Filosofia della cronaca
8. Chi ha scritto sulla lavagna?
8.01Da molto tempo ormai penso che il giorno in cui il professor Pier Luigi Campi mi disse che avrei dovuto publicare quelle frasi scritte in fretta alla lavagna durante l'intervallo delle lezioni sapesse che stava parlando di sé stesso.
8.02 Tutto inizia giovedì 9 maggio alle 9.20... due coltelli e due pistole a tamburo... una Smith & Wesson calibro 7.65... una Colt calibro 9... Alessandria... casa penale di piazza Don Soria... Cesare Concu... Domenico Di Bona... Everardo Levrero... ci sono 15 ore per studiare la situazione... le Brigate Rosse hanno rapito il giudice Sossi... domenica si vota per il referendum sul divorzio... la tensione è alta... un clima teso e “spesso” come la coltre di nebbia che d'inverno avvolge tutto tra Tanaro e Bormida... è subito chiaro che è una roba seria... il procuratore Buzio tenta di comprendere come stanno le cose... l'Assistente Sociale Graziella Vassallo Giarola raggiunge... volontariamente... i rivoltosi... forse... per facilitare le trattative... ma viene presa la decisione di non scendere a patti... il sindaco di Alessandria... Borgoglio... cerca di convincere il procuratore di Torino a cambiare idea... non scendere a patti... invia un telegramma... al presidente del consiglio Mariano Rumor... rimane senza risposta... non scendere a patti... l'allarme è esagerato... basterebbero diplomazia e pazienza... lo Stato si difende... lo Stato... lo Stato... arrivano... ispettore carcerario di Piemonte e Lombardia... generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa... procuratore di Torino... arrivano... i cecchini... alle 19.30... trattative interrotte.... vengono lanciati i lacrimogeni... carabinieri e guardie carcerarie mandate all'assalto... si spara... il tentativo si risolve in un disastro... la porta di ferro dell'infermeria resiste ai mitra e alle spallate... cadono... colpiti... Roberto Gandolfi... medico... Pier Luigi Campi... professore... i rivoltosi si ritirano con gli ostaggi... la tensione si alza... la notte... alle 17 del venerdì parte l'assalto... come il giorno precedente... ancora candelotti lacrimogeni... ancora spari... la porta dello stanzino è socchiusa... un candelotto rotola attraverso la corsia... la porta viene chiusa con un calcio... il lacrimogeno esplode avvolgendo tutto in un fumo denso... ancora spari... colpi isolati... raffiche di mitra... gli assaltatori avanzano con cautela... gridano «venite fuori»... rispondono voci terrorizzate... «non sparate»... il fumo si dirada... il sangue... corpi... senza vita... assistente sociale Vassallo Giarola... brigadiere Gennaro Cantiello... appuntato Sebastiano Gaeta... detenuto Cesare Concu... detenuto Domenico Di Bona... quattordici feriti... è finita...
8.03Dieci giorni dopo
Alessandria, 19 maggio. E' morto oggi nel reparto rianimazione dell'ospedale di Alessandria il prof. Pier Luigi Campi, 42 anni, uno degli insegnanti che erano stati presi in ostaggio dai tre detenuti protagonisti della rivolta della settimana scorsa nel carcere di Alessandria. Il prof. Campi era stato colpito con due pallottole sparate a bruciapelo da uno dei rivoltosi durante il primo tentativo — fallito — dei carabinieri di catturare il terzetto di detenuti, nel pomeriggio di giovedì 9 maggio. Il prof. Campi era stato subito trasportato nel reparto rianimazione. Nei giorni scorsi, era stato sottoposto a due interventi chirurgici; uno dei due proiettili che lo avevano ferito era stato asportato, ma i medici non avevano potuto estrarre il secondo, quello che aveva leso in modo irreparabile il cervello. Pier Luigi Campi, originario di Genova, si era trasferito ad Alessandria da poco meno di quattro anni; insegnava agraria all'istituto tecnico « Leonardo da Vinci » di Alessandria ed estimo nella scuola per geometri del carcere. [..]
