Stato cosmopolita e agenzie politiche
Lea Ypi
Stato e avanguardie cosmopolitiche
Laterza, 2016
Libro acerbo e complesso, di difficile lettura in alcuni tratti e non solo per la complessità dell'argomento trattato. Quindi impossibile da riassumere. Nondimeno la recensione di Mathias Risse ne è una buona introduzione. Questa premessa è necessaria per giustificare le manchevolezze della mia recensione.
Il libro inizia con una premessa storica che trova nel riferimento alla riconciliazione kantiana di statismo e cosmopolitismo il suo senso.
Lo scopo principale di questa riscostruzione storica [..] è quello di dimostrare come le relazioni politiche mediate dallo Stato non sono necessariamente incompatibili in linea di principio con i requisiti della giustizia globale - come viene spesso ripetuto da molti autori non-cosmopoliti - né possono essere semplicemente ignorate, o soppiantate da sistemi completamente diversi da quello statale - come invece sperano, talvolta sfiorando l'utopia, i cosmopoliti contemporanei.
Cosmos e polis non sono inconciliabili. Questa è, o dovrebbe essere, una delle chiavi di lettura delle argomentazioni della Ypi. Gli agenti politici che costituiscono, o costituiranno, le avanguardie cosmopolitiche si modellano sull'esistente.
L'assunto implicito del ragionamento [..] è che le trasformazioni politiche, anche quelle ispirate da ideali cosmopolitici, riflettono sempre l'esistenza di particolari fattori economici, sociali e politici: questi si sviluppano su un sostrato di dibattiti che caratterizzano i processi di apprendimento degli individui negli Stati e avendo sullo sfondo gli eventi storici che cambiano continuamente il modo in cui i cittadini si mobilitano per mettere in pratica collettivamente la propria capacità d'azione politica.
A mio avviso, invece, cosmos e polis sono incompatibili. Ma, concordo con la Ypi quando dice che si deve tenere conto dell'esistente, sebbene io ritenga, dialetticamente, che la sintesi sarà un superamento (aufhebung) sia dal cosmos che dalla polis.
Mi spiego meglio. Quello che mi immagino è la sostituzione degli Stati con agenzie politiche legislative non legate al territorio alle quali ciascun individuo potrà liberamente aderire secondo le sue convinzioni religiose, sociali ed economiche ed alle quali sarà giuridicamente soggetto. Ciò implica il superamento sia dello Stato territoriale wesfaliano che delle sue protuberanze cosmopolitiche (ONU, WTO, FMI,...). Se la dialettica ha un senso, questo è il senso della dialettica.
Proverò ora a seguire una delle argomentazioni proposte dalla Ypi: la difesa dell'egualitarismo globale.
Distinzione tra principi normativi e causali
Sostengo che, per elaborare una risposta cosmopolita convincente alle obiezioni statiste, è necessario stabilire l'esistenza di un nesso fondamentale dal punto di vista normativo tra povertà assoluta e povertà relativa, attraverso un'analisi diagnostica accurata che mostri la natura causale del legame tra i due fenomeni.
qualcuno potrebbe obiettare che il rapporto di causalità tra [..] povertà e disuguaglianza non è sufficiente di per sé per dimostrare che i principi normativi che ne sono alla base sono fondamentali dal punto di vista normativo.
Perché questi principi cosmopolitici possano essere considerati anche come principi normativi fondamentali, la critica della povertà assoluta deve ottenere la sua forza dalla critica della povertà relativa.
