La fine della storia

Matteo Vegetti
La fine della storia
Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève
Jaca Book, 1999
Dopo Ratisbona, si è saliti su a Bayreuth, dove si suona la musica, e si è seguita la valle della Saale, come l'armata di Napoleone. A Jena ci hanno fatto vedere la casa di un filosofo tedesco che, il giorno della battaglia, lo chiamava l'Anima del Mondo.
- Chi chiamava così ? - chiesero.
- Napoleone - rispose il soldato Brût
- Bisogna riconoscere che Napoleone, era qualcuno - disse Paul
- Fare tante storie per morire a Sant'Elena, bisogna essere stronzi, - disse Julia
Il giorno dopo, gli avevano fatto vedere loro il campo di battaglia dove il 14 ottobre 1806 Napoleone aveva distrutto l'esercito prussiano. [Queneau pag. 1015 - Vegetti pag. 111]

Tutti sanno che la Storia è finita a Jena il 14 ottobre 1806. A questo allude il romanzo di Queneau. Poichè, mentre scrive, ode i colpi del cannone ed i rumori della battaglia, il filosofo sa che, a pochi chilometri di distanza dalla sua casa, la Storia si sta compiendo, mediante la vittoria di Napoleone e la soppressione dialettica tanto del Signore quanto del Servo.

Ora, secondo Hegel, è nelle e mediante le guerre di Napoleone, e in particolare, nella e mediante la battaglia di Jena, che si realizza il compimento della Storia attraverso la soppressione dialettica (Aufheben) tanto del Signore quanto del Servo. Poichè ode i rumori di questa battaglia, Hegel può sapere che la Storia si compie o si è compiuta, e che di conseguenza, la sua concezione del Mondo è una concezione totale, il suo sapere è un sapere assoluto. [..] La storia universale non è dunque nient'altro che la storia del rapporto dialettico tra Signoria e Servitù. La Storia si compirà dunque nel momento in cui sarà realizzata la sintesi del Signore e del Servo, sintesi costituita dall'Uomo integrale, il Cittadino dello Stato universale e omogeneo creato da Napoleone. [Kojève p.214-215]

Questo è il tema principale entro il quale si muove Matteo Vegetti nel suo libro su Kojève.

Si può forse sorridere di questa immagine mitologica dello spirito del tempo, ma non si può dubitare che la battaglia di Jena sia espressione di una frattura epistemologica intervenuta nell'ideologia sociale fra XVIII e XIX secolo. Qualcosa è finito per sempre.

Darò il senso preciso che possiamo dare a queste strane parole: la fine della storia. Questo vuol dire che d'ora in avanti niente di nuovo avverrà. Perlomeno niente di veramente nuovo. Niente che possa arricchire un quadro delle forme di esistenza apparse. Delle guerre e delle rivoluzioni di palazzo non proveranno che la storia continui. [Bataille pag.361]
La scomparsa dell'Uomo alla fine della Storia non è dunque una catastrofe cosmica: il Mondo naturale resta quello che è da tutta l'eternità. E non è nemmeno una catastrofe biologica: l'Uomo resta in vita come animale che è in accordo con la natura o con l'Essere dato. Ciò che scompare è l'Uomo propriamente detto, cioè l'Azione negatrice del dato e l'Errore, o in generale il Soggetto opposto all'Oggetto. Il che praticamente vuol dire la scomparsa delle guerre e delle rivoluzioni cruente. [Kojève pag. 541]

Che la storia continui non lo provano le guerre. Non ci sono più conflitti per il riconoscimento, guerre nel senso hegeliano del termine. Le guerre oggi assomigliano alla pura e semplice eliminazione fisica dell'avversario. I campi di sterminio, le bombe atomiche, le pulizie etniche, la distruzione reciproca non assomigliano alla guerra. Tutto questo è di là del conflitto.

Hegel, Freud e la macchina

Vegetti dedica molte pagine al rapporto di Jacques Lacan con Kojève, in particolare si sofferma sull'enigmatica discussione intitolata Freud, Hegel e la macchina (12 gennaio 1955). È in questo luogo della speculazione lacaniana che cerchiamo l'apice del suo confronto con Kojève, nascosto sotto le mentite spoglie di Hegel. Su tutto il dialogo, occorre anticiparlo, incombe l'ombra minacciosa di un terzo protagonista, la lettera sull'«umanesimo» di Heidegger. Questi sono i termini della discussione che coinvolge Jean Hyppolite.

