Il "che cosa è" e il "che è"

Martin Heidegger
La metafisica come storia dell'essere

1.01Heidegger ne La metafisica come storia dell'essere si sofferma sulla distinzione operata, all'inizio del pensare metafisico, fra il "che cosa è" e il "che è".

Fin dall'antichità la metafisica distingue tra il che cosa un ente è e il fatto che questo ente è oppure no. Nel linguaggio scolastico della metafisica questa distinzione è nota come distinzione tra essentia ed existentia. La essentia vuol dire quidditas [..] La essentia nomina ciò che può essere [..] la possibilità. [864]
L'essere è distinto nel che cosa è e nel che è. Con questa distinzione [..] inizia la storia dell'essere come metafisica. [..] L'inizio della metafisica si rivela così come un evento che consiste in una decisione sull'essere nel senso dell'emergere della distinzione tra che cosa è e che è.
Nell'essentia [nel che cosa] è ora dato un sostegno alla determinazione che demarca l'existentia [il che è]. La realtà [il che è] è distinta dalla possibilità [il che cosa è] Si potrebbe tentare di concepire la distinzione dell'essere in che cosa è (Was-sein) e che è (Daß-sein) domandando dell'elemento comune che ancora determina i distinti. Che cosa, ancora, si annuncia come è (-sein) se al tempo stesso si prescinde rispettivamente da che cosa e dal che? Se però questa ricerca conduce nel vuoto [..]? [..] rimarrebbe pur sempre la domanda sull'origine della distinzione. Viene dall'essere stesso? Che cosa è l'essere? [..] Oppure questa distinzione viene attribuita all'essere del pensiero? [865]

1.02Che cosa è l'è dell'è? Appartiene alla cosa o al pensiero? Su questa ambiguità a cui non può essere data una risposta se non attraverso una scelta, priva di fondamento, si fonda la metafisica.

Se le domande elencate vengono pensate anche solo in termini sommari, svanisce la parvenza di ovvietà in cui sta, per tutta la metafisica, la distinzione di essentia ed existentia. La distinzione rimane senza fondamento [..] Posto però che la metafisica dia ragione della sua essenza con questa differenza tra che cosa è e che è [..] e su essa la fondi, essa [la metafisica] non potrà mai ottenere da sola un sapere di questa differenza. [865]

1.03 La metafisica non potrà mai ottenere da sola un sapere su questa differenza. La dimenticanza, in quanto ente non domandato è la risposta che Heidegger indica, al metafisico, come soluzione a questa impossibilità.

La provenienza della distinzione di essentia ed existentia e ancor più la provenienza dell'essere così distinto rimangono latenti, in greco: dimenticate.
La dimenticanza dell'essere vuol dire allora: il celarsi della provenienza dell'essere, distinto in che cosa è e che è, in favore dell'essere che apre la radura dell'ente in quanto ente e rimane non domandato in quanto essere. [866]

Soggettità e soggettività

Nel suo inizio pieno, in modo conforme alla storia dell'essere, la metafisica moderna porta l'essenza dell'essere come realtà effettiva in una essenziale pluralità, che d'ora in poi non parla più in modo unitario e perciò viene sempre deformata in qualche riguardo da titoli posteriori. Ma proprio per questo il primo tentativo di rinviare entro la storia dell'essere può forse ricorrere all'ausilio di tali titoli, anche se questo procedimento serve solo al compito immediato di preparare in generale al fatto che il ricordo che entra nel cuore di questa storia, per noi temporalmente prossima, deve venire incontro alla pluralità in sé conchiusa dell'essenza dell'essere.

Chiamiamo il titolo che serve a tale intento soggettità (Subiectität). La denominazione altrimenti usuale di soggettività (Subjektivität) aggrava subito e in modo troppo pervicace il pensiero con opinioni erronee che spacciano ogni relazione dell'essere all'uomo, e magari alla sua egoità, come una distruzione dell'essere oggettivo, quasi che l'oggettività non dovesse rimanere prigioniera, con tutti i tratti essenziali, nella soggettività.