Questa obiezione merita una risposta ponderata, poiché appare piuttosto insidiosa per i capisaldi della versione di cosmopolitismo che difendo. Per apprezzare la forza di questa critica, si consideri l'esempio addotto da Gerald Cohen per sostenere l'importanza della distinzione tra principi fondamentali normativi e causali [19]. Si tratta del caso dell'assalto alla diligenza: l'autore chiede ai lettori di immaginare un tipico scenario da film western, in cui un certo personaggio ha la possibilità di distribuire pistole e fucili ad alcune persone piuttosto che ad altre a sua discrezione, e che il possesso di queste armi consenta a chi lo ottiene di intraprendere degli assalti alla diligenza allo scopo di rapinare i viaggiatori. Si può anche immaginare che, per effetto di una mutua deterrenza, un'equa distribuzione delle armi non produrrebbe alcuna rapina, e che le uniche ragioni plausibili per l'utilizzo delle armi siano la realizzazione dell'assalto e la difesa della diligenza. [20] Anche se entrambi i fenomeni - l'ineguale distribuzione delle armi e l'esistenza della rapina — appaiono ingiusti, essi risultano tali per motivi diversi e riflettono diversi tipi di ingiustizia. Da una parte, l'ineguale distribuzione delle armi appare ingiusta perché favorisce le rapine; dall'altra parte, le rapine sono ingiuste perché comportano un trasferimento di ricchezza per le ragioni sbagliate, per esempio per la paura di restare uccisi, che spinge le vittime della rapina a privarsi dei propri beni. [21]
Questo esempio permette di chiarire una differenza cruciale: mentre l'ineguale distribuzione di pistole e fucili è fondamentale dal punto di vista causale per spiegare il verificarsi e la frequenza di certi ingiusti trasferimenti di ricchezza, essa non è fondamentale dal punto di vista normativo. [..] L'esistenza delle rapine è, da un punto di vista causale, secondaria, perché si tratta dell'effetto di qualcos'altro, vale a dire l'ineguale distribuzione delle armi entro un certo gruppo di individui. Tuttavia, essa sembra essere fondamentale dal punto di vista normativo: una rapina è ingiusta di per sé, non perché deriva la sua ingiustizia da un certo stato di cose.
La risposta alle possibili obiezioni è che
Le relazioni causali sono particolarmente importanti quando si vuole fare teoria politica da una prospettiva attivista, in quanto si tratta di costruire una teoria che non si limiti soltanto a identificare principi normativi fondamentali, ma che cerchi anche di integrarli con un'interpretazione della funzione e delle finalità delle istituzioni esistenti in grado di guidare la trasformazione politica nel mondo reale. Senza una lettura corretta dei principi causali fondamentali, infatti, un simile tentativo di orientare l'azione in accordo con i principi normativi fondamentali sarebbe condannato al fallimento.
In questo senso, c'è una differenza rilevante tra l'approccio statista e quello cosmopolitico che cerco di difendere. Mentre gli autori statisti dedicano una certa attenzione ai principi che possono attenuare il fenomeno dclla povertà assoluta, essi sembrano ignorare il nesso di causalità che intercorre tra povertà assoluta e povertà relativa.
Povertà assoluta e povertà relativa
Il bisogno di alleviare la povertà assoluta deriva dalla condizione naturale di vulnerabilità dell'essere umano, che si può facilmente isolare rispetto alle preferenze soggettive, alle convenzioni sociali o al desiderio smodato di possedere un bene qualunque. Per esempio, le richieste di nutrimento, riparo e assistenza sanitaria minima si configurano come espressioni della necessità di soddisfare i bisogni primari rispetto ai quali ciascun individuo ha diritto per condurre una vita che possa definirsi decente [12]. In questo senso, perciò, le richieste di porre rimedio a situazioni di povertà assoluta sono non-comparative, ovvero, per soddisfarle è necessario determinare ciò di cui chi soffre ha bisogno, indipendentemente da qualunque altro fatto relazionale. I fatti relazionali, è bene precisare, sono quelli che riguardano la posizione di altri agenti rispetto a chi rivendica dei diritti [13]. Per stabilire se un certo individuo è vittima di un'ingiusta privazione dell'accesso a beni primari necessari per la sopravvivenza non c'è bisogno di verificare se anche altri hanno subito la stessa privazione. La situazione del singolo individuo è valutata esclusivamente alla luce di un criterio oggettivo di benessere che permette di esprimere un giudizio morale sulle condizioni di vita in esame. [14]
Considerare il fatto che le rivendicazioni di mezzi per la sussistenza siano non-comparative può essere utile per stabilire quali sono le differenze tra povertà assoluta e povertà relativa. Una condizione di indigenza relativa, così come uno stato di indigenza assoluta, è causata dall'impossibilità di ottenere certi beni; quando si tratta di povertà relativa, però, i beni in questione sono comparativi e relazionali. I motivi per cui determinati soggetti rivendicano questo tipo di beni sono legati al modo in cui altri soggetti traggono beneficio dal loro possesso. Per esempio, per ogni individuo l'accesso a tali beni può dipendere dall'esistenza di particolari istituzioni politiche o economiche, dalle risorse di cui dispongono gli altri individui, e da come tutti i soggetti coinvolti interagiscono entro un certo contesto istituzionale. Ma, viene da chiedersi, cosa si intende esattamente con l'espressione «povertà relativa»?