8.04Un anno dopo
Oggi, ad un anno da quei fatti, non solo l'istruttoria non è ancora conclusa [..] ma quello che è più grave, non è stato possibile accertare come Concu, Di Bona e Levrero abbiano ricevuto in carcere quelle armi che servirono alla rivolta. Si avanzarono diverse ipotesi per spiegare la presenza delle rivoltelle, si indicarono responsabilità in gruppi politici estremisti, si parlò di armi provenienti dal paese di Di Bona. Parole, ipotesi, ma nulla di concreto. Evidentemente ci sono state delle responsabilità, ma nessuno ha potuto, o voluto accertarle. Ad un anno di distanza non sono ancora sopite le polemiche su come la rivolta venne domata, sulle decisioni prese in quei drammatici momenti [..]
8.05Quattro anni dopo
Everardo Levrero comparirà martedì prossimo davanti alla corte d'assise di Genova cui la Cassazione ha affidato il processo [..] Concorso in omicidio volontario continuato aggravato dalla premeditazione, concorso in tre tentati omicidi pluriaggravati, concorso in sequestro di persona continuato, concorso in tentata evasione aggravata, concorso in violenza e minaccia aggravata, uso delle armi nei confronti di magistrati, carabinieri, agenti di custodia. Rischia l'ergastolo.
Chi è Everardo Levrero? Aveva 17 anni quando, per la prima volta, ebbe a che fare con la polizia. Assieme ad altri giovani aveva fondato a Genova un gruppo denominato «Milizia volontaria nazionale», si era buscato una denuncia per ricostituzione del partito fascista ma era stato prosciolto in istruttoria. Nel 1970 rapinò con tre complici un ufficio postale genovese. Arrestato, tentò di uccidersi con il veleno, una fiala di cianuro che teneva legata al polso destro. Fu condannato a dieci anni e nove mesi di carcere, pena che stava appunto espiando nel penitenziario di Alessandria. Del terzetto che metterà a ferro e fuoco la prigione sarà l'anello più debole. Come un cane spaurito, al culmine dell'assalto da parte delle forze dell'ordine, si getterà in ginocchio davanti a uno degli agenti di custodia in ostaggio: «Ecco, prendi il mìo coltello ma proteggimi, non farmi sparare addosso». Questa, dunque, la sua condizione psicologica al momento della resa. Scrive il giudice istruttore nella sua ordinanza di rinvio a giudizio: «La figura di Everardo Levrero risulta essere, in seno al terzetto, quella del gregario. Egli svolge prevalentemente attività esecutive ed esercita la sorveglianza sugli ostaggi. E' a lui, tra l'altro, che viene affidato uno dei compiti meno brillanti, Quello di scortare gli ostaggi al gabinetto per le loro necessità». Ben diversa, invece, la valutazione degli altri due personaggi. Cesare Concu, capo dei rivoltosi, è definito un «duro» con venature politiche alimentate dal credo extraparlamentare di «Lotta continua». A 19 anni, in Sardegna, violentò una settantenne. Emigrato con la moglie in Piemonte, a Druento, fece una rapina e fini dentro. Mentre scontava la pena seppe che la moglie l'aveva tradito. Quando usci la strozzò con una calza di nailon. Fu condannato a ventun anni. Nelle maledette trentun ore vissute nell'infermeria del penitenziario sparò contro gli ostaggi che più odiava, gli agenti di custodia. Altrettanto «duro» e «spietato» Domenico Di Bona, al quale si attribuisce l'uccisione del dottor Roberto Gandolfi, del professor Pier Luigi Campi e dell'assistente sociale Graziella Giarola. Doveva espiare vent'anni (era in carcere da dieci) per aver ammazzato un benzinaio nel tentativo di strappargli l'incasso della giornata. Alla vecchia madre, che era andata da lui a supplicarlo in lacrime di liberare gli ostaggi, aveva risposto con durezza: «Mamma, va via, non sono più un bambino». Everardo Levrero, dunque, non ha uccise e le uniche armi che ha avuto, per le mani durante là rivolta sono state due coltelli (gli altri disponevano di due rivoltelle). Ma il bandito genovese non sarà processato soltanto per aver accompagnato gli ostaggi al gabinetto: il codice penale punisce in egual