro VI

Coll'aver riconosciuto come la rendita sia quella, che si avvantaggia dell'aumento della produzione, che il progresso materiale adduce, mentre il lavoro non ottiene nulla; coll'aver visto come l'antagonismo d'interessi non sia già, come la massa crede, fra il lavoro e il capitale, ma, in realtà, fra il lavoro e il capitale da una parte e la proprietà della terra dall'altra


Il vero rimedio

Libro

Noi abbiamo rintracciato la causa della ineguale distribuzione della ricchezza, che è la maledizione e la minaccia della civiltà moderna, nella istituzione della proprietà privata della terra. Noi abbiamo visto come, finchè durerà questa istituzione, le masse non potranno durevolmente avvantaggiarsi di nessun aumento della potenza produttiva; anzi ogni aumento di questa tenderà sempre a deprimere la loro condizione.

La risposta è: Bisogna che la terra diventi proprietà comune.


La proprietà privata della terra è incompatibile col suo miglior uso

Libro VIII

Un errore é nato dalla tendenza a confondere l'accidentale coll'essenziale - errore, che i legisti hanno fatto del loro meglio per diffondere e che gli economisti hanno generalmente accettato, più che non abbiano cercato di esporlo - l'errore, cioè, che la proprietà privata della terra sia necessaria al migliore suo impiego, e che rifare della terra una proprietà comune sarebbe distrurre la civiltà e ritornare alla barbarie.

Questo errore pub essere paragonato alla idea, che, secondo Carlo Lamb, ha per si lungo tempo prevalso presso i Cinesi, dopo che l'odore del porcello arrosto fa accidentalmente scoperto nell' incendio della capanna di HO-TI, che cioè per far arrostire un porcello fosse necessario mettere il fuoco ad una casa. Ma se, come disse Lamb nella sua briosa dissertazione, bisognò venisse un savio a mostrare ai Cinesi come si potessero arrostire porcelli senza bruciare case, non c'è bisogno di un savio per vedere che cos'è che è necessario al miglior uso della terra: non è la proprietà assoluta della terra, ma la sicurezza pei suoi ammegliamenti. E ciò è evidente per chiunque guardi attorno a sè. Mentre non è punto più necessario fare di un uomo il proprietario esclusivo ed assoluto della terra per indurlo a coltivarla e, in genere, ad ammegliarla, più che non sia necessario bruciare una casa per far arrostire un porcello [..]

[..] La massima parte delle terre della Gran Bretagna è coltivata da fittaiuoli e la più gran parte delle case di Londra sono costrutte su terreni altrui presi a locazione; e lo stesso sistema prevale, più o meno, negli Stati Uniti. Cosi, per l'uso della terra è cosa comunissima l'essere separato dalla proprietà.

Or, tutte queste terre non sarebbero forse egualmente ben coltivate ed egualmente ammegliate, quando la rendita andasse allo Stato o al Comune, di quanto lo sono ora che va a privati? Se nessuna proprietà privata della terra fosse riconosciuta, ma se tutte le terre fossero tenute a questo modo e coloro che le occupano o ne fanno uso pagassero la rendita allo Stato, la terra non sarebbe forse cosi bene e così sicuramente coltivata ed ammegliata come lo è adesso? Non vi può essere che una risposta sola, ed è che non vi sarebbe differenza di sorta. Dunque, la ripresa della terra come proprietà privata non impedisce per

Diritto dei proprietari a un compenso

La proprietà della terra differisce sostanzialmente dalla proprietà dei prodotti dell'attività umana.

è impossibile studiare la Economia politica [..] o pensare alla produzione e alla distribuzione della ricchezza, senza vedere come la proprietà della terra differisca essenzialmente dalla proprietà delle cose prodotte dall'uomo e come essa non abbia base alcuna nella giustizia assoluta.

La considerazione, che sembra rendere esitanti pur quelli, che vedono chiaramente come la terra sia, di diritto, proprietà comune, si è che avendo permesso che la terra fosse tenuta come proprietà legittima, col ristabilire i diritti comuni si commetterebbe una ingiustizia verso coloro, che hanno comperato la terra con ciò, che incontestabilmente era loro legittima proprietà. E cosi si sostiene che, volendosi abolire la proprietà privata della terra, giustizia esige che un pieno compenso sia dato a quelli, che la possiedono oggi; a quel modo che il Governo inglese, quando aboli la vendita e la compera dei gradi (commissions) militari, si senti obbligato a dare un compenso a quelli, che avevano gradi e che li avevano comperati nella credenza di poterli rivendere o come, quando lo stesso governo aboli la schiavitù nelle sue colonie delle Indie occidentali, pagò 100 milioni di dollari ai proprietari di schiavi.

Herbert SPENCER stesso, dopo avere chiaramente dimostrato nella sua Statica sociale la invalidità di qualsiasi titolo, col quale si pretenda al possesso esclusivo della terra, sostiene questa idea (sebbene sembri a me infondata), dichiarando che quello di giustamente estimare e liquidare i diritti dei proprietari attuali, che sia coi loro atti, sia con atti dei loro maggiori, hanno per le proprietà loro dato equivalenti in ricchezza onestamente guadagnata, sarà uno dei più complicati problemi, che avrà a risolvere un giorno la società.

