Il gioco del «salvare il possibile»

La razionalità individuale al servizio
della distruzione collettiva

Zygmunt Bauman
Modernità e Olocausto
il Mulino, Bologna, 1992

Hypomnemata

Cercherò di enucleare - per il momento in forma di semplice appunto - nel discorso di Bauman sull'Olocausto uno schema di ragionamento che, nella sua forma generale, mi sembra di un qualche interesse.

L'impressionante giudizio di Hannah Arendt — secondo il quale, se non fosse stato per l'opera dei collaboratori ebrei e per lo zelo degli Judenräte (i consigli ebraici), il numero delle vittime sarebbe stato considerevolmente minore — sembrerebbe essere smentito da un esame più attento. Il crudo verdetto della Arendt può difficilmente reggere di fronte al fatto che, nonostante l'ampia gamma di atteggiamenti assunti dai leader delle comunità perseguitate — dal suicidio di Cherniakov all'attiva e consapevole cooperazione con i nazisti da parte di Rumkowski e Gens, fino al caso di Bialystok, che vide l'appoggio semiufficiale dello Judenrat alla resistenza armata —— l'esito finale fu in buona misura lo stesso: lo sterminio pressoché totale delle comunità e dei loro leader. [..] Nello spettro di opinioni sul ruolo della cooperazione ebraica nella strage degli ebrei europei il punto di vista espresso da Isaiah Trunk a conclusione della più accurata' e comprensiva analisi mai condotta sui documenti relativi agli Judenräte occupa il polo opposto a quello della Arendt. Secondo tale punto di vista, «la partecipazione o la non partecipazione ebraica alle deportazioni non ebbe nessuna sostanziale influenza — in un senso o nell'altro — sull'esito finale dell'Olocausto in Europa orientale».

Appare comunque probabile che, se la cooperazione non vi fosse stata, o almeno non su scala così ampia, le complesse operazioni dell'omicidio di massa avrebbero posto agli amministratori tedeschi problemi gestionali, tecnici e finanziari di ben altre dimensioni. Come si è accennato nel primo capitolo, i leader delle comunità condannate eseguirono gran parte del lavoro burocratico preliminare che l'impresa richiedeva (fornendo ai nazisti i dati necessari e curando la documentazione relativa alle potenziali vittime), diressero le attività produttive e distributive indispensabili per tenere in vita le vittime finché non furono pronte le camere a gas destinate a riceverle, svolsero le attività di polizia riguardanti la popolazione segregata così che il mantenimento dell'ordine e della legge non gravò sulle risorse dei persecutori, assicurarono il regolare svolgimento del processo di sterminio designando le vittime delle sue progressive fasi, si incaricarono di trasportare le vittime designate in luoghi da cui potessero essere prelevate con il minimo sforzo, e misero a disposizione le risorse finanziarie per pagare il loro ultimo viaggio. Senza queste diverse e sostanziali forme di aiuto, probabilmente l'Olocausto avrebbe avuto luogo ugualmente, ma sarebbe passato alla storia come un episodio diverso e forse meno spaventoso: semplicemente come un altro dei molti casi di coercizione e violenza di massa esercitate su una popolazione disarmata da conquistatori assetati di sangue e guidati dal desiderio di vendetta o dall'odio collettivo. Con tutte queste forme di aiuto, d'altra parte, l'Olocausto rappresenta per gli storici e i sociologi un problema completamente nuovo.

Tra le risorse della resistenza che devono essere distrutte affinché la violenza sia efficace (risorse la cui distruzione, presumibilmente, è lo scopo principale del genocidio e la misura ultima della sua efficacia), il posto centrale è occupato dalle élite riconosciute della comunità condannata. L'effetto più radicale del genocidio è quello di «decapitare» il nemico. Si spera che il gruppo designato, una volta privato della propria leadership e dei propri centri di autorità, smarrisca la coesione e la capacità di proteggere la propria identità, e di conseguenza il proprio potenziale difensivo. A quel punto la struttura interna del gruppo subirà un collasso, disperdendo il gruppo stesso in una moltitudine di individui che potranno essere affrontati uno ad uno e incorporati nella nuova struttura controllata dai vincitori, o forzatamente riaggregati in una categoria sottomessa e segregata, dominata e sorvegliata direttamente dagli amministratori del nuovo ordine. Le élite riconosciute della comunità condannata rappresentano pertanto il primo obiettivo del genocidio, nella misura in cui quello finale è effettivamente costituito dalla distruzione della popolazione designata in quanto comunità, entità autonoma dotata di coesione. Secondo la visione hitleriana dell'Europa orientale come vasto Lebensraum destinato ad ospitare la razza tedesca, e dei suoi abitanti come futuri schiavi al servizio dei nuovi dominatori, le forze d'occupazione tedesche si incaricarono di sopprimere sistematicamente tutto ciò che restava della struttura politica e dell'autonomia culturale locale. Esse ricercarono, imprigionarono e tentarono di eliminare fisicamente tutti gli elementi attivi delle nazioni slave conquistate, e di impedire la riproduzione delle élite nazionali lasciando in vita soltanto le più elementari strutture educative e vietando tutte le iniziative culturali che non mirassero alla corruzione dell'identità locale.

L'asservimento degli ebrei non fu mai uno scopo dei nazisti. Se anche l'omicidio di massa non venne preso in considerazione fin dall'inizio come obiettivo finale, ciò che i nazisti desideravano creare era una situazione di totale Entfernung: una definitiva rimozione degli ebrei dallo spazio vitale della razza tedesca. Hitler e i suoi seguaci erano del tutto indifferenti ai servigi che gli ebrei potevano offrire, perfino nel ruolo di schiavi.

