Sulla comprensione delle parole

Diego Marconi
Il mestiere di pensare
Einaudi, 2014

Fino a che punto si spinge la nostra comprensione delle parole e dei concetti che ad esse sottostanno?

Ho già affrontato l'argomento quando ho cercato di determinare il significato del termine amok avendo come unico riferimento una frase di Georges Bataille.

Qui mi propongo, invece, di estrapolare, da un ragionamento preso a prestito dal libro Il mestiere di pensare di Diego Marconi, una diversa visione dello stesso argomento.

La tesi è la seguente:

l'uso della storia della filosofia nella filosofia teoretica pare analogo all'uso dei precedenti che fa un giudice in un sistema di common law.

Per giustificare questa posizione Marconi ritiene necessario sottoporre a critica la tesi, continentale, secondo la quale:

si sostiene spesso che le argomentazioni dei filosofi del passato non sono mai utilizzabili nella discussione filosofica di oggi, perché esse parlano sempre d'altro: se si guarda al di là di superficiali e ingannevoli continuità terminologiche, si vede che i filosofi del passato avevano in mente "casi" qualitativamente diversi da quelli che preoccupano i filosofi di oggi. L'episteme di Platone è altra cosa dalla science di Cartesio, la Wissenschaft di Kant ha poco a che vedere con quella di Carnap e Popper.

Ovvero, qualora si dimostri l'esistenza di una specificità storica dei concetti diventa impossibile ogni loro utilizzazione nel discorso filosofico corrente e quindi cadrebbe ogni ipotesi di confronto con il passato.

Sostenere questa tesi equivale a sostenere che, in filosofia, tutti i precedenti richiedono un «distinguo». Se cosi fosse, naturalmente, l'analogia che abbiamo provato a costruire non starebbe in piedi: la filosofia non si rapporterebbe affatto alle argomentazioni del passato come un giudice ai precedenti.

Come esempio di compatibilità tra storia della filosofia e filosofia teoretica, Marconi propone il confronto fra il significato della parola tolleranza nelle opere di Locke ed il significato che essa ha per noi.

Mettiamo che il significato del termine «tolleranza» (toleration) usato da Locke venga considerato come determinato dalla totalità delle asserzioni, in cui il termine compare, che erano condivise da Locke stesso e dai suoi principali interlocutori nella discussione su quell'argomento (Tyrrell, Stillingfleet, Limborch, Proast ecc.). E ovvio che questo insieme di enunciati non coincide con l'analogo insieme di enunciati che sta alla base del dibattito di oggi sulla tolleranza (anche senza bisogno di tener conto dei significati delle altre parole coinvolte: magistrate, religion, church, punishment ecc.) In questo senso, dunque, il termine aveva per Locke un significato diverso da quello che ha per noi, e si può dire che Locke parlava "d'altro",

Dopo aver ammesso che, in ogni caso, storicamente, Locke parlava "d'altro", Marconi sottolinea come sia possibile discutere pur parlando d'altro, cioè senza intendersi sul significato da dare alle parole.

ma in questo senso feyerabendiano, se due persone dissentono su un qualunque enunciato contenente un termine P, usano P in due sensi diversi, e non dovrebbero poter discutere insieme. Invece lo fanno (se ne hanno voglia) proprio perché dissentono sul valore di verità di alcuni enunciati contenenti P, a cui attribuiscono grande importanza.

Qui il discorso potrebbe interrompersi. Ma il filosofo analitico non si accontenta di poter discutere, seppure dovendo ammettere di dissentire sul valore di verità di alcuni enunciati, egli vuole stabilire un consenso sugli enunciati, ritenendo che questo sia sempre possibile. È questo che Marconi cerca di dimostrare attraverso il confronto con Locke.

Si può obiettare, naturalmente, che questa è una banalizzazione troppo facile della tesi della "distinzione": fa una differenza su quali enunciati si realizzava il consenso della comunità a cui Locke apparteneva, rispetto alla nostra. Per esempio, per Locke (e per i suoi interlocutori) la tolleranza era una possibile politica dello stato, mentre per noi non riguarda lo stato più degli individui o degli enti intermedi; per Locke la tolleranza concerneva al massimo la religione, e non certamente, ad esempio, le opinioni politiche sovversive, mentre per noi il limite ai comportamenti rispetto ai quali si può parlare di tolleranza è tracciato in modo più ampio; per Locke e per i suoi interlocutori era fuor di dubbio che la tolleranza dovesse comunque escludere i cattolici e gli atei (non cosi per noi); Locke non pensava - diversamente da noi - che la tolleranza dovesse applicarsi, in linea di principio, più alle opinioni che ai comportamenti; e cosi via. E la centralità di queste divergenze - si dice - a far si che Locke parlasse d'altro, e che le sue argomentazioni non siano pertinenti per i nostri dibattiti.

