Quel che è giusto è giusto

Frans de Waal
L'età dell'empatia
Garzanti, Milano, 2011
Si presume che ciascuno cerchi il proprio bene per natura,
ma il giusto soltanto in vista della pace e per accidente.

Del libro L'età dell'empatia, del celebre primatologo Fransiscus Bernardus Maria de Waal, proverò ad evidenziare una sola idea - fondamentale da molti punti di vista per il ragionamento che sto conducendo sull'inevitabilità della divisione sociale - e cioè l'ipotesi che il rifiuto di collaborare rappresenti la risposta standard delle scimmie antropomorfe e degli uomini in tutte le situazioni in cui una relazione sociale nella quale sono coinvolti si rivela non equa o svantaggiosa per il soggetto.

Durante i test in cui le scimmie cappuccine lavoravano in coppia, Sarah aveva notato che non gradivano vedere le compagne ottenere una ricompensa più alta della loro. In un primo momento questa fu solo un'impressione, basata sul fatto che si rifiutavano di partecipare al nostro test. Non ne fummo troppo sorpresi. Ma poi ci rendemmo conto che gli economisti avevano dato a queste reazioni la pomposa etichetta di «avversione all'iniquità», facendone un serio argomento di dibattito accademico. Il dibattito era ovviamente incentrato sul comportamento umano: ma se le scimmie provassero la stessa avversione? [38]

Testando due scimmie alla volta, Sarah dava a una un sassolino e poi le porgeva la mano in modo che la scimmia potesse restituirglielo in cambio di una fetta di cetriolo. Mantenendo questa alternanza, le scimmie facevano volentieri il baratto, anche per venticinque volte di fila. L'atmosfera si guastò, tuttavia, non appena introducemmo l'iniquità. Una scimmia avrebbe continuato a ricevere fette di cetriolo, mentre la compagna ora riceveva dell'uva, il loro cibo preferito. La scimmia avvantaggiata non aveva nessun problema, ma quella che lavorava per il cetriolo perdeva rapidamente interesse. Peggio ancora: vedendo la compagna con dell'uva succosa, si agitava, lanciando i sassolini fuori dalla zona di test, o perfino quelle miserabili fette di cetriolo toccatele in sorte. Un alimento normalmente divorato con avidità era ad un tratto diventato sgradevole.

Gettare via del cibo che non ha alcun difetto solo perché qualcun altro ottiene qualcosa di meglio è un gesto che assomiglia al modo in cui noi rifiutiamo una spartizione iniqua o ci lamentiamo di un contratto. Da dove provengono queste potenti reazioni? Probabilmente si sono evolute al servizio della cooperazione. Preoccuparsi di quello che ottengono gli altri può sembrare meschino e irrazionale, ma nel lungo periodo serve a evitare di essere sfruttati. E nell'interesse di tutti scoraggiare lo sfruttamento e il parassitismo e assicurarsi che gli interessi di ognuno siano presi sul serio.

L'osservazione è stata ulteriormente approfondita e verificata in altre occasioni, e si può ragionevolmente ritenere che corrisponda al comportamento ordinario dei primati più vicini all'uomo nelle circostanze sopra dette.

è utile sottolineare quello che la reazione delle nostre scimmie non era. [..] La spiegazione più immediata che si potrebbe addurre è che la vista dell'uva rende meno appetitoso un cetriolo, allo stesso modo in cui la maggior parte degli uomini non toccherà un bicchiere d'acqua se accanto ce n'è uno pieno di birra. In altre parole, le nostre scimmie si potevano infuriare non tanto per quello che otteneva la compagna, ma perché insistevano nel pretendere il loro cibo preferito. Per ciò abbiamo introdotto una modifica nel nostro studio. Prima di ogni test in cui mantenevamo l'equità, in cui cioè entrambe le scimmie mangiavano solo cetrioli, scuotevamo dei grappoli d'uva in maniera vistosa, tanto per far vedere che li avevamo. Questo può apparire crudele, ma in realtà non sembrava infastidire le scimmie: scambiavano ancora con soddisfazione il sassolino per il cetriolo. Solo se l'uva veniva effettivamente data alla compagna quella che veniva esclusa assumeva un atteggiamento di protesta. Era davvero l'iniquità a infastidirle. [42]

Viceversa non sembra che le scimmie non antropomorfe seguissero una norma di equità nei confronti degli altri membri del gruppo.

La scimmia favorita, per esempio, non ha mai ceduto all'altra uno dei suoi grappoli in modo da equilibrare la distribuzione. Se parliamo di «equità», quindi, questa dovrebbe essere intesa come del tipo più egocentrico possibile, paragonabile al genere di trattamento che fa sì che i bambini si mettano a piangere.

Sebbene, dice de Waal, per le antropomorfe una norma di equità non può essere esclusa in assoluto.