Fu questa idea che suggeri la proposta, che trovò sostenitori in Inghilterra, che il Governo comperi al prezzo di mercato la proprietà individuale della terra del paese; e fu la stessa idea che condusse John Stuart MILL, sebbene ei vedesse chiaramente la ingiustizia essenziale della proprietà privata della terra, a sostenere non la ripresa totale di essa, ma l'appropriazione da parte dello Stato degli incrementi di vantaggio avvenire. Il suo piano era che si facesse una giusta ed anche larga estimazione del valore di mercato di tutte le terre del Regno e che i futuri aumenti di questo valore non dipendenti da miglioramenti fatti dal proprietario, fossero presi dallo Stato

A non dir nulla delle difficoltà pratiche, che un tal piano presenta per la estensione che verrebbe a dare alle funzioni del Governo e per la corruzione cui darebbe luogo, il suo difetto essenziale sta nella impossibilità di colmare con un compromesso qualunque la differenza radicale che è fra il giusto e l'ingiusto. Nella proporzione stessa, in cui si vuole aver riguardo agli'interessi dei proprietari, non si avrà riguardo agli interessi e ai diritti generali ; e se i proprietari non hanno a perder nulla dei loro privilegi speciali, il popolo nel suo insieme non verrà a guadagnar nulla. Comperare i diritti di proprietà individuali non sarebbe altro che dare ai proprietari, sotto altra forma, un diritto dello stesso genere e dello stesso valore di quello, che dà loro attualmente il possesso della terra; sarebbe levare per essi, mediante l'imposta, quella stessa quota dei guadagni del lavoro e del capitale, che essi si appropriano ora mediante la rendita. Il loro ingiusto vantaggio sarebbe mantenuto e l'ingiusto svantaggio dei non-proprietari sarebbe mantenuto del pari. Certo vi sarebbe guadagno pel popolo in generale, quando, in seguito all'aumento della rendita, la somma, che i proprietari avrebbero preso nel sistema attuale, fosse per venire ad esser maggiore dell'interesse sul prezzo d'acquisto della terra al saggio attuale; ma non sarebbe questo che un guadagno avvenire; intanto, non solo il popolo non verrebbe ad averne sollievo alcuno, ma il carico imposto al lavoro ed al capitale a profitto dei proprietari attuali verrebbe ad esser reso molto più gravoso. Invero, uno degli elementi del valore attuale di mercato della terra è l'attesa di un aumento di valore avvenire; epperò, comperae le terre al prezzo di mercato e pagare l'interesse sul prezzo d'acquisto, sarebbe un far pesare sui produttori il pagamento non della sola rendita attuale, ma della rendita sperata dalla speculazione. Ossia, per metter la cosa sotto un'altra forma: la terra sarebbe comperata ad un prezzo calcolato sopra un saggio d'interesse più basso dell'ordinario (in quanto la prospettiva di un aumento avvenire dei valori fondiari fa si che il prezzo di mercato della terra è sempre molto più alto del prezzo di qualsiasi altra cosa, che dia attualmente lo stesso reddito), e sul prezzo d'acquisto si pagherebbe l'interesse ordinario. E cosi si dovrebbe pagare ai proprietari non solo ciò che essi ricevono, ma molto di più.

Il piano del MILL per nazionalizzare l'aumento di valore futuro non guadagnato della terra col fissare il valore di mercato attuale di tutte le terre ed attribuire allo Stato l'incremento di valore futuro, non aumenterebbe la ingiustizia della distribuzione attuale della ricchezza, ma non vi porterebbe rimedio. L'ulteriore aumento speculativo della rendita cesserebbe e in avvenire il popolo in generale guadagnerebbe la differenza fra l'aumento della rendita e la somma, a cui l'aumento sarebbe stato stimato nel fissare il valore attuale della terra, di di cui, naturalmente, il valore in prospettiva è, come il valore attuale, un elemento. Ma lascierebbe per l'avvenire una classe di individui in possesso dell'enorme vantaggio, che sugli altri hanno attualmente. Tutto ciò, che di questo piano si può dire, si è che è già qualche cosa di meglio che niente.

Di piani cosi inefficaci e cosi impraticabili si può parlare dove, al momento, non vi sono altre proposte più efficaci; e la loro discussione è un segno di buon augurio, in quanto mostra che la punta del cuneo della verità comincia a penetrare nei cervelli. Sulla bocca degli uomini la giustizia si fa umile quando incomincia a protestare contro una ingiustizia sanzionata dal tempo e noi, dei paesi dove si parla inglese, portiamo ancora il collare del servaggio sassone e fummo educati a riguardare i « diritti » incommutabili dei proprietari della terra con quella superstiziosa riverenza, con cui gli antichi Egizi riguardavano il coccodrillo. Un bel giorno i rappresentanti del Terzo Stato si cuoprirono quando il Re si coperse; — poco tempo dopo la testa del figlio di S. Luigi rotolava sul palco. Il movimento anti-schiavista incominciò negli Stati Uniti con discorsi, in cui si parlava di dare un compenso ai proprietari di schiavi; ma quando quattro milioni di schiavi furono emancipati i proprietari non ricevettero né pensarono a reclamare compenso alcuno. E quando il popolo di paesi come l'Inghilterra e gli Stati Uniti sarà abbastanza convinto della ingiustizia e degli svantaggi della proprietà privata della terra, sarà portato a nazionalizzarla con qualche più diretto e più facile mezzo che non sia l'acquisto, nè starà a pensare se e come si debbano compensare i proprietari.

Né, veramente, è il caso di preoccuparsi più che tanto dei proprietari della terra. Che un uomo come J. St. MILL abbia dato tanta importanza alla questione del compenso, da voler solo la confisca dell'aumento avvenire della rendita, non si può spiegare se non coll'acquiescenza, che esso aveva dato alle teorie correnti, secondo cui le mercedi escono dal capitale e la popolazione tende incessantemente ad eccedere i mezzi di sussistenza. Queste teorie non gli lasciarono vedere tutti gli effetti dell'appropriazione privata della terra. Ei vedeva che « il diritto del proprietario è interamente subordinato alla politica generale dello Stato » e che « quando la proprietà privata della terra non è utile, è ingiusta » [J. St. Mill, Principii di Economia politica, lib. I, cap. II, S 6, nella Biblioteca dell'Economista, serie I, vol. 12]; ma, irretito nei fili della teoria di MALTHUS, egli, in un paragrafo che ho già riferito, attribuiva espressamente la miseria e la sofferenza che vedeva intorno a sé all'avarizia della natura, non all'ingiustizia degli uomini; e egli è così che per lui la nazionalizzazione della terra era cosa, relativamente, di poca importanza, che nulla poteva per la estirpazione del pauperismo e della miseria; scopo, che non avrebbe potuto esser raggiunto se non coll'insegnare agli uomini a reprimere un istinto naturale. Grande e puro qual era, cuore caldo e spirito elevato, pure non vide mai la vera armonia delle leggi economiche, nè come da una grande ingiustizia fondamentale derivino il bisogno e la miseria, il vizio e la vergogna. Se cosi non fosse, ei non avrebbe scritte queste parole: la terra dell'Irlanda, la terra di qualsiasi paese, appartiene al popolo del paese. Gl'individui chiamati proprietari non hanno, nè dal punto di vista della morale, nè da quello della giustizia, diritto ad altro che alla rendita od al compenso pel suo valore.