Dopo le ammissioni eccolo muovere il suo attacco: Hyppolite mi approverà se dico che l'insieme del progresso di questa Fenomenologia dello Spirito è la padronanza [maîtrise] sempre più elaborata?. Il filosofo si schernisce: Non mi prenda come avversario. Non sono hegeliano. Probabilmente sono contro. Non mi prenda come rappresentante di Hegel , ma il rischio non esiste, da tempo Lacan sta dialogando con Kojève, è lui il convitato di pietra, rispetto al quale Hyppolite, nel frangente, non è che un segnaposto. Si riprende dunque dall'Introduction à la lecture de Hegel, cioè dalla fine della storia: La fine della storia - sostiene Lacan - è il sapere assoluto. Non se ne esce - se la coscienza è il sapere, la fine della dialettica della coscienza è il sapere assoluto, è scritto così in Hegel. L'argomentazione decisiva è criptata. Nello spazio di una pagina tocca molti punti nevralgici del concetto di "fine" imperniando l'analisi intorno alla prima nota della dodicesima lezione del corso 1938-1939 di Kojève, il cui oggetto, su cui ritornerà la celebre nota aggiunta alla seconda edizione , consiste nella definizione di una nozione ritenuta spesso esoterica, la scomparsa dell'Uomo alla fine della storia. [Vegetti, 1999, p. 97]

A questo punto interpoliamo il frammento del seminario lacaniano sul cui limite ci ha introdotto il testo di Vegetti.

Nella prospettiva hegeliana, il discorso compiuto - indubbiamente, a partire dal momento in cui il bisogno sarà giunto al suo compimento, non ci sarà più bisogno di parlare: le chiamano le fasi post- rivoluzionarie, ma lasciamo andare - il discorso compiuto, incarnazione del sapere assoluto, è lo strumento del potere, lo scettro e la proprietà di coloro che sanno. Niente implica che tutti vi partecipino. Quando i dotti [savants] di cui ho parlato ieri sera - è più che un mito, è il senso stesso del progresso del simbolo - sono arrivati a chiudere il discorso umano, allora lo possiedono, e a quelli che non lo hanno, i bravi, i gentili, i libidinosi, non rimane che fare jazz, ballare, divertirsi. Io lo chiamo padronanza elaborata. [Lacan, 1991, p 93]
Nel sapere assoluto, resta nell'uomo un'ultima divisione, un'ultima separazione, ontologica, per così dire. Hegel ha superato un certo individualismo religioso che fonda l'esistenza dell'individuo nel suo tête - à - tête unico con Dio mostrando che la realtà, per così dire, di ciascun umano è nell'essere dell'altro. In fin dei conti c'è un'alienazione reciproca, come lei ha perfettamente spiegato ieri sera, e, insisto, irriducibile, senza uscita. Che cosa c'è di più stupido del padrone primitivo ? E' un vero padrone, Abbiamo vissuto abbastanza a lungo per accorgerci dei risultati che dà, quando prende gli uomini l'aspirazione alla padronanza. L'abbiamo visto durante la guerra, l'errore politico di chi ha l'ideologia di credersi padrone, di credere che basti allungare la mano per prendere. I Tedeschi avanzano su Tolone per prendere la flotta. vera storia da padroni. La padronanza è intieramente dal lato del servo, perché lui elabora la padronanza contro il padrone. Ora, questa alienazione reciproca, si, deve durare fino alla fine. Immaginate quanto sarà poca cosa il discorso elaborato da chi si diverte al caffè dell'angolo con il jazz. E a qual punto i padroni vorrebbero andare con loro. E gli altri, al contrario, a considerarsi dei miserabili, delle nullità, e a pensare - com'è fortunato il padrone nel suo godimento di padrone! - mentre invece, beninteso, sarà totalmente frustrato. [Lacan, 1991, p 93]
C'est bien là, je crois, à la dernière limite, que Hegel nous amène.
Hegel est aux limites de l'antropologie. Freud en est sorti. Sa découverte c'est que l'homme n'est pas tout à fait dans l'homme. Freud n'est pas un humaniste. [Lacan, 1978, p 92]

La dissertazione risolutiva si compone di tre passi - scrive Vegetti:

La signoria del sapere e del sapersi, cui il servo perviene attraverso la soglia storica della rivoluzione e accedendo all'agnizione finale, è dunque privilegio di un numero ristretto di uomini, di coloro che abitano il Libro, i Saggi appunto, mentre gli altri, privati della loro umanità per l'impossibilità di negare attivamente il mondo e se stessi mediante l'azione subiranno passivamente l'evento della fine del tempo, l'estinzione della trascendenza ekstatica, risultandone coscienzialmente reificati. Lacan ed è questa la sua seconda mossa, sottolinea tale frattura: Quando i dotti [savants] di cui ho parlato ieri sera - è più che un mito, è il senso stesso del progresso del simbolo - sono arrivati a chiudere il discorso umano, allora lo possiedono, e a quelli che non lo hanno, i bravi, i gentili, i libidinosi, non rimane che fare jazz, ballare, divertirsi. Potrà forse apparire stravagante l'opposizione tra la sapienza e il jazz, ma si tratta in realtà si una citazione criptata di un passo [Kojève, pag. 541 nota 1] in cui Kojève utilizza alcune metafore per indicare il campo teratologico dell'esistenza post-istorica, per di più composta con un velato riferimento ai tratti psicologici e comportamentali che caratterizzano i protagonisti dei romanzi di Queneau, che a loro volta si ispirano al dominio meta-storico a cui si affaccia l'Introduction [Vegetti, 1999, p. 98]

Il terzo passo, quello finale, dell'attacco di Lacan a Kojève è così riassunto da Vegetti:

Ma se l'uomo morto in quanto uomo precipita in un'eterna "domenica della vita", che le metafore ludiche designano solo negativamente, il savant custodisce il senso di questa morte. Ora, tra il nulla d'essere e il sapere di questo nulla si spalanca, per Lacan, lo scisma dell'antropologia hegeliana: Nel sapere assoluto, resta nell'uomo un'ultima divisione, un'ultima separazione, ontologica, per così dire. Tra la signoria del sapere, che Lacan definisce maîtrise élaborée, padronanza e-laborata, e l'essere che ne è l'oggetto, tra il nulla del sapere e il sapere del nulla, si mostra per ultima, la differenza ontologica. Qui Lacan rinviene la piega che trattiene il Saggio alla sua verità, vale a dire all'estraneità metastorica dell'ultimo uomo. La figura adamitica del soggetto assoluto si scompone così in due metà speculari e inconciliabili perché la seconda, inumana, riflette nel saggio la sua immota, irriconoscibile alterità, così che, anche alla fine della storia In fin dei conti c'è alienazione reciproca.... e insisto, irriducibile, senza uscita. [Vegetti, 1999, p. 99]

Lasciamo il discorso in sospeso, come è giusto che sia, e affrontiamo dopo Queneau e Lacan il terzo interlocutore di Kojève: Georges Bataille. Il confronto fra Kojève e Bataille è più complesso e meno lineare; se Queneau e Lacan in un certo senso si ri-specchiano nel Saggio kojèviano, Bataille invece tende a spingere l'interrogazione su un terreno dove Kojève non è disposto a seguirlo.

Hegel, l'uomo e la storia

Qui mi limiterò a segnalare il confronto ingaggiato da Bataille ne Hegel, l'homme et l'histoire con le due note, la prima (1968) a cui si è fatto cenno più volte, la seconda precedente (1946) che riguarda il rapporto del Libro e della morte. In questo breve scritto Bataille trascrive per intero le due note. Considero questo fatto come significativo.

Estetica dell'esistenza

Voglio segnalare ancora un rimando indiretto alla nota del 1968. In una intervista su Le monde Foucault dice:

Con il cristianesimo abbiamo visto instaurarsi lentamente, progressivamente un cambiamento rispetto alle morali antiche, che erano essenzialmente una pratica, uno stile di libertà. Naturalmente, c'erano anche lì norme di comportamento che regolavano la condotta di ciascuno. Ma la volontà di essere un soggetto morale, la ricerca di un'etica dell'esistenza erano principalmente, nell'Antichità, uno sforzo per affermare la propria libertà e per dare alla propria vita una certa forma entro la quale era possibile riconoscersi, essere riconosciuti dagli altri, e dove la stessa posterità poteva trovare un esempio.
Questa elaborazione della propria vita come un'opera d'arte personale, anche se essa obbediva a canoni collettivi, era al centro, mi sembra, dell'esperienza morale, della volontà di morale nell'Antichità, mentre nel cristianesimo, con la religione del testo, l'idea di una volontà di Dio, il principio di una obbedienza, la morale prendeva molto più la forma di un codice di regole (solo alcune pratiche ascetiche erano più legate all'esercizio di una libertà personale).
Dall'Antichità al cristianesimo si passa da una morale che era essenzialmente ricerca di un'etica personale a una morale come obbedienza ad un sistema di regole. E se mi sono interessato all'Antichità, è perché, per una serie di ragioni, l'idea di una morale come obbedienza a un codice di regole sta, ora, scomparendo, è già scomparsa. E a questa assenza di morale risponde, deve rispondere la ricerca di una estetica dell'esistenza.

