Joel Feinberg
Filosofia sociale
il Saggiatore, 1996

Queste esigenze spesso ci richiedono di trattare tutti i cittadini o tutte le persone come uguali, ma il punto irnportante è che queste esigenze ci richiedono di trattare tutti i cittadini o tutte le persone come uguali anche quando non lo sono. Ignorare differenze reali, che è ciò che fa la maggior parte delle generalizzazioni, è spesso auspicabile; ma anche quando ignorare le differenze reali è auspicabile, non è privo di costi. Essendo una generalizzazione, il principio di trattare tutti in modo uguale è un principio che ignora le differenze reali, e conseguentemente comporta un costo.

[..] «Tutti gli uomini sono creati uguali», sancì la Dichiarazione di indipendenza nel 1776, e il mondo non fu più lo stesso; [..] «Tutti gli uomini sono creati uguali», tuttavia, è un'affermazione curiosa, e non solo perché la limitazione agli «uomini» non fu solo un lapsus linguistico, e perché le donne non erano certo l'unico gruppo escluso dalle intenzioni degli autori della dichiarazione. Anche accantonando l'esclusione delle donne, l'accettazione della schiavitù e alcune altre lampanti discrasie tra l'enunciazione dell'uguaglianza nella dichiarazione e l'ineguaglianza diffusa nella società di allora, persiste comunque un'evidente anomalia. Questa anomalia, detto chiaramente, è che l'affermazione «Tutti gli uomini sono creati uguali» è falsa. Alcuni di noi sono brillanti e altri timidi, alcuni sono fisicamente forti e altri deboli, alcuni sono ben coordinati e altri impacciati, alcuni hanno il dono della creatività mentre altri vedono le cose solo per come sono state viste prima, alcuni sono nati sani mentre altri vengono al mondo disabili o con malattie. In un senso molto reale e molto importante, quindi, l'affermazione per cui siamo tutti creati uguali è, in senso descrittivo, semplicemente non vera.

Benché tuttavia sia falso che tutti gli uomini sono creati uguali, non è falso che è possibile trattare tutti gli uomini come se fossero stati creati uguali, anche se non lo sono stati. L'uguaglianza, com'è stato spesso notato, ha una dimensione descrittiva e una prescrittiva [23]. L'uguaglianza è descrittiva quando le cose che vengono definite uguali lo sono realmente, come quando diciamo che cinque più cinque è uguale a dieci, o che due persone sono ugualmente qualificate per un certo lavoro. Ma l'uguaglianza assume una dimensione prescrittiva quando l'affermazione dell'uguaglianza viene fatta come ragione per trattare le persone allo stesso modo. Benché l'uguaglianza descrittiva e quella prescrittiva siano diverse, è importante notare che le affermazioni di uguaglianza prescrittiva coesistono con le affermazioni di quella descrittiva, e talvolta si fondano su di essa.

La relazione tra uguaglianza descrittiva e prescrittiva nasce dall'estensione in cui le richieste di uguaglianza prescrittiva sono comunemente (ma non necessariamente) costruite sul dato di fatto dell'uguaglianza descrittiva [24]. Qui possiamo distinguere due diverse relazioni che possono sussistere tra uguaglianza descrittiva e prescrittiva. In primo luogo, una buona ragione per trattare le persone in modo uguale è che esse sono effettivamente uguali; come abbiamo visto nel precedente paragrafo di questo capitolo, un possibile significato del principio per cui casi uguali devono essere trattati allo stesso modo è che caratteristiche irrilevanti non dovrebbero essere la base per distinguere tra persone o eventi. La giustizia non guarda alla differenza tra coloro che hanno il gruppo sanguigno A o il gruppo sanguigno B, poiché questa distinzione non può fare alcuna differenza sostanzialmente per nessuno degli obiettivi di un sistema di giustizia. In casi come questo, trattare allo stesso modo casi uguali non è solo un principio razionale, ma anche un modo diverso di dire che l'uguaglianza descrittiva è, tipicamente, una condizione sufficiente dell'uguaglianza prescrittiva.

Come abbiamo notato il problema di questa prima relazione tra uguaglianza descrittiva e prescrittiva non è che non sia valida; il problema è che non è interessante. Anche quando il principio del trattare casi e persone uguali in modo uguale può fare la differenza, lo può fare precisamente perché coloro ai quali la prescrizione è diretta generalmente non ritengono che i casi siano effettivamente uguali. Possiamo spiegare il rifiuto della legge sull'apartheid in Sudafrica o delle leggi razziste in America dicendo che il colore della pelle è irrilevante rispetto, ad esempio, allo stabilire a quale fontanella dell'acqua uno può bere o in quale posto si può sedere sull'autobus, e possiamo anche motivare questa conclusione dicendo che è solo una questione di trattamento di casi uguali in modo uguale. Ma certamente i proponenti delle leggi razziste o sull'apartheid non ritenevano che questi fossero «casi uguali»; essi credevano, se pure erroneamente, che il colore della pelle facesse la differenza, e quindi per loro le leggi che sostenevano non facevano altro che trattare casi diversi in modi diversi. Di certo erano (e sono) in errore nel crederlo, e il fatto che alcuni lo credano non lo rende né giusto né plausibile; ma che i sostenitori delle leggi dell'apartheid e razziste non ritenessero di avere a che fare con casi uguali ci mostra perché il principio per cui casi uguali vanno trattati in modo uguale non ci è molto utile. Coloro che ritengono che le persone con un diverso colore della pelle sono comunque uguali non hanno bisogno del principio secondo cui occorre trattare casi uguali in modo uguale, perché non farebbero alcuna distinzione, salvo che irrazionalmente, anche in assenza del principio. Viceversa, coloro che ritengono che il colore della pelle faccia la differenza sono anche coloro per i quali il principio in questione sarebbe irrilevante. Il principio per cui casi uguali vanno trattati in modo uguale è, quindi, o superfluo o irrilevante: superfluo quando i casi sono davvero uguali, e irrilevante quando non lo sono.