Ma, in nome del Profeta! Se la terra di un paese appartiene al popolo del paese, qual diritto, in nome della morale e della giustizia, avranno alla rendita gli individui chiamati proprietari? Se la terra appartiene al popolo, perchè, in nome della morale e della giustizia, il popolo dovrebbe pagare il valore di rendita di ciò, chea lui appartiene?

Herbert SPENCER dice: Se avessimo a fare con quelli, che hanno originariamente derubato la razza umana del suo patrimonio, la sarebbe presto finita [Statica sociale, pag. 142 dell'edizione inglese verifica cap 9 sect 9].

Ma, e perché non la finiremmo presto in qualche modo? Imperocchè, questo furto non è già come il furto di un cavallo o di una somma di denaro, che cessa coll'atto. È un furto continuo, che si fa ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Non è dal prodotto del passato che la rendita è tratta, ma dal prodotto presente.

Ogni colpo di martello, ogni spinta di vanga, ogni mandata di spola, ogni giro di macchina paga il suo tributo. È un'angheria levata sui guadagni di chi rischia la vita nelle viscere della terra o sulle onde infuriate del mare; prende al capitalista il compenso che gli è dovuto, all'inventore i frutti del suo lavoro paziente; strappa i fanciulli ai giuochi e alla scuola e li costringe a lavorare prima che i loro ossi siano formati, i loro muscoli sviluppati ; ruba il calore agli assiderati, il pane agli affamati, i farmaci agli infermi, la pace agli inquieti. Avvilisce, abbrutisce, inasprisce. Costringe famiglie di otto, di dieci persone in squallide stamberghe; fa errare pei campi, come porci, ragazzi e fanciulle; riempie le bettole di quelli, per cui la casa non ha allettamenti; di giovani, che potrebbero diventare uomini utili, fa i candidati alle prigioni e ai penitenziari; riempie i postriboli di ragazze, che avrebbero potuto conoscere le pure gioie della maternità; [..]

Non è solo un furto in passato; è un furto nel presente; un furto, che priva del diritto, che portano con sé nascendo, gli esseri che vengono al mondo in questo punto. E perché dovremmo esitare a distrurre un sistema di tal fatta? O che forse perchè fui derubato ieri, e avant'ieri, e il giorno prima, sarà una ragione perchè io debba tollerare di esser derubato oggi, domani, posdomani? una ragione perchè io debba conchiudere che il ladro ha acquistato il diritto di derubarmi?

Se la terra appartiene al popolo, perchè si dovrà continuare a permettere ai proprietari di prender la rendita, o si dovrà in qualche modo compensarli della perdita di essa ? Si consideri ciò che la rendita è. Essa non nasce già spontaneamente dalla terra; essa non è già dovuta a nulla che sia stato fatto dal proprietario. Essa rappresenta un valore creato da tutta la comunità. S'abbiano i proprietari, se cosi piace, tutto ciò che loro darebbe il possesso della terra in mancanza del resto della comunità; ma la rendita, creazione della comunità intiera, appartiene necessariamente a questa.

Sottoponete il diritto dei proprietari alla prova dei principii della legge comune, che determinano i diritti degli uomini fra loro. La legge comune, ci si dice, è la perfezione della ragione; e certo i proprietari non possono lagnarsi della sua decisione, in quanto gli è dai proprietari e pei proprietari che essa fu fatta. Or dunque, che cosa dà la legge all'innocente possessore, quando la terra, che ha comperato col suo denaro, è dichiarata appartenere legittimamente ad altri? Nulla. L'aver egli comprato in buona fede non gli dà diritto a reclamo alcuno. La legge non si occupa della « complicata questione dei compensi » da darsi al compratore. La legge non dice, come J. St. MILL : La terra appartiene a Tizio; dunque Tizio, che se ne è creduto il proprietario, non ha diritto che alla rendita od al compenso per il suo valore di mercato. [..]

Come gli eguali diritti alla terra possono essere affermati e garantiti

Non è punto necessario confiscare la terra; è solo necessario confiscare la rendita.

[la panacea di tutti i mali se non proprio]

ciò che io propongo come rimedio [..] che eleverà le mercedi, aumenterà i profitti del capitale, estirperà il pauperismo, abolirà la povertà, darà un impiego remuneratore a quanti ne desiderano, aprirà libero campo all'affermazione delle facoltà dell'uomo, diminuirà la delinquenza, eleverà la morale, il gusto e la intelligenza, purificherà il governo e porterà la civiltà ad ancor più nobili altezze, è - l'appropriazione della rendita mediante l'imposta.

La grande causa dell'ineguaglianza è il monopolio naturale che il possesso della terra attribuisce.

la verità che ho tentato di render chiara non sarà facilmente accettata; ché altrimenti sarebbe stata accettata da tempo

[L'imposta confiscatoria della rendita fondiaria colpisce soprattutto gli utilizzatori dei beni ottenuti dalla terra ma impedisce anche l'accumulazione della rendita fondiaria.

