La storia la scrivono i vincitori

Aldo Giannuli
L'abuso pubblico della storia
Ugo Guanda, Parma, 2009

Libro interessante, ma disomogeneo, come disomogenea è la materia di cui intende trattare: la storiografia del novecento e le sue vicissitudini.

«Uso pubblico della storia» è una espressione coniata nel 1986 da Jürgen Habermas, durante un dibattito fra i maggiori storici tedeschi del periodo sul tema delle responsabilità tedesche nell'Olocausto (lo Historikerstreit cui parteciparono fra gli altri Ernst Nolte, Klaus Hildebrand, Joachim Fest, Hans Mommsen oltre che Habermas). [1]

Habermas introduceva questa distinzione fra il lavoro scientifico dello storico e il dibattito pubblico sui mezzi di comunicazione di massa, ovviamente avvalorando il primo rispetto al secondo. Ma, come si vede, il giudizio appariva abbastanza sfumato e, se pur forzato (in fondo, neanche nel lavoro scientifico la finalizzazione politica è assente), non conteneva quella valutazione così negativa del fenomeno che il dibattito successivo finirà per attribuirgli, formando un pregiudizio incondizionatamente sfavorevole verso la divulgazione storica connessa al dibattito politico.

Questa valutazione sfavorevole suscitò diverse perplessità fra gli storici italiani che, già in un incontro svoltosi a Pisa il 29 gennaio 1993, avanzarono diverse critiche. In particolare Nicola Gallerano sostenne che l'uso pubblico della storia non era una pratica da rifiutare pregiudizialmente non esistendo nessuna opposizione di principio fra esso e l'attività scientifica. Conseguentemente, propose di distinguere fra «uso pubblico della storia» riguardante la trattazione storica da parte di giornali e TV, arte, letteratura, scuola, musei, toponomastica, monumentalistica ecc., e «uso politico della storia» che coincide con la ricostruzione polemica di eventi a partire dalla memoria di un gruppo. Da queste considerazioni sorse, qualche tempo dopo, l'espressione «abuso pubblico della storia» inteso come ricorso surrettizio a essa da parte di esponenti politici e a fini di consenso.

La rivoluzione neoliberista

Citerò solo una delle innumerevoli tracce presenti nel libro, quella che riguarda gli anni più vicini a noi e che ci conduce alla rivoluzione neoliberista. Lo schema degli eventi che hanno segnato questa rivoluzione è riassunto efficacemente da Giannuli e merita di essere riportato per intero.

il welfare state fu la risposta specifica delle democrazie capitalistiche, tanto alla spinta rivoluzionaria della classe operaia quanto alla deriva fascista delle classi medie. La formula specifica del welfare, rispetto agli altri modelli di stato sociale, prevedeva:

  • la creazione di una robusta fascia di ceti medi, tanto attraverso lo sviluppo dei servizi e della burocrazia, quanto attraverso la parziale assimilazione di una parte dei ceti inferiori (sopratutto tecnici e fasce superiori di classe operaia) in un blocco lavorista;
  • una pur contenuta mobilità sociale verso l'alto, attraverso l'allargamento delle funzioni dirigenti ai vari livelli e l'espansione delle professioni, accompagnata da un sistema di crescente scolarizzazione di massa;
  • l'integrazione di questo « ceto medio allargato» nei meccanismi del sistema politico — di cui diventava la principale base di massa — attraverso la combinazione dello scambio neocorporatista con il meccanismo elettorale (per il quale la questione decisiva di ogni elezione era appunto la divisione delle quote di plus prodotto sociale fra i diversi attori, attraverso le politiche redistributive dello Stato);
  • salari crescenti per tutti i livelli dei lavoratori, utili tanto ad allargare la base di consenso al sistema, quanto ad allargare il mercato interno;
  • la funzione anticiclica dell'intervento statale — secondo le teorie keynesiane —, come elemento di stabilità economica.

Questo è stato il « grande compromesso socialdemocratico » sui cui si sono retti i sistemi politici dell'Europa occidentale e degli Usa per circa mezzo secolo. Esso creava un meccanismo di «aspettative crescenti» che, d'altra parte, comportava un parallelo aumento della pressione fiscale, nonostante la quale si produceva un costante disavanzo statale, colmato dall'emissione crescente di titoli di debito pubblico e da politiche inflazionistiche.

A partire dai tardi anni Sessanta iniziò a profilarsi con nettezza la crisi di questo modello, ormai esteso anche all'Europa continentale e al Giappone, dopo la caduta dei rispettivi regimi fascisti. Lo scambio neocorporatista e la competizione elettorale aveva spinto a politiche sociali allargate sempre più dispendiose, ma soprattutto si era prodotta una crescita massiccia degli apparati burocratici sia in sede amministrativa che politica e sindacale.

Con la pesante ricaduta economica della guerra in Vietnam il meccanismo divenne palesemente disfunzionale e la decisione di Nixon di dichiarare la non convertibilità del dollaro in oro (15 agosto 1971) ne scaricò i costi sull'Europa. Due anni più tardi lo shock petrolifero, causato dalla guerra del Kippur, pose definitivamente le premesse politiche della svolta neoliberista, mentre quelle premesse teoriche erano state poste da qualche anno dalle scuole economiche di Friedrich von Hayek e di Milton Friedman.[..]