La denominazione « soggettità » intende sottolineare che l'essere è determinato, sì, partendo da un subiectum, ma non necessariamente per mezzo di un io. Per di più, al tempo stesso il titolo contiene un rimando all'ὑποκείμενον e quindi all'inizio della metafisica, ma anche il preannunzio del procedere della metafisica moderna, la quale, in effetti, reclama 1'« egoità» («Ichheit») e soprattutto l'ipseità (Selbstheit) dello spirito come tratto essenziale della vera realtà.

Se per soggettività si intende questo, cioè che l'essenza della realtà in verità ossia per l'autocertezza dell'autocoscienza — è mens sive animus, ratio, Vernunft (ragione), Geist (spirito), allora la «soggettività» appare come un modo della soggettità. Quest'ultima non caratterizza necessariamente l'essere a partire dalla actualitas dell'appetizione che rappresenta, giacché soggettità significa anche: l'ente è subiectum nel senso dell'ens actu, sia questo l'actus purus o il mundus in quanto ens creatum. Soggettità vuol dire infine: l'ente è subiectum nel senso dell'ὑποκείμενον che, in quanto πρώτη οὐσία, ha la sua distinzione nell'essere presente del rispettivo.

Attraverso la sua storia come metafisica, l'essere è in modo ininterrotto soggettità. Dove però la soggettità diventa soggettività, il subiectum eminente da Descartes in poi, cioè l'ego, ha una preminenza in senso plurimo. L'ego è anzitutto l'ente più vero, quello più accessibile nella sua certezza. Ma poi, e di conseguenza, è quell'ente nel quale, in quanto pensiamo, noi pensiamo in generale l'essere e la sostanza, il semplice e il composto (Monadologia, par. 30; Gerhardt, vol. VI, p. 612). Infine lo spirito, la mens, ha una preminenza nella gerarchia degli enti che sono monadi. Et Mentium maxima habetur ratio, quia per ipsas quam maxima varietas in quam minimo spatio obtinetur (Le ventiquattro tesi, n. 21). Nelle mentes sono possibili un rappresentare e un appetire eminenti e quindi l'effettuare una presenza eminente. Et dici potest Mentes esse primarias Mundi unitates (n. 22).

Ma per la storia moderna della metafisica la denominazione «soggettività» esprime la piena essenza dell'essere solo se si pensa non tanto, e nemmeno in misura prevalente, al carattere di rappresentazione dell'essere, ma se sono diventati manifesti l'appetitus e i suoi sviluppi come tratto fondamentale dell'essere. Dal pieno inizio della metafisica moderna in poi l'essere è volontà, cioè exigentia essentiae. La volontà cela in sé una essenza molteplice. E la volontà della ragione oppure la volontà dello spirito, la volontà dell'amore oppure la volontà di potenza.

Poiché la volontà e quindi anche il rappresentare in essa essenzialmente presente sono noti come facoltà e attività umane, sorge la parvenza di una generale antropomorfizzazione dell'essere. Quanto più la metafisica moderna e quindi la metafisica in generale si avvicinano al loro compimento, tanto più l'antropomorfismo viene addirittura richiesto e assunto, sebbene tale posizione di fondo venga fondata in modo rispettivamente diverso da Schelling e Nietzsche.

La denominazione « soggettità » nomina la storia unitaria dell'essere, dall'impronta essenziale dell'essere come ἰδέα fino al compimento dell'essenza moderna dell'essere come volontà di potenza. La pluralità dell'essenza moderna si delinea già nel pieno inizio della metafisica moderna:

L'essere è la realtà effettiva nel senso della rappresentatezza indubitabile.

L'essere è la realtà effettiva nel senso dell'appetizione che rappresenta, la quale in base alla semplice unità fa avvenire unendo (ereinigt) rispettivamente un ente che è un mondo.

L'essere è, in quanto tale evento-unione (Ereinigung), la actualitas.

L'essere ha tuttavia, in quanto è la realtà effettiva che è così efficiente (che ha voglia), il tratto fondamentale della volontà.

L'essere, in quanto è tale volere, è la stabilizzazione della stabilità che, nondimeno, rimane un divenire.