Libro VIII Capitolo II, pp. 247-250

Come gli eguali diritti alla terra possono essere affermati e garantiti

Noi abbiamo attribuito il bisogno e la sofferenza, che regnano dappertutto nelle classi lavoratrici, i ricorrenti parossismi di depressione industriale, il ristagno del capitale, la tendenza delle rnercedi a discendere al punto a cui il lavoratore muore di fame - cose tutte, che si fanno sentire con più o meno forza a misura che il progresso materiale va innanzi al fatto che la terra, sulla quale e della quale ogni uomo deve vivere, è proprietà esclusiva di pochi.

Noi abbiamo visto come non vi sia a questi mali altro rimedio che quello di abolirne la causa; come la proprietà privata della terra non abbia alcun fon- [248] damento in giustizia e sia anzi una seconda negazione del diritto naturale, un sovvertimento della legge di natura, sovvertimento che, a misura che lo sviluppo sociale procede, deve condannare la gran massa degli individui alla schiavitù più dura e più degradante.

Noi abbiamo pesato ogni obbiezione e riconosciuto come nè dal punto di vista della giustizia, nè da quello della convenienza nulla vi sia, che debba trattenerci dal fare della terra una proprietà comune, confiscando la rendita.

Ma rimane una questione di metodo. Qual modo tenere per fare questa trasformazione ?

Noi soddisfaremmo alla legge di giustizia, rispondendo a un tempo a tutte le esigenze economiche, coll'aboliredi un sol tratto tutti i titoli privati, dichiarando la terra proprietà pubblica, e col darla in affitto ai migliori offerenti, a condizioni, che garantiscano nel modo più sicuro il diritto privato ai miglioramenti.

Noi verremmo per tal modo ad assicurare, in uno stato di civiltà più complesso, quella stessa eguaglianza dei diritti, che in uno stato più semplice era assicurata da una eguale ripartizione delle terre; e col dare l'uso delle terre a coloro, che possono ritrarne un prodotto maggiore, noi assicureremmo la maggior produzione.

Questo progetto, lungi dall'essere una fantasia selvaggia ed inattuabile, fu — se non in quanto ei propone di dare ai proprietari attuali un compenso, concessione imprudente, senza dubbio e su cui, riflettendovi meglio, ritornerebbe — accettata nientemeno che da un pensatore della forza di Herbert SPENCER, il quale scrive (1):

Questa dottrina si accorda collo stadio di civiltà più elevato; essa può essere attuata senza importare per ciò la comunione dei beni e senza determinare una qualsiasi seria rivoluzione negli ordinamenti esistenti. Il cambiamento richiesto sarebbe soltanto un cambiamento di proprietari. La proprietà distinta si fonderebbe nella grande proprietà indivisa del pubblico. Invece di essere posseduto da individui, il suolo del paese sarebbe posseduto dalla grande corporazione, la società. Invece di prendere i suoi acri di terreno in affitto da un proprietario isolato, il fittaiuolo, li prenderebbe dalla nazione. Invece di pagare il suo fitto all'agente di sir John o di Sua Grazia, lo pagherebbe a un agente, a un delegato della comunità. Gli intendenti sarebbero ufficiali pubblici invece di essere impiegati privati e il godimento a titolo di locazione sarebbe il solo modo di tenuta della terra. Un tal stato di cose sarebbe in perfetta armonia colla legge morale. Tutti gli uomini sarebbero egualmente proprietari, tutti egualmente liberi di diventare tenitori di terre... Epperò, gli è chiaro che la terra potrebbe, in tal sistema, essere chiusa, occupata e coltivata, pur rimanendo pienamente inesoggetta alla legge della eguale libertà per tutti.

Ma questo piano, sebbene perfettamente attuabile, non mi sembra il migliore. O piuttosto, io propongo di compiere la stessa cosa in modo più semplice, più facile e più tranquillo che non sarebbe quello di confiscare tutte le terre e poi concederle formalmente ai migliori offerenti.

Per far ciò che Spencer propone bisognerebbe urtare inutilmente le abitudini e i modi di pensare attuali, locchè è setnpro da evitairsi; - bisognerebbe estendere inutilmente il meccanisnuo governativo, locchè da evitarsi del pari.

È un assioma di governo, compreso ed applicato dai fondatori fortunati di tirannie, che i grandi cambiatnenti non possono meglio essere che tenendo le vecchie forme. Noi, che vogliamo esser uomini liberi, abbiamo a tenere ben presente questa verità. È questo il metodo naturale. Quando natura vuol fare un tipo di un ordine più elevato, essa non fa che prendere un tipo di ordine inferiore e svilupparlo. E questa è anche la legge dello sviluppo sociale. Operando secondo questa legge, secondando la corrente, noi potremo andar sicuri, presto e lontano; contrastandola, il proceder nostro sarebbe difficile e lento.

Non propongo né di comperare né di confiscare la proprietà privata della terra ; l'una cosa sarebbe ingiusta, l'altra inutile. Gli individui, che ora lo hanno, conservino, se loro abbisogna, il possesso di quella, che essi chiamano la loro terra, e continuino pure a chiamarla cosi ; continuino a poterla vendere, legarla, dividerla — noi potremo ben lasciar loro il guscio se ci prenderemo la nocciuola.

Non punto necessario confiscare la terra; solo necessario confiscare la rendila.

Nè per prendere la rendita per usi pubblici è necessario che lo Stato stia a confondersi coll'affittamento delle terre e corra il pericolo del favoritismo, delle collisioni, delle corruzioni, che potrebbero accompagnarlo. Non è punto necessario di creare alcun nuovo meccanismo amministrativo. Il meccanismo esiste già. Invece di complicarlo, tutto ciò che rimane a fare si è di semplificarlo e di ridurlo. Lasciando ai proprietari un tanto per cento della rendita — procento, che probabilmente rappresenterebbe una forte economia sulle spese e sulle perdite, che importerebbe il riscuotere la rendita mediante agenti dello Stato — e servendoci dello stesso meccanismo che già esiste, noi potremmo, alla cheta e senza scosse, affermare il diritto comune alla terra, prendendo la rendita pei bisogni pubblici.