Ho ripreso questa citazione di Foucault perché si ricollega alla nota di Kojève. Entrambi i testi fanno riferimento a forme di comportamento formalizzato come prospettive per la contemporaneità. Foucault recupera l'estetica dell'esistenza dall'Antichità greco - romana che contrappone all'etica cristiana mentre Kojève individua nello snobismo giapponese una via alternativa alla American way of life. Sullo sfondo di queste concezioni della vita Kojève e Foucault individuano una forma di autenticità dell'esserci al di fuori dalla dialettica hegeliana della Signoria e della Servitù e quindi al di fuori della Storia.

Al centro dello snobismo giapponese c'è la completa formalizzazione del rapporto con l'altro. Non esistono valori; la cerimonia del te, non ha un significato universale è assolutamente intercambiabile con altri infiniti gesti: il giardino zen, l'ikebana, il teatro Nò, il seppuku... ma nel momento in cui uno di questi gesti assume una forma acquista significato per il soggetto nel suo confronto con l'altro "l'inumano" che il soggetto porta dentro di sè.

Nella cultura cristiana, essendo la concezione del rapporto all'altro legata al trascendente, accade invece che la formalizzazione e la costruzione della propria vita secondo uno stile individuale siano considerate forme di manierismo e quindi condannate e gettate nell'inautentico.

Concludo con le stesse parole di Jean- Michel Rey:

La "fin de l'histoire" serait-elle l'établissement d'une maîtrise linguistique et "politique"?

Giuseppe Giovanni Battista Cattaneo
2013

Bibliografia

Jean François Lyotard
- [1981] La condition postmoderne, Paris, Les Edition de Minuit, 1979. [tr. La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981.]
Matteo Vegetti
- [1999] La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, Milano, Jaca Book, 1999
Georges Bataille
- [1988] Hegel, l'homme et l'histoire, Monde nouveau-Paru, n. 96 e 97. 1956 poi in Oeuvres Complètes Paris, Gallimard, 1988. pp. 349-369
- [1988] Hegel, la mort et le sacrifice, Deucalion, n. 5. Neuchatel, 1955 poi in Oeuvres Complètes Paris, Gallimard, 1988. pp. 326-345
Francis Fukuyama
- [1992] The End of History and the Last Man , New York, 1992. [tr. La fine della storia e l'ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992]
Alexandre Kojève
- [] Introduction à la lecture de Hegel, Paris, Gallimard, 1947. 2a ed. 1968. [tr. di Gian Franco Frigo, Intoduzione alla lettura di Hegel, Milano, Adelphi, 1966]
Michel Foucault
- [1984] Intervista di Alessandro Fontana, su Le Monde dei 16 luglio 1984
Raymond Queneau
- [1992] La domenica della vita, in Romanzi , a cura di Giacomo Magrini, Lonrai (Orne), Einaudi/Gallimard, 1992
Jacques Lacan
- [1991] Le moi dans la théorie de Freud et dans la technique de la psychanalyse, Seuil, Paris, 1978 [tr. Seminario II. L'io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi. 1954-1955, Torino, Einaudi, 1991]
Jean-Michel Rey
- [1969] Kojève ou la fin de l'histoire, Critique, mai 1969. Recensione al Tomo I dell'Essai d'une histoire raisonnée de la philosophie païenne di Kojève publicato nel 1968 da Gallimard
Dominique Auffret
- [1990] Aleandre Kojève. La philosophie, l'État, la fin de l'Histoire, Grasset & Fasquelle, 1990
Vincent Descombes
- [1979] Le Même et l'Autre, Critique, 1979
Allan Bloom
- [1980] Kojève, le philosophe, Commentaire, 1980