L'essere, in quanto ogni volere è un voler-si, è contraddistinto dall'«andando-a-sé» («Auf-sich-zu»), la cui essenza autentica viene raggiunta nella ragione in quanto ipseità (Selbstheit).

L'essere è volontà di volontà.

Tutti questi tratti dell'essere che appartengono alla soggettità come soggettività dispiegano una essenza unitaria che, secondo il proprio carattere esigenziale, dispiega se stessa e perciò l'insieme dell'ente nella sua unità propria, cioè nell'orditura (Fügung) del suo ordito essenziale (Wesensgefüge). Non appena l'essere ha raggiunto l'essenza della volontà, è in se stesso sistematico ed è un sistema.

Dapprima il sistema, in quanto unità d'ordine di un sapere, appare soltanto come l'immagine che guida l'esposizione di tutto lo scibile nella sua struttura. Poiché però l'essere stesso in quanto realtà effettiva è volontà, e la volontà è l'unire che appetisce se stesso dell'unità dell'universo, il sistema non è un sistema d'ordine che un pensatore abbia in testa ed esponga di volta in volta in modo solo imperfetto e sempre in qualche misura unilaterale. Il sistema, la σύστασις, è la struttura essenziale della realtà del reale — certo solo quando la realtà ha raggiunto la sua essenza come volontà. Ciò accade quando la verità è diventata certezza, la quale evoca, dall'essenza dell'essere, il tratto fondamentale dell'assicurazione completa della struttura in un fondamento che assicura se stesso.

Poiché nel Medioevo la veritas non fonda ancora la sua essenza sulla certitudo del cogitare, l'essere non può mai nemmeno essere sistematico. Quello che viene chiamato un sistema medioevale rimane sempre e soltanto una summa in quanto esposizione dell'insieme della doctrina. Ancora più inadeguata è però l'idea di un sistema della filosofia di Platone e Aristotele. Solo l'essenza sistematica della soggettività porta il tratto dell'incondizionatezza del porre (Stellen) e del posare (Setzen), dove l'essenza del condizionamento (Bedingnis) appare come una nuova variante della causalitas dell'enticità, cosicché la realtà effettiva è l'autentica realtà solo se, prima di tutto, essa ha già sempre determinato tutto il reale in base alla sistematica dell'incondizionato che condiziona.

Heidegger non ama la verità

Inserisco qui un appunto, tratto da una lettura di Paolo Rossi, che coglie, collegando i ricordi di tre allievi di Heidegger, una caratteristica del suo pensare.

Quando Hans-Georg Gadamer ha rievocato, nel 1969, il primo insegnamento di Heidegger a Friburgo, negli anni successivi alla prima guerra mondiale, si è fermato su un punto che è davvero centrale. Vale la pena di rileggere le sue parole: Era qualcosa di nuovo, di inaudito. Avevamo imparato che pensare dovrebbe essere mettere in relazione, e realmente sembra giusto che, pensando, si ponga una cosa in una determinata relazione con l'altra e si faccia su questa relazione l'enunciazione, che si chiama giudizio. Ma ora noi sperimentavamo: pensare è mostrare e portare a mostrarsi. Fu un evento di potenza elementare... un dono inconcepibile 14

Nella filosofia di Heidegger (come ha notato uno dei suoi maggiori interpreti) il concetto di verità è effettivamente costruito mediante la separazione tra «evidenza» e «adeguazione», mediante la dissociazione fra «corrispondenza» e «manifestarsi». La verità è il manifestarsi dell'Essere, la sua «disvelatezza». La verità è disvelatezza, « non-nascondimento » (Unverborgenheit), automanifestazione. Non ha a che fare con il modo in cui gli enunciati dichiarano qualcosa. Consiste solo nel fatto di questa disvelatezza. Heidegger «non allarga il concetto specifico di verità, dà alla parola verità un altro senso». L'apertura di un «orizzonte di senso» diventa più importante dell'esame del suo valore di verità. Il concetto di verità come disvelatezza e non-nascondimento può garantire solo il manifestarsi di un orizzonte di senso, non la sua verità, né il suo valore pratico o estetico. L'abbandono del concetto di verità (e dell'eredità di Husserl) è apparsa in questo senso a Ernst Tugendhat (che si è formato alla scuola di Heidegger) « una tendenza pericolosa La verità è stata «derazionalizzata», e sottratta al pensiero riflessivo. Ciò non solo spiega la disponibilità, che è presente nella filosofia di Heidegger, ad «accogliere imperativi», ma «finisce per condurre inevitabilmente all'abbandono della stessa filosofia»: a rinunciare alla sua capacità argomentativa e alla sua antica tradizione critica 15.