Noi prendiamo già una parte della rendita mediante le imposte. Non abbiamo che a fare alcuni cambiamenti nei nostri modi di tassazione per prenderla tutta.

Dunque, ciò che io propongo come il rimedio più semplice ma sovrano, che eleverà le mercedi, aumenterà i profitti del capitale, estirperà il pauperismo, abolirà la povertà, darà un impiego rimuneratore a quanti ne desiderano, aprirà libero campo all'affermazione delle facoltà dell'uomo, diminuirà la delinquenza, eleverà la morale, il gusto e la intelligenza, purificherà il governo e porterà la civiltà ad ancor più nobili altezze, è — l'appropriazione della rendita mediante l'imposta.

In questo modo lo Stato potrà diventare il proprietario universale, senza chiamarsi tale e senza assumere alcuna nuova funzione. Nella forma, la proprietà della terra rimarrebbe ciò che è ora. Non c'è bisogno di spossessare alcun proprietario, nè di stabilire limite alcuno alla estensione di terra che uno può tenere; imperocchè, la rendita essendo presa coll'imposta dallo Stato, la terra, sotto qualunque nome essa sia e quale si sia la sua divisione, sarebbe realmente proprietà comune ed ogni membro della comunità parteciperebbe ai suoi vantaggi. 250

Or, siccome la imposta sulla rendita o sui valori fondiari deve necessariamente essere aumentata coll'abolire che noi facciamo le altre imposte, cosi noi possiamo dare alla proposizione una forma pratica col proporre di :

Abolire tutte le imposte, tranne quella sui valori fondiari.

Come vedemmo, il valore della terra, al principio della civiltà, è nullo; ma a misura che la società si sviluppa coll'aumento della popolazione e col progresso dell'industria, questo valore diventa sempre più grande. In tutti i paesi inciviliti, anche nei più nuovi, il valore della terra, presa nel suo insieme, basta a sopperire a tutte le spese del governo. Nei paesi più sviluppati, è molto più che sufficiente. Epperò, non basterà mettere semplicemente tutte le imposte a carico del valore della terra; bensì, dove la rendita eccede le entrate attuali dello Stato, bisognerà corrispondentemente aumentare la somma, che coll'imposta si domanda, e continuare ad aumentarla a misura che la società progredisce e che la rendita aumenta. Ma ciò è cosi naturale e cosi facile a farsi che lo si può considerare come compreso o almeno come sottinteso nella proposizione di collocare tutte le imposte sui valori fondiari. É il primo passo a farsi sul terreno, su cui la lotta deve essere praticamente impegnata. Quando la lepre è presa e uccisa, il cuocerla è cosa che viene da sè. Quando il diritto comune alla terra è cosi ben riconosciuto che tutte le imposte sono abolite tranne quella che cade sulla rendita, le pubbliche entrate, di cui la percezione è lasciata ai proprietari particolari, entreranno nelle casse dello Stato.

L'esperienza — imperocchè sono già alcuni anni che cerco di popolarizzare questa proposizione — mi ha insegnato che dovunque la idea di concentrare tutte le imposte sui valori fondiari è considerata con un po' di attenzione, essa fa invariabilmente il suo cammino, ma che delle classi, che più specialmente ne sarebbero avvantaggiate, poche sono quelle, che vedano a prima giunta e neppure dopo lungo tempo tutta la sua importanza e la sua portata. Riesce difficile ai lavoratori sgombrare il loro cervello dall'idea che un reale antagonismo vi sia fra capitale e lavoro; riesce difficile ai piccoli affittavoli e ai piccoli proprietari togliersi di capo l'idea che il far cadere tutte le imposte sulla terra sarebbe una ingiustizia a loro danno. Ad entrambe poi queste classi riesce difficile deporre l'idea che esentare il capitale da qualsiasi imposta sarebbe un rendere il ricco sempre più ricco e il povero sempre più povero. Queste idee nascono da un pensiero confuso. Ma dietro all'ignoranza ed al pregiudizio vi ha un interesse potente, che finora dominò la letteratura, l'educazione e l'opinione. Le grandi ingiustizie non muoiono mai se non difficilmente e la grande ingiustizia, che in tutti i paesi inciviliti condanna masse d'uomini alla povertà ed al bisogno, non sparirà senza una viva lotta.

Non credo che le idee delle quali ho parlato siano quelle del lettore; ma poichè ogni discussione popolare deve trattare il concreto anzichè l'astratto, voglia il lettore seguirmi più oltre, per poter sottoporre il rimedio che propongo alla prova delle regole generalmente accettate in materia d'imposta. Molti aspetti della questione potranno cosi venire in luce, che altrimenti potrebbero sfuggirci.

Libro I – Capitolo II, Significazione dei termini

Il concetto espresso dal vocabolo “terra” comprende necessariamente non solo la superficie della terra, come distinta dall’acqua e dall’aria, ma l’universo materiale intiero, a parte l’uomo; imperocché gli è solo in quanto è sulla terra, da cui lo stesso suo corpo è tratto, che l’uomo può entrare a contatto colla natura e servirsene. Epperò, il concetto di “terra” comprende necessariamente tutte le materie, tutte le forze e tutti i beni naturali; quindi, nulla di ciò che è gratuitamente dato da natura potrà, propriamente, dirsi capitale. Un campo fertile, una ricca vena di minerale, una caduta d’acqua che fornisce forza, possono procurare al loro possessore vantaggi equivalenti al possesso d’un capitale; ma considerare queste cose come capitale sarebbe togliere ogni distinzione fra capitale e terra e, per ciò che concerne i rapporti fra le due cose, togliere ogni significazione ai due termini. (p. 21).