Ci sono due possibili risposte per questa domanda. In primo luogo, la relatività in questione è quella di un certo bene che si vorrebbe possedere. Un chiaro esempio di beni di questo genere è presentato da Adam Smith, che definisce i beni primari come «tutto ciò di cui, secondo gli usi del paese, è considerato indegno che la gente rispettabile, anche dell'ordine più basso, sia priva». Uno dei casi a cui Smith fa riferimento è particolarmente utile per illustrare la differenza tra povertà assoluta e povertà relativa nel caso in cui si consideri la dotazione di beni specifici. Così, egli afferma che una camicia di tela, «a rigor di termini, non è una necessità vitale». Nella Grecia antica o nella Roma repubblicana e imperiale — e probabilmente ciò valeva anche in alcune società non occidentali dell'era moderna — le persone non facevano uso di camicie di tela, e perciò la loro mancanza non costituiva affatto un problema da classificare come una situazione di indigenza. Però, prosegue Smith, «attualmente, nella maggior parte dell'Europa, un lavoratore giornaliero che si rispetti si vergognerebbe di apparire in pubblico senza camicia di tela». [15]
Nel particolare contesto di riferimento che egli ha in mente, quindi, la mancanza di determinati beni pone gli individui in una posizione svantaggiata rispetto al resto della società. La povertà relativa di un individuo è determinata dall'impossibilità di ottenere determinati beni sociali a cui invece hanno accesso gli altri componenti della società; tuttavia, questa povertà è relativa al livello di benessere di cui godono altri, e sarebbe assurdo affermare che un individuo non può sopravvivere se non possiede delle camicie di tela, o che tutti hanno diritto a un'equa distribuzione di camicie di tela, a prescindere dal luogo in cui vivono. In secondo luogo, la relatività che caratterizza la povertà relativa può essere intesa come la diversa disponibilità di mezzi attraverso i quali è possibile garantirsi un determinato bene.
In ambienti caratterizzati da logiche competitive, alcune risorse — potere politico, capacità commerciali, livello minimo di istruzione, abilità all'impiego, diritti di proprietà e accesso alle tutele che derivano dalla legge — costituiscono dei beni particolari, e possono essere considerati come dei mezzi che permettono agli individui di ottenere determinati beni. Il bisogno di questi mezzi per un certo individuo non deriva soltanto dalla sua particolare situazione, ma anche da come tutti gli attori che fanno parte di un certo sistema sociale e politico interagiscono tra loro. In un'economia di mercato, per esempio, il miglioramento delle condizioni di vita per un certo gruppo sociale comporta l'aumento della domanda di alcune categorie di beni, e di conseguenza ne determina l'aumento di prezzo per tutti i consumatori; d'altro canto, questo processo fa sì che l'accesso a quelle stesse categorie di beni non sia più possibile per i membri di quei gruppi i cui salari non sono regolati in maniera tale da adattarsi alle fluttuazioni del mercato [16].
Giustizia egualitaria e giustizia sufficientaria
La povertà assoluta e la povertà relativa vengono associate a concezioni della giustizia sovente diverse fra loro.
La domanda che voglio affrontare a questo punto è la seguente: in che modo risultano legate tra loro la giustizia egualitaria e la giustizia sufficientaria? Volendo sintetizzare, si potrebbe dire che la giustizia sufficientaria riguarda la questione di far sì che tutti abbiano abbastanza, mentre la giustizia egualitaria dà a ciascuno tanto quanto possiede ciascun altro [19]. La condizione di povertà assoluta configura un problema di povertà, mentre la condizione di povertà relativa costituisce un problema di ineguaglianza; quindi, le due forme di giustizia — sufficientaria e egualitaria vanno analizzate indipendentemente l'una dall'altra. I principi che esse generano sono infatti diversi: principi non-comparativi nel caso della giustizia sufficientaria, e principi comparativi nel caso della giustizia egualitaria. Il fatto che questi principi siano indipendenti tra loro dal punto di vista logico ha portato alcuni teorici politici a ritenere che la loro portata debba essere diversa; in particolare, alcuni hanno sostenuto che i primi sono adatti al contesto globale, mentre i secondi non lo sono e vanno quindi applicati solo a contesti statali. È proprio questa opinione che voglio ora confutare.