Quello che apparve al giovane Gadamer «un dono inconcepibile» si configura per Tugendhat come l'abbandono del concetto stesso di verità. Con un linguaggio legato al ricordo, volto a tracciare il ritratto di un filosofo più che ad argomentare all'interno della tradizione speculativa, Jeanne Hersch, ha rievocato le lezioni heideggeriane del 1933 e ha detto la stessa identica cosa di Tugendhat: Nei suoi corsi e seminari del 1933, così come durante il colloquio di Cerisy-la-Salle organizzato attorno a lui dopo la guerra, ho sempre avuto la stessa impressione: egli non ama la verità. Cerca si qualcosa, e qualcosa di molto profondo, ma non è la verità. Fa ricorso a formule esorcistiche, come se volesse far risalire da sotto terra i vapori dell'essere. Ripete liturgicamente queste formule. Non rivela la profondità. La suscita. Non propone il suo pensiero al pensiero degli altri. Lo impone e l'imposizione del suo pensiero è più importante del suo contenuto... C'è del religioso, lì dentro, del mistico, c'è del pathos, dello psicologico, del teologico; ma subito l'autore ci assicura che non v'è nulla di tutto questo e che si è capito male 16.

Heidegger non cerca la verità che sta fuori, cerca la verità che sta dentro. Per fare questo, come ho già detto altrove, usa uno strumento, l'epoché, che consente l'accesso ad una diversa esperienza del mondo. Così facendo, però, non si accorge che non si tratta della stessa verità, perché non si tratta dello stesso mondo.

Heidegger e Descartes

C'è una affinità "esistenziale" che lega il pensiero di Giovanni Gentile a Heidegger. C'è qualcosa di propriamente non filosofico al centro della loro filosofia. C'è il rifiuto della filosofia come conoscenza.

TRa il 1919 e il 1930, oltre al corso del 1923-1924 ha dedicato quattro seminari a Descartes. Il primo a Friburgo nell'estate del 1919 si intitola Introduzione alla fenomenologa in relazione a Descartes ; il secondo nell'inverno del 1920-1921 si intitola Esercizi fenomenologici per principianti in relazione con le Meditazioni di Descartes; il terzo con un titolo simile si è tenuto a Marburg nell'estate del 1925; il quarto ha avuto luogo a Friburgo nel 1929-1930 e si intitola Sulla coscienza e la verità dopo Descartes e Leibniz

Heidegger reproce enfin à Descartes d'avoir identifié le sujet et le moi, d'avoir conçu l'ego cogito comme un subjectum. [GA 36/37, 7-8] Ce point est à l'origine des développements ultérieurs que l'on retrouve, très amplifiés, sept ans plus tard, en 1940, dans le cours sur Nietzsche: le nichilisme européen, où la philosophie première de Descartes est ramenée à une métaphysique de la subiectivité. [..] En effet jamais, dans les Méditations, Descartes n'utilise le mot subjectum pour désigner la mens humana ou la res cogitans. C'est en réalité Hobbes qui introduit dans ses objections le terme subjectum à propos de ce qui pense, et Descartes a émis sur cet usage les plus grandes réserves, estimant qu'il s'agissait d'un terme trop concret pour désigner sans équivoques la res cogitans.

MP

Bibliografia

Martin Heidegger
- [1994] La metafisica come storia dell'essere, in Nietzsche, vol. II (1961), tr. it. a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano, 1994, pag. 864 ss.
Paolo Rossi
- Antichi, moderni, postmoderni, Il Mulino, XXXVII, 1988, pp. 292-248, poi in Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, il Mulino, Bologna, 1989
Emmanuel Faye
- Heidegger, l'introduction du nazisme dans la philosophie, Albin Michel, 2005