Gli scimpanzé, per esempio, a volte sedano i conflitti per il cibo senza alla fine prenderne per sé. Esiste addirittura un'osservazione fatta su una femmina di bonobo preoccupata di ottenere troppo. Durante un test di psicologia cognitiva in un laboratorio, la femmina riceveva grandi quantità di latte e uvetta, ma sentiva su di sé gli occhi dei compagni, che la osservavano da lontano. Dopo un pò iniziò a rifiutare ogni tipo di ricompensa. Guardando lo sperimentatore continuava a fare gesti verso gli altri, finché non veniva data loro una parte dei cibo. Solo a quel punto lei finiva il suo.[43]

Diverso il caso dei i babbuini studiati da Benjamin Beck.

I babbuini sono caratterizzati da bassi livelli di tolleranza sociale e di empatia. Il classico resoconto del primatologo americano Benjamin Beck, che osservò una femmina di babbuino aiutare un maschio allo zoo di Brookfield, nei pressi di Chicago, offre un'interessante riflessione sulla dominanza. [55] I maschi di babbuino sono grandi il doppio delle femmine e possiedono canini affilati come pugnali, dunque non c'è mai alcun dubbio su chi, fra due individui di sesso diverso, sia quello di rango superiore. Una femmina di nome Pat aveva imparato a raccogliere una lunga asta in una zona della gabbia raggiungibile solo passando attraverso una porta troppo piccola per Peewee, il maschio. Peewee, a sua volta, era in grado di usare l'asta per tirare a sé del cibo. Precedentemente aveva già usato lo strumento per conto proprio, condividendo con Pat solo qualche pezzetto di cibo. Tuttavia, la prima volta che Pat andò spontaneamente a prendergli lo strumento, cosa che fece dopo un lungo periodo di grooming tra i due, Peewee si trasformò in un altro babbuino. Dopo aver ricevuto il dono, divideva con Pat cinquanta e cinquanta. Era come se riconoscesse il suo contributo. Ma più la loro collaborazione cresceva, più la quota di Pat diminuiva. Alla fine lei dovette accontentarsi soltanto del quindici per cento circa. Era sempre meglio di niente (il che spiega perché continuasse a portare l'asta), ma è il genere di spartizione che gli esseri umani rifiutano categoricamente nel gioco dell'ultimatum. E non solo gli esseri umani: se Pat fosse stata una scimmia cappuccina, per non parlare di uno scimpanzé, sarebbe andata su tutte le furie per aver ricevuto un cosi misero compenso.

Si può ipotizzare quindi che la soglia di tolleranza all'ingiustizia diminuisca con l'innalzarsi nella scala evolutiva. Nell'uomo e nelle scimmie antropomorfe la tolleranza all'ingiustizia è minore e la tendenza alla collaborazione si riduce, alcune volte anche a fronte di un danno, in tutte le situazioni di non-equità percepita.

Confronto con l'homo economicus

Il confronto con il comportamento dell'homo economicus in situazioni di ingiustizia percepita presenta delle interessanti analogie.

La reazione dei bambini all'ingiustizia percepita [cfr. Agostino] dimostra quanto siano profondamente radicati questi sentimenti, e l'egualitarismo dei cacciatori-raccoglitori suggerisce quanto sia lunga la loro storia. In alcune culture i cacciatori non sono nemmeno autorizzati a fare a pezzi la loro preda, esattamente per impedir loro di favorire la propria famiglia. Coloro che considerano l'equità un nobile principio dalle origini recenti, elaborato dai saggi uomini dell'illuminismo francese, sottovalutano la sua antichità. [35]

Il «gioco dell'ultimatum»

Il «gioco dell'ultimatum» indica che in una situazione di mercato tra due esseri economici la transazione non verrà portata a termine qualora non sia ritenuta equa, anche se ciò determina un danno per entrambe le parti.

I ricercatori hanno testato questo principio offrendo a due giocatori la possibilità di spartirsi una somma di denaro. Ai giocatori viene data una sola occasione. Un giocatore ha il compito di dvidere i soldi in due parti, una per sé e l'altra per il compagno, e di proporre poi questa spartizione all'altro. E noto come «gioco dell'ultimatum», perché non appena l'offerta è stata fatta il potere si sposta al compagno. Se quest'ultimo rifiuta la spartizione, il denaro verrà perso ed entrambi i giocatori resteranno a mani vuote.

Se gli esseri umani fossero massimizzatori di profitto, dovrebbero naturalmente accettare qualsiasi offerta, anche la più bassa. Se il primo giocatore dovesse offrire, diciamo, un dollaro, tenendo per sé nove dollari, il secondo giocatore dovrebbe semplicemente procedere. Dopotutto un dollaro è meglio di niente. Rifiutare la spartizione sarebbe irrazionale, ma questa è la reazione tipica di una divisione nove a uno. Un confronto di quindici società ristrette, realizzato dall'antropologo americano Joseph Henrich e dal suo gruppo, ha mostrato che alcune culture sono più eque di altre.