misura quanti cooperano al delitto, indipendentemente dal ruolo da essi rivestito. Scrive il giudice istruttore: «Gregario, non attore materiale di atti cruenti, arresosi nel finale, Everardo Levrero non può tuttavia non essere chiamato a rispondere di concorso nei reati più gravi. Inequivocabile è stata la sua adesione al sanguinario programma criminoso, coinvolgente decine di persone inermi, da catturare con l'inganno, vittime designate nel caso che le autorità avessero ritardato a sottomettersi alle pretese dei rivoltosi, miranti a realizzare a tutti i costi un'evasione di gruppo». La rivolta, ricordiamo, scoppiò la mattina del 9 maggio 1974. I tre detenuti irruppero, armi alla mano, nell'infermeria del penitenziario, sequestrarono medico, agenti di custodia e detenuti. A questo punto, si legge nell'ordinanza di rinvio a giudizio, fu proprio Everardo Levrero che si dette da fare per allargare la trappola: «Si recò nelle aule della scuola annessa al penitenziario per segnalare falsamente ai singoli insegnanti il malessere dell'uno o dell'altro loro collega, inducendoli a portarsi nell'infermeria dove stavano in agguato i due compagni. Costoro ebbero cosi agio di arricchire via via, legandoli, il numero degli ostaggi, vieppiù ingrossato da detenuti e da uomini del personale di custodia sopraggiunti in quel locale casualmente o per curiosità di apprendere quanto di insolito stava accadendo» Unico «sequestro anomalo» (il magistrato lo definisce così) è quello della giovane assistente sociale Graziella Giarola. Era andata spontaneamente nell'infermeria, voleva persuadere i rivoltosi ad arrendersi, invece era stata trattenuta in ostaggio. E sarà uccisa.
8.06Dieci anni dopo
Due sentenze (l'ultima di ieri l'altro, pronunciata dalla corte di appello di Torino, che ha confermato quanto stabilito dal tribunale civile sempre di Torino nel dicembre 1981) affermano, senza ombra di dubbio, che fu «l'incuria, la negligenza, il permissivismo, la politicizzazione in atto all'interno del reclusorio a consentire la rivolta e, quindi, la strage». Responsabile quindi, da un punto di vista civile, la pubblica amministrazione: è lei, pertanto, nella veste di Ministero di Grazia e Giustizia, che deve pagare i danni (alcune centinaia di milioni) alle famiglie di due delle vittime, Pier Luigi Campi e Roberto Gandolfi ed a un ferito. Quest'ultimo è l'ing. Vincenzo Rossi, insegnante; le altre sono Rosalia Castelli e Carla Pietrasanta, vedove rispettivamente del Prof. Pier Luigi Campi, insegnante, e del dottor Roberto Gandolfi, medico carcerario. Nessuno finora aveva pensato di risarcire costoro che nel 1976 intentarono causa allo Stato. La vertenza si è protratta a lungo ma ora la sentenza di secondo grado dei giudici torinesi parla chiaro: tutte queste persone devono essere risarcite. Già la sentenza del dicembre 1981 era stata di questo avviso ma l'avvocatura di Stato dopo aver lasciato trascorrere tredici mesi, per ritardare al massimo il pagamento dovuto, all'ultimo momento appellò la sentenza. Sono passati altri mesi ed, ora è giunto il secondo giudizio di condanna dello Stato. Se poi questo sarà sollecito o meno a pagare, resta da stabilire. Lo Stato ha già provveduto a risarcire le famiglie delle altre vittime — l'assistente sociale Graziella Vassallo Giarola, il brigadiere Gennaro Cantiello e l'appuntato Sebastiano Gaeta — dipendenti statali. Certa e inequivocabile la responsabilità dell'amministrazione pubblica — hanno detto i giudici sia in primo sia in secondo grado — si è violato non solo il regolamento ma le comuni ed elementari norme di prudenza e diligenza». Una requisitoria dura che ha bollato il Ministero competente costringendolo a pagare i danni causati. [..] La rivolta avvenne perché i carcerati erano armati poiché nel carcere regnava un regime di «incuria, permissività, negligenza». Una strage inutile, che poteva essere evitata — furono compiuti tanti errori — e che molti in città ancora non hanno dimenticato.