Innanzi tutto, è bene partire dall'analisi del rapporto tra la giustizia sufficientaria e quella egualitaria. Un caso emblematico di povertà assoluta è la mancanza di cibo che conduce all'inedia, mentre un esempio tipico di povertà relativa è l'assenza di un'equa distribuzione delle possibilità di accedere a un determinato bene: per esempio, potrebbe trattarsi delle opportunità di lavoro, o della fruizione di servizi sociali basilari, o della possibilità di avere a disposizione i mezzi necessari per ottenere un certo bene. In ogni caso, un'equa distribuzione dovrebbe dare a ciascuno uguali possibilità di accedere al bene in questione. Gli autori statisti generalmente affermano che la povertà assoluta richiede principi sufficientari che garantiscano l'accesso ai beni primari (o di sussistenza), e ritengono che questi principi abbiano una portata globale. Allo stesso tempo, però, essi negano che da ciò discenda la necessità di operare a livello globale in risposta a rivendicazioni di una più equa redistribuzione delle risorse o dei beni, e sostengono invece che l'uguaglianza distributiva sia giustificabile solo entro circostanze di giustizia che si danno nel contesto statale.
Ritengo che questa differenza di portata dei principi di giustizia avanzata dagli autori statisti sia difficile da difendere da un punto di vista normativo. Propongo a tal proposito di considerare ancora una volta l'esempio con cui è iniziato il capitolo: la morte per inedia avviene quando un essere umano non assume una quantità di cibo sufficiente per sostenere le proprie funzioni vitali. Tuttavia, a causarla non è sempre una scarsità di alimenti estrema e generalizzata; anzi, talvolta accade che, pur essendovi in una data società una gran quantità di cibo a disposizione, alcuni gruppi non hanno accesso ai mezzi necessari per procurarselo: un impiego, un livello minimo di istruzione necessario per poter sfruttare alcune opportunità offerte dal mercato, un potere d'acquisto sufficiente.
L'analisi di alcune delle carestie più gravi che si sono verificate durante il secolo scorso sembra confermare l'esistenza di un nesso di natura causale tra povertà assoluta e povertà relativa [21]. In questi eventi, ciò che ha portato alla fame alcuni gruppi sociali non è stata la scarsità di alimenti disponibili, ma piuttosto il fatto che i gruppi sociali svantaggiati sono stati dimenticati, mentre altri gruppi sociali vedevano migliorare le proprie prospettive economiche entro nuove circostanze politiche. Nel caso della carestia in Bengala del 1943, per esempio, il problema principale non fu la scarsità del riso — i raccolti erano in linea con quelli degli anni precedenti — ma il fatto che ci furono modifiche nei diritti di scambio e di conseguenza emersero gruppi che non disponevano più dei mezzi necessari per procurarsi una quantità sufficiente di cibo.
Vorrei rimarcare che il problema alla radice non è l'impossibilità di avere accesso ai beni di sussistenza in termini assoluti, ma la crescita delle disuguaglianze in termini relativi. Si consideri un nuovo esempio: una delle ragioni per cui i cittadini dei paesi in via di sviluppo non possono permettersi il pane è che i cittadini dei paesi industrializzati consumano più carne che in passato. Infatti, una delle più importanti cause dell'aumento dei prezzi del cibo che si è verificato negli ultimi anni a livello mondiale sembra essere il cambiamento nelle abitudini alimentari di porzioni crescenti della popolazione che appartengono al ceto medio urbano in due paesi che sono i maggiori produttori e esportatori di riso e grano, ovvero la Cina e l'India [27].
Dal punto di vista empirico, è chiaro che gli effetti di questi cambiamenti nelle abitudini sociali e negli standard ambientali non possono essere contrastati in maniera efficace attraverso misure interne agli Stati produttori, in quanto queste non possono impedire le disuguaglianze che emergono come conseguenza di dinamiche globali. Ma questa è solo una parte del problema. Gli esempi che ho riportato mostrano che le istanze relative alla riduzione della povertà assoluta sono collegate da un punto di vista causale alla negligenza rispetto alle istanze per la riduzione dei fenomeni di povertà relativa. La povertà e la disuguaglianza sembrano condizioni strettamente interconnesse. Perciò, a mio avviso, la distinzione tra la portata del sufficientarismo e la portata dell'egualitarismo suggerita dagli autori statisti non è adeguata per cogliere questi aspetti. [..] Nel momento in cui si stabilisce l'esistenza di nessi causali tra determinati fenomeni bisognerebbe ripensare il peso, la portata e la relazione tra principi normativi alternativi, perché la loro definizione ha importanti implicazioni per la costruzione di una teoria che mira a collocare i suoi principi normativi generali a un livello di analisi fondamentalmente appropriato.