Libro IV – Capitolo II, Azione dell’aumento della popolazione sulla distribuzione della ricchezza

Ecco; supponiamo una savanna sconfinata, estendentesi in una non interrotta uniformità di erbe, di fiori, di piante, di ruscelli, che stanca colla sua monotonie il viaggiatore. Arriva col suo carro il primo immigrante. Dove gli convenga meglio stanziarsi egli stesso nol sa dire: un acro è egualmente buono che un altro. Quanto a ricchezza di boschi, di acque, di fertilità, a situazione, non vi ha assolutamente nessuna scelta da fare e il nostro colono è addirittura nell’imbarazzo davanti a tanta ricchezza. Stanco di andar attorno a cercare un posto che sia migliore degli altri, ei si ferma dove vien viene e si dà attorno a costruirsi una casa. La terra è vergine e ricca, abbondante di selvaggina, le acque esuberanti di trote. La natura è generosa come non potrebbe esserlo di più. Il nostro colono ha là ciò che, se fosse in un paese popolato, basterebbe a farlo ricco. Eppure, esso è povero .Per non dir nulla della disposizione del suo spirito, che gli farebbe salutare con gioia l’arrivo del più stupido straniero, con cui poter scambiare una parola, ci lavora in mezzo a tutti gli svantaggi materiali della solitudine. Ei non può ricevere alcun temporaneo aiuto pei lavori che domandano una maggior unione di forza che quella che può offrirgli la sua famiglia o quel qualunque ausiliare, che ei si possa permanentemente tenere. Sebbene abbia bestiame, spesso non può avere carne fresca, in quanto per avere una bistecca dovrebbe uccidere un vitello. Ei deve essere il proprio fabbro, carradore, carpentiere, ecc., insomma “trattare tutti i mestieri e non saperne alcuno”. Ei non può far istruire i suoi ragazzi, perchè dovrebbe tenere e mantenere un maestro apposta. Le cose che non può produrre da sé, ei deve comperarle in grande quantità e tenerle in serbo, oppure deve farne a meno, non potendo ad ogni momento lasciare il suo lavoro e fare un lungo viaggio laggiù, all’orlo estremo della civiltà, per procurarsele;e quando vi è costretto, l’avere una fiala di medicina o il rimettere una ruota gli costa giornate e giornate di lavoro suo e dei suoi cavalli. In queste circostanze, la natura ha un bell’essere generosa; l’uomo è povero. Ben gli è facile avere di che mangiare, ma all’infuori di ciò il suo lavoro basta appena a soddisfare i bisogni più semplici e, ancora, nel modo più primitivo.

Ben presto un altro immigrante arriva. Sebbene ogni acro della sterminata pianura sia egualmente buono che un altro qualsiasi, questo secondo immigrante non si troverà in nessun imbarazzo per la scelta della sua stanza. La terra è dappertutto la stessa, sì; ma una località vi è, che per lui è evidentemente migliore di qualunque altra, ed è dove già vi è un altro colono, dove potrà avere un vicino. Ei si stanzia accanto al primo colono, la cui condizione viene subito ad essere grandemente migliorata e a cui molte cose saranno ora possibili, che non erano prima, in quanto due uomini possono aiutarsi l’un l’altro a far cose che un uomo solo non potrebbe far mai.

Un altro immigrante arriva e, guidato dalle stesse considerazioni, si stabilisce accanto agli altri due; poi ne arriva un altro, poi altri ed altri, finché il primo colono si trova ad essere circondato da vicini. Il lavoro ha ora una efficacia, a cui, nello stato solitario, non poteva accostarsi. Se un qualche pesante lavoro è a farsi, i coloni hanno strumenti adatti e, insieme, fanno in un giorno ciò che ad uno solo avrebbe richiesto anni. Quando uno uccide un vitello, gli altri ne hanno una parte, che restituiranno quando uccideranno un vitello alla loro volta e così essi hanno sempre carne fresca. Insieme prendono un maestro di scuola, di guisa che i loro ragazzi sono istruiti per una frazione di ciò che lo stesso insegnamento avrebbe costato al primo colono. Diventa relativamente facile mandare alla città vicina, in quanto vi ha sempre qualcuno che vi si reca. Ma di questi viaggi non vi ha più tanto bisogno. Un fabbro ed un carratore non tardano ad aprir bottega e il nostro colono può far riparare i suoi strumenti non spendendo più per le riparazioni che una piccola parte del lavoro, che gli costavano prima. Anche si apre un magazzino, dove ei può procurarsi ciò di cui ha bisogno a misura che il bisogno sorge; poi, un ufficio postale lo mette in comunicazione col resto del mondo. Vengono in seguito un calzolaio, un falegname, un sellaio, un medico e ben presto anche sorge la chiesetta. Godimenti diventano possibili, che nello stato solitario non lo erano: godimenti e soddisfazioni per la sua natura di essere socievole e intelligente, quella che lo eleva al di sopra del bruto. La simpatia, il sentimento dell’associazione, la emulazione stimolata dal confronto o dal contrasto, aprono una vita più larga, più varia. [..]

[..] Ed ora, andate a trovare il nostro colono e ditegli: “tu hai tanti alberi da frutta che furono da te piantati; hai scavato un pozzo, costruito un granaio, una casa, ecc.; insomma, hai col tuo lavoro aggiunto tanto alla tua terra. Questa terra, in sé, non è più così buona come prima; tu l’hai già sfruttata e fra poco avrà bisogno di ingrasso. Ti darò l’intero valore delle migliorazioni che vi hai fatto attorno e tu dammi la tua terra a va colla tua famiglia a cercartene un’altra al margine estremo della civiltà”. Il nostro colono vi riderebbe in faccia. La sua terra non gli dà più tanto grano né tante patate come prima, ma gli procura una molto maggior somma di necessità e di comodi. Il suo lavoro applicato alla terra non gli dà più così abbondanti raccolti né, vogliamo supporre, raccolti aventi lo stesso valore di prima, ma gli procura una molto maggior somma di tutte quelle altre cose, per aver le quali l’uomo lavora. La presenza di altri coloni, l’aumento di popolazione, ha accresciuto sotto questo riguardo la produttività del suo lavoro applicato alla terra; e questa maggior produttività dà alla sua terra una superiorità sulle terre di qualità naturale pari, ma collocate dove non sono coloni. [..]