Le vittorie elettorali di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, combinandosi con la caduta del mondo sovietico, hanno innescato la « rivoluzione » neoliberista.

A distanza di quasi un quarto di secolo, constatiamo che il principale esito, nei paesi dell'Europa occidentale e del Nord America, è stato quello di un gigantesco spostamento di ricchezze dalla remunerazione del lavoro alla remunerazione del capitale: dovunque i salari reali sono calati, si sono avviate forme di precarizzazione di massa, lo stato sociale ha cessato ogni funzione redistributiva, mentre emerge una classe dirigente ristrettissima e globalizzata: la superclass, come la definisce David Rothkopf. 40

La pressione fiscale è complessivamente diminuita, ma in misura decisamente inferiore al taglio delle prestazioni del welfare state. Il differenziale è andato a coprire le crescenti spese militari e a operazioni di salvataggio in occasione dei grandi crac finanziari, secondo il consolidato modello del «liberismo zoppo» che privatizza i profitti e socializza le perdite.

Questa pressione si è scaricata sulle fasce medio-basse e, più in particolare, ha provocato lo sgretolamento di quel «ceto medio allargato» che era stato insieme il prodotto e il pilastro del compromesso socialdemocratico, reso ormai obsoleto dalle politiche monetariste e dalla delocalizzazione industriale nei paesi in via di sviluppo.

Tale evoluzione, ovviamente, ha comportato ardui problemi di consenso al sistema, che mantiene le forme della democrazia liberale, ma senza più i margini redistributivi e di mobilità sociale del passato. Si sono rese necessarie tanto operazioni politiche di disarticolazione del «blocco lavorista», quanto sofisticate operazioni ideologiche che riformulassero le basi della legittimazione.

All'area del lavoro dipendente è stata contrapposta, da un lato, una crescente area di precariato, dall'altro, quella del lavoro autonomo. Le garanzie acquisite dai lavoratori dipendenti negli scorsi decenni sono spesso vissute dai precari — giovani, immigrati e lavoratori a bassa qualificazione — come privilegi il cui costo ricade, appunto, su chi, come loro, non godrà mai del contratto a tempo indeterminato e forse non maturerà mai alcuna pensione. Sull'altro versante, i «privilegi» dei dipendenti sono stati presentati ai lavoratori autonomi come la principale ragione della costante pressione fiscale su di loro e, viceversa, ai primi gli altri sono stati additati come evasori recidivi su cui ricade la responsabilità dei tagli alla spesa sociale. Mentre l'inimicizia, fra area del precariato e le altre due, è meticolosamente coltivata da ricorrenti campagne securitarie tese a presentare immigrati e giovani come classi socialmente pericolose e agenti di disgregazione sociale.

Fare i conti con la fine della modernità

Fare i conti con il Novecento implica prima di tutto misurarsi con il bilancio della modernità, ma siamo sicuri di sapere, in sede storiografica, cosa sia la modernità? Sin qui gli storici hanno lasciato volentieri ai sociologi, antropologi e politologi il compito di studiare la modernizzazione e, in maggioranza, se ne sono tenuti abbastanza lontani. Oggi, però, dobbiamo capire perché la modernizzazione non è stata l'applicazione di uno stesso modello per cui i paesi arretrati riproducevano, con poche varianti, ciò che era accaduto nei paesi che li avevano preceduti su quella strada. E questo impone un approccio comparatistico sin qui non frequentatissimo dagli storici, in particolare italiani.

Questo esame diventa tanto più rilevante se ci si pone il problema di studiare il trentennio finale, quello della rivoluzione neoliberista. Vero è che per una storia di questo trentennio ancora non abbiamo a disposizione la maggior parte dei documenti e che si tratta di qualcosa che è ancora in atto, per cui un esame generale di essa non è ancora maturo. Però, se è vero che ogni generazione ha diritto a essere la prima a scrivere la sua storia (pur se con le peculiari imperfezioni che questo comporta), considerando che siamo di fronte a un fenomeno ormai trentennale, non appare fuori luogo iniziare a porsi il problema.

Ma analizzare pur solo le radici della rivoluzione neoliberista impone di misurarsi con un groviglio di problemi straordinariamente complesso.

Sin qui gli storici — salvo poche lodevolissime eccezioni - hanno girato intorno al problema della complessità, senza affrontarlo di petto.

Ma l'esame dei diversi esiti della modernizzazione e una loro plausibile spiegazione non è possibile applicando i modelli esplicativi precedenti alla Seconda guerra mondiale. Come ben si sa, le reazioni di un organismo complesso a un determinato stimolo, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono descrivibili, matematicamente, con equazioni lineari. E le probabilità di una reazione di tipo lineare scendono quanto più è complesso il sistema che reagisce. Inoltre, è difficile prevedere entro quali tempi si manifesterà la reazione.

Solo un commento. Se è vero che la storia la scrivono i vincitori appare più difficile stabilire chi siano i vincitori

MP

Bibliografia

Aldo Giannuli
- L'abuso pubblico della storia. Come e perché il potere politico falsifica il passato, Ugo Guanda, Parma, 2009