Un ragionamento di questo tipo porta a considerare sotto una nuova luce la distinzione tra principi da adottare per far fronte alla povertà relativa e principi per risolvere il problema della povertà assoluta rispetto alla portata di una teoria della giustizia. In particolare, esso dimostra che non si possono limitare i principi egualitari all'ambito statale e invocare principi di sufficientarismo puro per il contesto globale e invita a sviluppare una teoria diversa, che tenga conto del rapporto tra sufficientarismo e egualitarismo. Una teoria di questo genere sostiene che le ragioni per cui si deve rimediare alla povertà assoluta e quelle che spingono a combattere la povertà relativa sono strettamente connesse.
Prima di proseguire nel ragionamento, vorrei chiarire per quale motivo la critica dell'approccio sufficientario puro proposto dagli autori statisti è importante per costruire una teoria della giustizia globale. Se la povertà assoluta è legata all'emergere delle disuguaglianze relative, occuparsi di queste senza fare alcunché per debellare l'altra non sembra un modo di procedere efficace. Alcuni autori sufficientaristi riconoscono questo punto quando sostengono che l'uguaglianza potrebbe costituire «l'approccio più praticabile per soddisfare le istanze sufficientarie» [29]. Ma il cuore del problema non riguarda né l'efficacia né la praticabilità delle soluzioni possibili; esso sta piuttosto nel determinare quale tipo di teoria della giustizia contenga l'interpretazione delle circostanze di ingiustizia più appropriata rispetto ai fondamenti normativi che la sostengono. La scelta, quindi, è tra una teoria che riconosce il ruolo dei principi causali fondamentali e una teoria alternativa che invece li ignora. Non si prenderebbero seriamente in considerazione le istanze di contrasto alla povertà assoluta se si ignorasse il tipo di disuguaglianze sociali relative da cui tale fenomeno trae origine. Il più grande limite delle teorie sufficientarie pure che si occupano del contesto globale, a mio avviso, è quello di considerare principi non-comparativi di giustizia come gli unici rilevanti da un punto di vista morale. Gli autori statisti circoscrivono la portata dei principi comparativi alle circostanze di giustizia che si realizzano entro i confini statali, e si affidano a principi non-comparativi per tutte le relazioni che afferiscono alla sfera globale. Ciò che cerco di dimostrare è che questo tipo di ragionamento non è giustificabile: il ricorso ai principi non-comparativi, infatti, non permette di tenere in debito conto le relazioni che intercorrono tra i fenomeni della povertà assoluta e relativa, e nemmeno di considerare in maniera adeguata problemi come il miglioramento delle condizioni di certi agenti piuttosto che di altri all'interno di una data società. 200 [..] se, nella costruzione di una teoria, si mantiene una distinzione netta degli ambiti di applicazione per la giustizia sufficientaria e per quella egualitaria non solo si sceglie un modo di procedere che è deludente sotto il profilo dell'efficacia, ma si commette anche un errore metodologico. Così facendo, infatti, si porrebbe l'attenzione sulla natura moralmente inaccettabile della povertà assoluta e delle conseguenze della povertà globale, ma si tralascerebbe di considerare l'inaccettabilità morale dei meccanismi sociali, politici e redistributivi che ne sono alla base. [..]
Perciò, non si può ritenere che i principi sufficientari si applichino a un ambito completamente diverso rispetto a quello in cui operano invece i principi egualitari [..] La mia idea è che si dovrebbero considerare più seriamente le cause strutturali della povertà assoluta e che si dovrebbe studiare l'impatto dei meccanismi economici e politici attraverso i quali si manifestano i problemi legati alla sussistenza; quindi, si dovrebbe cercare di stabilire in che modo le cause sono legate agli effetti e come la loro relazione condiziona la disuguaglianza sociale relativa e l'ingiustizia politica, sia a livello statale che a livello globale. Per capire come l'egualitarismo e il sufficientarismo possano essere integrati per costruire una teoria della giustizia globale più solida è necessario effettuare una scelta tra due modi diversi di concettualizzare il nesso tra povertà assoluta e relativa, ovvero tra povertà e disuguaglianza.