[..] La popolazione continua ad aumentare e con essa crescono le economie, che il suo aumento rende possibili e che hanno per effetto di rendere maggiore la produttività della terra. La terra del nostro primo colono essendo il centro dello stanziamento, il magazzino, la fucina del maniscalco, la bottega del carradore si apriranno su di essa o immediatamente accosto ad essa; e presto sorgerà qui il villaggio; che andrà presto a svilupparsi a città, a centro degli scambi di tutta la popolazione del distretto. Senza che per ciò venga ad avere una produttività agraria maggiore di quella che avesse prima, la terra del nostro colono comincerà a sviluppare una produttività di più alta natura. Al lavoro speso per averne grano o patate essa non darà una quantità di grano o di patate maggiore di prima; ma al lavoro speso nei rami suddivisi della produzione, che la prossimità di altri produttori richiede e specialmente al lavoro spiegato in quella parte finale della produzione, che consiste nella distribuzione, essa darà redditi molto maggiori. Il coltivatore di grano può andare più oltre e trovare terra, su cui il suo lavoro produrrà una egual quantità di grano e a un dipresso una egual somma di ricchezza; ma l’artigiano, il manifatturiere, il negoziante, il professionista troveranno che qui, nel centro degli scambi, il loro lavoro frutterà loro molto di più che non anche solo un po’ più in là; e il proprietario di questa terra potrà pretendere il risultato di questa maggior produttività sotto tale riguardo, come potrebbe pretendere al risultato della maggior produttività della terra stessa quando fosse coltivata a grano. Così il nostro colono potrà vendere come lotti di terreni da costruzione alcuni acri della sua terra a prezzi , che non si sarebbero mai pagati per la terra stessa come terra destinata ad esser coltivata a grano, se anche la sua fertilità granifera fosse le tante volte maggiore. E per tal modo ei potrà costrursi una bella casa per sé e ammobigliarla con lusso. Insomma, per ridurre la cosa alla sua più semplice espressione, quelli, che desiderano servirsi della sua terra, gli costruiranno ed ammobiglieranno una casa, a condizione che permetta loro di servirsi della maggior produttività, che l’aumento della popolazione ha dato alla sua terra.

E la popolazione continua ad aumentare, dando alla terra una utilità sempre più grande ed una sempre maggior ricchezza al suo proprietario. La città è diventata una metropoli, una Saint-Louis, una Chicago, una San Francisco e va crescendo ognora. La produzione vi è condotta su grande scala, coi migliori meccanismi e nelle condizioni di agevolezza più favorevoli; la divisione del lavoro diventa estremamente minuta, moltiplicando la efficienza del lavoro in modo meraviglioso; gli scambi sono fatti a così grandi masse e con una tale rapidità che le perdite per attrito sono ridotte al minimo. Di qui partono tutte le strade, tutte le correnti, irradiandosi attraverso la circostante regione. Qui, se avete qualche cosa a vendere, è il mercato; qui, se vi abbisogna di comperare qualche cosa, sono i più grandi e meglio forniti magazzini. Qui si concentra, come in suo foco, l’attività intellettuale; di qui parte lo stimolo, che nasce dalla collisione delle menti. Qui le ricche biblioteche, i grandi serbatoi della scienza, i professori più sapienti, gli specialisti più famosi. Qui i musei, le gallerie artistiche, le collezioni scientifiche; qui tutto ciò che si può trovare di più raro, di più prezioso, di più scelto. Qui vengono da tutte le parti del mondo i grandi attori, i più eloquenti oratori, i cantanti più famosi. Qui insomma è un centro della vita umana in tutte le sue diverse manifestazioni.

Così enormi sono i vantaggi che questa terra ora presenta, che invece di un uomo solo inteso a lavorare, con un paio di cavalli, più e più acri, voi potete in certi luoghi contare sopra un acro solo migliaia di lavoratori, che lavorano gli uni sul capo agli altri, in edifizi elevantisi di cinque, sei sette ed anche otto piani sopra il suolo, mentre sotto terra rombano le macchine a vapore, che spiegano la forza di migliaia di cavalli.

Tutti questi vantaggi sono inerenti alla terra; gli è su questa terra e non su un’altra che essi possono essere utilizzati, in quanto qui è il centro della popolazione, il foco degli scambi, il mercato e il laboratorio delle più alte forme dell’industria. Le forze produttive, che la densità della popolazione attribuisce a questa terra, equivalgono ad una moltiplicazione della sua fertilità originaria per cento o per mille. (pp. 139-143).

Libro VII – Capitolo I, Ingiustizia della proprietà privata della terra

Quanto al far derivare un diritto individuale esclusivo e pieno all’uso della terra dalla priorità di occupazione, gli è questa, se possibile, la più assurda base, su cui uno possa collocarsi per difendere la proprietà della terra. La priorità di occupazione dare un titolo esclusivo e perpetuo alla superficie di un globo, su cui, nell’ordine della natura, generazioni innumere si succedono! O che gli uomini dell’ultima generazione avevano forse maggior diritto all’uso di questo globo che noi della generazione attuale? O lo ebbero quelli di cento, di mille anni fa? O lo ebbero i costruttori dei mounds, gli abitanti delle caverne, i contemporanei del mastodonte o del cavallo a unghia triflessa, o quelle più remote generazioni, che in tempi avvolti nella notte e che arriviamo appena a rappresentarci solo come epoche geologiche, si succedettero su questa terra, che noi occupiamo ora per sì breve giorno?

O che il primo arrivato ad un banchetto avrà il diritto di capovolgere le sedie e di pretendere che nessuno degli altri invitati tocchi la mensa apprestata, se prima non sia venuto a patti con lui? E chi primo presenta un biglietto alla porta di un teatro ed entra, acquisterà per questa sua priorità il diritto di chiuder le porte e di avere la rappresentazione per sé solo? E il viaggiatore che primo sale in vagone avrà il diritto di occupare coi suoi bagagli tutti i posti e di costringere quelli che salgono dopo di lui a starsene in piedi? [..]