In questi luoghi remoti, le offerte (in valuta locale e, talvolta, fatte con tabacco al posto del denaro) da una media di otto dollari per il primo giocatore e due per il secondo, fino a quattro per il primo e sei per il secondo. Persino quest'ultima generosa offerta veniva respinta in quelle culture in cui elargire un grosso dono è un modo di far sentire gli altri inferiori. Nella maggior parte delle culture, tuttavia, le offerte erano vicine alla parità, spesso con un leggero vantaggio per il primo giocatore, tipo una divisione di sei dollari contro quattro. Questa è pure l'offerta tipica nelle società moderne, quando sono gli studenti universitari a sottoporsi al gioco dell'ultimatum.

L'equità è compresa in tutto il mondo, anche in luoghi che l'illuminismo francese non ha nemmeno sfiorato. I giocatori evitano di fare proposte fortemente asimmetriche. Che non vogliano apparire avidi è comprensibile: le scansioni cerebrali dei giocatori che ricevono proposte sleali mostrano emozioni negative, come lo sdegno e la rabbia. Il bello del gioco dell'ultimatum è, naturalmente, lo sbocco che offre per questi sentimenti. Quelli che percepiscono un affronto possono punire il proponente, anche se, così facendo, puniscono pure sé stessi. [36]

Il fatto che siamo disposti a fare una cosa del genere dimostra che certi fini hanno la priorità sul guadagno.

In un esperimento, due soggetti ricevevano ognuno una piccola somma di denaro. Se uno consegnava parte del suo importo, il denaro dell'altro sarebbe raddoppiato. Entrambi erano nella stessa situazione. La cosa migliore, dunque, sarebbe stata rinunciare a parte del proprio denaro, perché in quel caso avrebbero entrambi guadagnato. Queste persone tuttavia non si conoscevano e non era loro permesso interloquire. Inoltre, il gioco poteva essere fatto una volta sola. In queste condizioni, sembra più intelligente tenersi semplicemente ciò che si ha, perché non si può contare sull'altro. Eppure, c'è chi ha consegnato comunque i soldi e, quando a farlo erano entrambi i membri di una coppia, otteneva di conseguenza un introito maggiore degli altri. Il messaggio principale di questo studio, e di molti ancora, è che la nostra specie si fida più di quanto prevederebbe la teoria della scelta razionale. [11]

La fiducia negli altri non sempre è un bene

Come capire le intenzioni dell'altro? Come capire se l'altro è degno di fiducia?

La fiducia negli altri può andar bene in un gioco in cui si può fare una prova sola e dove in ballo ci sono pochi soldi, ma sul lungo periodo abbiamo bisogno di essere più cauti. Il problema con qualsiasi sistema cooperativo è che ci sono quelli che cercano di trarne più di quanto ci mettono. [..] Quando manca questa cautela succedono strane cose. Una piccola percentuale di esseri umani nasce con un difetto genetico che li rende fiduciosi e aperti verso chiunque. Sono i pazienti affetti dalla sindrome di Williams, una malattia causata dalla non espressione di un numero relativamente esiguo di geni sul cromosoma sette. [..] Sono anche privi delle basilari competenze sociali necessarie per decifrare le intenzioni altrui: non suppongono mai cattive intenzioni. [12]

Il possesso prevale sul rango

Infine un'ultima osservazione che dimostra come nei primati (si deve necessariamente supporre con forza fisica equivalente) il possesso prevalga sul rango nella distribuzione del cibo.

La reciprocità può essere studiata in cattività consegnando a uno scimpanzé una grossa quantità di cibo, come un cocomero o un ramo frondoso, e osservando quanto ne segue. Come da copione nella filosofia economica reaganiana, chi ha il cibo sarà al centro della scena, con un gruppetto di altri individui intorno a lui o a lei, ben presto seguito dal formarsi di gruppetti secondari attorno a quelli che hanno ottenuto una porzione degna di nota, finché il cibo non è «ricaduto» (secondo appunto la dottrina della trickle-down economics) su tutti i membri del gruppo. I questuanti possono piagnucolare e lamentarsi, ma gli scontri aggressivi sono rari. Le poche volte che effettivamente si verificano, ciò si deve al tentativo del possessore di fare in modo che qualcuno si allontani dal gruppo. Per far questo, assesta un colpo sulla testa della vittima con il ramo o emette versi striduli fino a quando non viene lasciato solo. Qualunque sia il suo rango, è il possessore a controllare la circolazione del cibo. Una volta che gli scimpanzé entrano nell'ottica della reciprocità, la gerarchia sociale passa in secondo piano. [18]

MP

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