La prima possibilità è quella di considerare la povertà assoluta e i principi generati da una concezione sufficientaria della giustizia come principi non-comparativi di assistenza alle persone che versano in condizioni di indigenza estrema. Optando per questa soluzione, si individua un ambito di applicazione globale per una concezione sufficientaria, ma senza bisogno di rinunciare all'egualitarismo nell'ambito statale. La seconda possibilità, quella che io sostengo, è quella di considerare le istanze per l'eliminazione della povertà assoluta come causalmente dipendenti dalle istanze per l'eliminazione della povertà relativa. Mentre nel primo caso l'analisi della povertà non tiene conto della struttura di sfondo entro la quale emergono le disuguaglianze nell'ambito globale, nel secondo caso per porre rimedio alla povertà assoluta è necessario operare per risolvere le situazioni di povertà relativa riducendo le disuguaglianze sociali — disuguaglianze che riguardano il reddito e i mezzi per accedere alle risorsemateriali fondamentali per la sopravvivenza, ma anche, più in generale, disuguaglianze di potere e di opportunità di partecipazione alla vita politica. È importante notare che adottando la prima posizione si giunge a considerare il sufficientarismo e l'egualitarismo come concezioni adatte ad ambiti diversi in conseguenza della concettualizzazione della povertà assoluta e relativa come fenomeni indipendenti; la seconda prospettiva, invece, consente di considerare sufficientarismo ed egualitarismo come concezioni basate su concetti diversi ma che dovrebbero generare una teoria fondata su principi rimediali interdipendenti. In base a una simile teoria, se si riconosce che fenomeni di povertà e di disuguaglianza sono collegati tra loro e se si accetta il fatto che una concezione sufficientaria abbia portata globale, allora si dovrebbe anche accettare la portata globale di una concezione egualitaria della giustizia.
Ho cercato di stilizzare il ragionamento della Ypi, che logicamente condivido, e che si può ulteriormente riassumere così: In una prospettiva cosmopolitica l'approccio sufficientario alla giustizia globale è incompatibile con l'applicazione della giustizia egualitara all'interno dei singoli Stati.
Per chi ha avuto la pazienza di leggere ed è giunto fin qui un commento conclusivo. Come nell'idraulica l'acqua si pareggia al livello più basso, così la tendenza che si osserva nella realtà effettuale della società affluente è un riflusso verso forme sempre più marcate di sufficientismo, cioè di limitazione dell'aiuto esclusivamente alle condizioni di povertà assoluta, anche all'interno delle nazioni più ricche.
Bibliografia
- Immanuel Kant
- - Idea per una storia universale in un intento cosmopolitico, tr. Maria Chiara Pievatolo, Bollettino telematico di filosofia politica, URL [Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, in Berlinische Monatsschrift, 04 (November), 1784, pp. 385-411; Akademie-Ausgabe, Band VIII, URL]
- - Per la pace perpetua, tr. Maria Chiara Pievatolo, Bollettino telematico di filosofia politica, URL [Zum ewigen Frieden, 1795; Akademie-Ausgabe, Band VIII, URL]
- - Primi principi metafisici della Dottrina del Diritto, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, UTET, Torino, 19713 [Metaphysiche Anfangsgründe der Rechtslehre, 1797; Akademie-Ausgabe, Band VI, URL]
- Lea Ypi
- - Stato e avanguardie cosmopolitiche, tr. Elisa Piras, Laterza, Roma-Bari, 2016
- - Global Justice and Avant-garde Political Agency, Oxford University Press, 2012
- - Justice in Migration: A Closed Borders Utopia?, «The Journal of Political Philosophy», 16-4, pp. 391-418, 2008
- - On the Confusion between Ideal and Non-ideal in Recent Debates on Global Justice, «Political Studies», 58-3, pp. 536-555, 2010
- - Natura Daedala Rerum? On the Justification of Historical Progress in Kant's Guarantee of Perpetual Peace, «Kantian Review», 14-2, pp. 118-148, 2010
- - Public Spaces and the End of Art, «Philosophy and Social Criticism», 38/8, pp. 843-860, 2012
- - Permissive Theory of Territorial Rights, «The European Journal of Philosophy», 22-2, pp. 288-312, 2014