Il gioco a cui gli ebrei furono costretti dai nazisti aveva come posta la sopravvivenza o la morte; la razionalità del loro comportamento, dunque, poteva mirare soltanto — e su questa base essere misurata — ad accrescere le probabilità di sfuggire allo sterminio o di limitarne le dimensioni. L'intero mondo dei valori era ridotto ad una sola preoccupazione (o quantomeno era offuscato da essa): restare vivi. Oggi questo risulta chiaro, ma non necessariamente lo era altrettanto in quel momento agli occhi delle vittime, e certamente non nelle fasi iniziali del «tortuoso percorso verso Auschwitz».

In tutte le fasi dell'Olocausto, pertanto, le vittime erano poste di fronte ad una scelta (almeno soggettivamente, poiché oggettivamente la scelta non esisteva più, essendo stata cancellata dalla decisone segreta della distruzione fisica). Esse non potevano scegliere tra situazioni favorevoli o sfavorevoli, ma erano almeno in grado di esercitare l'opzione tra un male maggiore e uno minore. E, quel che più importa, potevano scansare alcuni colpi invocando e rivendicando il proprio diritto a un'esenzione o a un trattamento speciale. In altre parole, esse avevano qualcosa da salvare. Per rendere il comportamento delle loro vittime prevedibile, e perciò manipolabile e controllabile, i nazisti dovevano indurle ad agire in modo «razionale»; per ottenere questo risultato dovevano far loro credere che c'era davvero qualcosa da salvare, e che per riuscirci esistevano regole ben chiare da seguire. Affinché si convincessero di ciò, le vittime dovevano essere portate a pensare che il trattamento del gruppo nel suo complesso non sarebbe stato uniforme, che la sorte dei singoli membri sarebbe stata diversa e dipendente in ciascun caso dal merito individuale. Le vittime dovevano credere, in altre parole, che la loro condotta aveva importanza e che la loro situazione poteva essere, almeno in parte, influenzata da ciò che avrebbero fatto.
La semplice esistenza di diverse categorie, burocraticamente definite, di diritti e privazioni variabili, suscitava sforzi affannosi per ottenere una «riclassificazione», per provare che si «meritava» di essere assegnati a una categoria migliore.

L'aspetto diabolico di questa situazione era dato dal fatto che le credenze e le convinzioni da essa autorizzate, e le azioni da essa incoraggiate, offrivano legittimazione al grande progetto nazista e lo rendevano accettabile ai più, ivi comprese le vittime. Lottando per piccoli privilegi, per qualche esenzione o semplicemente per la sospensione della condanna che il disegno complessivo di distruzione prevedeva, le vittime e coloro che cercavano di aiutarle accettavano tacitamente i presupposti di quel disegno. Sostenendo, ad esempio, che questa o quella persona aveva diritto ad essere esentata dal divieto di esercitare una certa professione in virtù dei suoi passati meriti, si ammetteva in pratica che, in assenza di tali meriti speciali, quel divieto era incontestabile.

I tedeschi registrarono un notevole successo nella deportazione graduale degli ebrei, poiché coloro che ne erano momentaneamente esclusi pensavano che fosse necessario sacrificare alcuni per la salvezza di molti.

Avendo il pieno controllo dei mezzi di coercizione, i nazisti fecero in modo che la razionalità comportasse la cooperazione, che qualsiasi cosa gli ebrei facessero nel proprio interesse rendesse un po' più vicino il raggiungimento dell'obiettivo nazista.

Il fondamentale studio di Isaiah Trunk sugli Judenräte non lascia dubbi circa l'affannosa e disperata lotta dei consigli ebraici per trovare una soluzione razionale a problemi sempre più complessi e drammatici. Non fu colpa loro se di fronte al potere schiacciante dei tedeschi e alla totale eliminazione di ogni inibizione morale della macchina burocratica impegnata nella guerra antiebraica non esisteva, nella gamma delle opzioni possibili, una soluzione che non fosse funzionale agli obiettivi nazisti. La macchina burocratica tedesca era al servizio di uno scopo incomprensibile nella sua irrazionalità. [..] La guerra, in altri termini, era persa per gli ebrei ancora prima di cominciare. Ciò nonostante, in ciascuna delle sue fasi c'erano decisioni da prendere, iniziative da assumere, scopi da perseguire razionalmente. Ogni giorno si presentava un'occasione, e un'esigenza, di condotta razionale. Proprio perché l'obiettivo finale dell'Olocausto sfuggiva a qualsiasi calcolo razionale, il suo successo poteva essere costruito in base alle azioni razionali delle sue future vittime.

Accettare lo scontro e quindi la possibilità di morire quando si è ancora in forze e quindi ancora in grado di combattere è più difficile che accettare la morte quando si è ormai privi di forze. Ciò indica che lo scontro è per la maggior parte degli uomini l'ultima opportunità, alla quale la razionalità impone di anteporre tutte le altre compresa quella di non avere più l'occasione di combattere.

Offrire a colui che si vuole combattere l'opportunità di rinunciare - rinviare lo scontro, a costo di qualche rinuncia, è stata una tattica sempre adottata dai nazisti, ben sapendo che il combattimento sarebbe solo rinviato.

MP

Bibliografia

Zygmunt Bauman
- Modernità e Olocausto, tr. Massimo Baldini, il Mulino, Bologna, 1992
- Modernity and the Holocaust, Basil Blackwell, Oxford, 1989
H. Arendt
- Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, Viking Press, New York, 1964
- La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 1964
Isaiah Trunk
- Judenrat: The Jewish Councils in Eastern Europe under German Occupation, Macmillan, London, 1972
- Jewish Responses to Nazi Persecution: Collective and Individual Behavior in "Extremis", Stein & Day, New York, 1979