8.07Non è finita...
«Sofferenze, procedimenti giudiziari, spese, oneri gravosi per la negligenza prima e l'indifferenza poi. Dopo non aver voluto riconoscere gli sbagli del 1974 l'Avvocatura dello Stato ora si attesta sulla linea della limitata difensiva quasi non curante del lesi diritti degli interessati e degli oneri che in definitiva graveranno solamente sulla casse statali. Quale conclusione potrà trarre la pubblica opinione?». Questo l'amaro sfogo dell'ing. Vincenzo Rossi dopo aver appreso che l'Avvocatura dello Stato ha chiesto alla Cassazione di annullare la sentenza della Corte d'Appello di Torino che lo scorso febbraio ha condannato il ministero di Grazia e Giustizia a risarcire i danni ai familiari di due delle vittime della strage al reclusorio alessandrino (9 maggio 1974) e a uno dei feriti. Perché l'impugnazione? I giudici di secondo grado hanno stabilito che nel risarcimento non deve essere compresa la somma di cento milioni assegnata al figli del medico del carcere, Il dottor Roberto Gandolfi, una delle vittime, in base alla legge sul terrorismo. Immediatamente è stato presentato un controricorso. Dice l'ing. Rossi, che all'epoca della strage insegnava nella scuola carceraria e durante la drammatica rivolta, costò la vita a cinque ostaggi e a due dei tre detenuti che tentavano d'evadere, rimase gravemente ferito: «La circostanza non mi riguarda e non riguarda neppure Lucia Castelli, vedova del professor Pier Luigi Campi, pure docente in carcere e ucciso il giorno della strage». E soggiunge: «Per di più io dovrei essere condannato a pagare le spese di giudizio». E' una situazione assurda: l'Avvocatura dello Stato fra l'altro nel chiedere l'annullamento della sentenza non entra nel merito e non censura la sentenza del giudici torinesi a detta del quali vi fu responsabilità da parte della pubblica amministrazione che deve provvedere al risarcimento con centinaia di milioni complessivi. Per ottenere il riconoscimento dei loro diritti i familiari del dottor Gandolfi e del prof. Campi e l'ing. Rossi intentarono causa allo Stato che aveva provveduto solo a risarcire i congiunti delle altre vittime (le guardie carcerarie). La causa ha preso il via nel 1976 ma è ancora lontana dall'essere definita. Nel dicembre 1981 tribunale civile di Torino sentenziò che la pubblica amministrazione doveva pagare perché aveva violato il regolamento e le comuni norme di sicurezza. L'Avvocatura di Stato lasciò trascorrere oltre un anno e solo all'ultimo momento utile appellò la sentenza. Nel febbraio scorso la Corte d'Appello sempre di Torino confermò la decisione del giudici di secondo grado. Ora il nuovo ricorso dell'organismo statale.
8.08Qualcuno ha sbagliato: certamente la direzione del carcere in cui sono entrate due pistole; certamente il generale Carlo Alberto dalla Chiesa e il procuratore generale di Torino, Reviglio della Venaria, che non hanno saputo valutare operativamente la situazione; anche il parlamento italiano che ha male legiferato; ma, forse, più di tutti l'avvocatura dello Stato, che rifiutando di accettare una sentenza emessa in nome del Popolo Italiano, ha dimostrato al di là di ogni dubbio che qualcosa proprio non funziona.