Ma è chiaro che l'obiezione, cosi riformulata, ha cambiato carattere. Si tratta a questo punto di vedere caso per caso se la centralità delle divergenze è tale da rendere intuitivamente plausibile che si parli di cambiamento di significato dei termini in gioco, o comunque di discorsi troppo distanti per essere commensurabili. Non è più il solo fatto che le argomentazioni vengono da un altro contesto, a renderle inutilizzabili: sono i caratteri specifici di quel contesto e di quelle argomentazioni. L'obiezione non è più a priori: l'onere della prova è tutto dalla parte di chi sostiene l'inutilizzabilità.
La discussione, però, non si risolve andando a misurare il grado di centralità di una tesi in un sistema di credenze, perché si è visto che una misura della centralità epistemica, o semantica, è difficile da trovare, ma piuttosto andando a valutare, caso per caso, se un'argomentazione è effettivamente compromessa con le tesi divergenti, e fino a che punto. Per riprendere l'esempio di Locke, è indubbio che alcune delle sue argomentazioni a favore della tolleranza sono estranee al dibattito di oggi. C'è, per esempio, un'argomentazione di orientamento calvinistico secondo cui la repressione in materia di religione è futile, perché in ogni caso chi è destinato alla dannazione si dannerà, mentre chi è salvato troverà comunque la via della salvezza; quest'argomentazione è basata su presupposti teologici molto specifici, che avevano largo corso nell'Inghilterra di Locke, ma non oggi. E c'è un argomento umanistico (di origine erasmiana) secondo cui la tolleranza, cioè l'astensione dalla violenza in materia religiosa, è dovere del cristiano e dell'autorità cristiana perché discende direttamente dal dovere della carità"; quest'argomento, cosi com'è, è applicabile solo ad hominem (cioè nei confronti dei cristiani) e comunque nell'ambito della discussione sulla libertà religiosa. Mi sembra peraltro che possa avere un'efficacia generale (anzi, a mio giudizio resta il tipo di argomento pié efficace a favore della tolleranza), in quanto fa della tolleranza un contenuto etico specifico e materiale, anziché un valore formale o una condizione di sfondo della moralità, e attira l'attenzione sulla connessione di questo contenuto — il valore della non violenza nel dissenso - con altri contenuti largamente condivisi, come la benevolenza nei confronti degli altri. Ma certo più direttamente applicabile (e di fatto applicato molto spesso) è l'argomento scettico di Locke a favore della tolleranza: poiché vi sono materie opinabili in cui non possiamo essere sicuri di possedere la verità, non siamo autorizzati a imporre le nostre opinioni sulla di una mera presunzione. Qui non vedo bene come il fatto che Locke avesse in mente le imposizioni dell'autorità politica, e restringesse il discorso alla religione, costituisca di per sé motivo di "distinzione". Si deve anche notare che l'argomento è indipendente dalle convinzioni di Locke sull'estensione della tolleranza (per cui dovevano esserne esclusi i cattolici e gli atei).
Non si vuol dire, naturalmente, che l'argomento scettico di Locke sia inoppugnabile: il punto non è questo, ma è la pertinenza dell'argomento di Locke rispetto al dibattito contemporaneo, e questa pare difficile da negare; in ogni caso, non sulla base della sua dipendenza dal "contesto storico". Quale dipendenza? Abbiamo visto che le considerazioni di principio, di carattere semantico, non portano molto lontano; e assunzioni cruciali, proprie del contesto storico, non più condivise e invece presupposte da Locke, non se ne vedono.

Qual'è la pertinenza dell'argomento di Locke rispetto al dibattito contemporaneo, non sulla base della sua dipendenza dal "contesto storico"? Questo è l'argomento posto da Marconi, nella sua formulazione finale. La risposta del filosofo analitico è affermativa: l'argomento scettico di Locke è pertinente alla nostra discussione sulla tolleranza.

Perché, allora, la convinzione dell'inutilizzabilità degli argomenti dei filosofi del passato è cosi diffusa, tanto che anche un filosofo come Rorty, tutt'altro che alieno dall'uso teorico della storia della filosofia, si sente in dovere di distinguere tra ricostruzione storica e ricostruzione razionale? Come per assegnare un pascolo sicuro agli storici "puri", e nello stesso ternpo scusare chi fa un uso teorico della storia della filosofia: quelle che vengono utilizzate non sono le vere argomentazioni di Aristotele, Spinoza, Kant, ma, appunto, certe loro "ricostruzioni razionali". La ragione deve probabilmente essere cercata in un pregiudizio filosofico derivante da una qualche forma di storicismo organicistico: sembra prevalere la concezione per cui un pensiero appartiene a un'epoca, che, per così dire lo colora tutto della sua irriducibile specificità.

In nota a quanto sopra aggiungo questa citazione da la La quête de l'identité di Alain de Libera

On notera au passage que l'auteur d'Individuals [Strawson] a moins de scrupule historique avec Descartes qu'avec les deux philosophes viennois [Wittgenstein e Schlick]. Cela tient évidemment à la désinvolture historiographique dont fait preuve une large partie de la «tradition précise» à laquelle il appartient (désinvolture un temps corrigée par son prédécesscur comme Waynflete Professor of Metaphysics à l'université d'Oxford: R.G. Collingwood), et qu'il pousse à des sommets dans le chapitre 4 de son œuvre maitresse lorsque, évoquant le «système leibnizien des monades» (117; 131), il précise qu'il utilisera le nom 'Leibniz' «pour se référer à un philosophe possible». Cette désinvolture n'est cependant pas totale, puisqu'il oppose ici ou là son «Leibniz possible» au «Leibniz historique» (121; 135) et que sa présentation du «point de vue cartésien» est, somme toute, exacte, même si elle n'est étayée par aucune référence y compris pour la mention de l'exemple du pilote et du navire censé argumenter l'universalité de la thèse du «rôle unique joué par le corps de chaque personne dans son expérience» (90; 100 : «Descartes était parfaitement conscient de ce rôle unique : "Je ne suis pas logé dans mon corps ainsi qu'un pilote dans son navire" »)

Ne segue che solo l'impossibilità di comprendere le parole in modo univoco ci consente di pensare in modo creativo.

MP

Bibliografia

Diego Marconi
- Il mestiere di pensare, Einaudi, Torino, 2014