[..] I nostri diritti di presa di possesso non possono essere esclusivi, bensì debbono dappertutto essere limitati dagli eguali diritti degli altri. Come il viaggiatore nella vettura può occupare, lui ed i suoi bagagli, quanti posti vuole, finché altri viaggiatori non salgano, così un colono può prendere ed usare quanta terra gli piace, finché questa non diventa necessaria ad altri – fatto che si rivela quando la terra acquista valore – Allora, il suo diritto viene ad essere falcidiati dagli eguali diritti degli altri. Se così non fosse, un uomo potrebbe, in virtù della priorità di appropriazione, acquistare e trasmettere a chi meglio gli piacesse il diritto esclusivo non solo a 160, o a 640 acri, ma ad una città intiera, ad uno Stato, ad un continente. (pp. 202-204).

Libro VIII – Capitolo II, Come gli eguali diritti alla terra possano essere affermati e garantiti

Non propongo né di comperare né di confiscare la proprietà privata della terra; l’una cosa sarebbe ingiusta, l’altra inutile. Gli individui, che ora lo hanno, conservino, se loro abbisogna, il possesso di quella, che essi chiamano la loro terra, e continuino pure a chiamarla così; continuino a poterla vendere, legarla, dividerla – noi potremo ben lasciar loro il guscio se ci prenderemo la nocciuola. Non è punto necessario confiscare la terra; è solo necessario confiscare la rendita. Né per prendere la rendita per usi pubblici è necessario che lo Stato stia a confondersi coll’affittamento delle terre e corra il pericolo del favoritismo, delle collisioni, delle corruzioni che potrebbero accompagnarlo. Non è punto necessario di crear alcun nuovo meccanismo amministrativo. Il meccanismo esiste già. Invece di complicarlo, tutto ciò che rimane a fare si è di semplificarlo e di ridurlo. (...) Servendoci dello stesso meccanismo che già esiste, noi potremmo, alla cheta e senza scosse, affermare il diritto comune alla terra, prendendo la rendita pei bisogni pubblici. Noi prendiamo già una parte della rendita mediante le imposte. Non abbiamo che a fare alcuni cambiamenti nei nostri modi di tassazione per prenderla tutta. Dunque, ciò che io propongo (...) è l’appropriazione della rendita mediante l’imposta. (...) Nella forma, la proprietà della terra rimarrebbe ciò che è ora. Non c’è bisogno di spossessare alcun proprietario, né di stabilire limite alcuno alla estensione di terra che uno può tenere; imperocché, la rendita essendo presa coll’imposta dallo Stato, la terra, sotto qualunque nome essa sia e quale ne sia la sua divisione, sarebbe realmente proprietà comune ed ogni membro della comunità parteciperebbe ai suoi vantaggi. Or, siccome la imposta sulla rendita o sui valori fondiari deve necessariamente essere aumentata coll’abolire che noi facciamo le altre imposte, così noi possiamo dare alla proposizione una forma pratica col proporre di: Abolire tutte le imposte, tranne quella sui valori fondiari. Come vedemmo, il valore della terra, al principio della civiltà, è nullo; ma a misura che la società si sviluppa coll’aumento della popolazione e col progresso dell’industria, questo valore diventa sempre più grande. In tutti i paesi inciviliti, anche nei più nuovi, il valore della terra, presa nel suo insieme, basta a sopperire a tutte le spese del governo. Nei paesi sviluppati, è molto più che sufficiente. Epperò non basterà semplicemente mettere tutte le imposte a carico del valore della terra; bensì, dove la rendita eccede le entrate attuali dello Stato, , bisognerà corrispondentemente aumentare la somma, che coll’imposta si domanda, e continuare ad aumentarla a misura che la società progredisce e che la rendita aumenta. Ma ciò è così naturale e così facile a farsi che lo si può considerare come compreso o almeno come sottinteso nella proposizione di collocare tutte le imposte sui valori fondiari. (...) Dovunque la idea di concentrare tutte le imposte sui valori è considerata con un po’ di attenzione, essa fa invariabilmente il suo cammino, ma che delle classi, che più specialmente ne sarebbero avvantaggiate, poche sono quelle, che vedano a prima giunta e neppure dopo lungo tempo tutta la sua importanza e la sua portata. Riesce difficile ai lavoratori sgombrare il loro cervello dall’idea che un reale antagonismo vi sia fra capitale e lavoro; riesce difficile ai piccoli affittavoli e ai piccoli proprietari togliersi di capo l’idea che il far cadere tutte le imposte sulla terra sarebbe un’ingiustizia a loro danno. Ad entrambe poi queste classi riesce difficile deporre l’idea che esentare il capitale da qualsiasi imposta sarebbe un rendere il ricco sempre più ricco e il povero sempre più povero. Queste idee nascono da un pensiero confuso. Ma dietro all’ignoranza ad al pregiudizio vi ha un interesse potente, che finora dominò la letteratura, l’educazione e l’opinione. Le grandi ingiustizie non muoiono mai se non difficilmente e la grande ingiustizia, che in tutti i paesi incivili condanna masse d’uomini alla povertà ed al bisogno, non sparirà senza una viva lotta. (pp. 239-240).

MP

Bibliografia

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- Henry George: (1839 - 1897), Edward Elgar Pub, 1992
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- Una nuova edizione di « Progresso e povertà », Giornale degli Economisti e Rivista di Statistica, Serie quarta, Vol. 71 (Anno 46), No. 8 (AGOSTO 1931), pp. 603-607
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- Herbert Spencer and Henry George: a controverse, PDF
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- Land nationalisation, its necessity and its aims, being a comparison of the system of landlord and tenant with that of occupying ownership in their influence on the well-being of the people, Trübner & Co., London, 1882