Vi è tuttavia un secondo tipo di relazione tra uguaglianza descrittiva e prescrittiva che non si fonda su principi tautologici come quello per cui casi uguali vanno trattati in modo uguale. Qui alcuni aspetti dell'uguaglianza descrittiva, normalmente, sono ciò che giustifica il trattamento uguale di casi o persone che sono per altri aspetti diversi. [25] Il fatto di trattare tutte le persone in modo uguale, come richiede la Dichiarazione di indipendenza, si basa sull'idea che una dimensione di uguaglianza prescrittiva — siamo tutti esseri umani — giustifichi un uguale trattamento anche rispetto a dimensioni di diversità. Poiché siamo tutti uguali sotto certi aspetti — siamo tutti americani, siamo tutti adulti, siamo tutti creature senzienti, siamo tutti esseri umani — dovremmo essere trattati allo stesso modo in certi altri aspetti, anche se in quegli altri aspetti non siamo uguali.

II secondo tipo di relazione tra uguaglianza descrittiva e prescrittiva è quindi quello per cui la base reale dell'uguaglianza prescrittiva diventa manifesta, poiché è ora evidente che l'uguaglianza prescrittiva richiede che, come Procuste, trattiamo in modo uguale casi e persone che sono diversi in alcuni, molti o addirittura tutti gli aspetti (salvo per il fatto che sono messi tutti assieme in virtù del principio di uguaglianza). Talvolta lo facciamo perché temiamo che si abusi di differenze anche statisticamente rilevanti; di conseguenza, rendiamo obbligatorio il sottoutilizzo di tali differenze, e l'uguaglianza prescrittiva può essere la conseguenza di questo trascurare volutamente diversità reali.

La cosa più importante, tuttavia, è che il sottoutilizzo di differenze effettive è ciò che dà alla vera idea di uguaglianza il suo mordente. Quando gli autori della Dichiarazione di indipendenza hanno affermato che tutti gli uomini sono creati uguali, e quando gli animalisti sostengono che i delfini sono uguali agli esseri umani in molti contesti etici e decisionali, intendono sostenere che alcune caratteristiche comuni impongono un trattamento comune, anche in presenza di altre caratteristiche non comuni, e anche in presenza di differenze di grado delle caratteristiche comuni.

Ovviamente la scelta delle caratteristiche comuni che rendono uguali deve derivare da qualcosa, ad esempio dall'idea di cittadinanza.

l'uguaglianza riguarda fondamentalmente il trattare in modo uguale casi disuguali

Una parte, il necessario, è legata alla riproduzione ed al mantenimento della vita, l'altra parte è il superfluo. La prima deve essere ripartita in base ai bisogni, che sono genericamente simili od uguali, la seconda può essere ripartita arbitrariamente secondo leggi che mutano con il mutare del tempo e della civilizzazione.

Il miraggio di ricevere una parte maggiore del superfluo viene utilizzata come incentivo per lo sviluppo. Viceversa la minaccia di non ricevere il necessario è usata per costringere chi non la possiede a lavorare.

Quando la Tacher ha cercato di introdurre la polltax - che avrebbe fatto impallidire Locke - non faceva altro che applicare agli inglesi quanto i coloni inglesi in Africa avevano applicato agli indigeni dopo la conquista per costringerli a lavorare. Introdurre l'economia monetaria e la tassazione equivale a rendere poveri quelli che prima non lo erano.

http://homepage.westmont.edu/hoeckley/readings/symposium/PDF/301_400/329.pdf feinberg

Giustizia comparativa e non-comparativa

I problemi di giustizia che sono di più diretto interesse per la teoria sociale sono quelli che coinvolgono necessariamente confronti tra le pretese di più persone e richiedono una qualche forma di equilibrio tra di esse. Gli ambiti di questi confronti interpersonali non esauriscono in alcun modo l'ambito della giustizia. In alcuni contesti, i diritti o i meriti di un individuo determinano da soli ciò che è dovuto a quell'individuo, e una volta giunti ad un giudizio su ciò che gli è dovuto, quel giudizio non può essere logicamente influenzato dalla conoscenza successiva delle condizioni di terzi. Quando il nostro obiettivo è la giustizia non-comparativa (come potremmo chiamarla) per ciascuno di un grande numero di individui, non confrontiamo quegli individui gli uni con gli altri, ma piuttosto confrontiamo ciascuno di essi a turno con uno standard obiettivo e giudichiamo ciascuno «sulla base dei suoi meriti». L'uguaglianza di trattamento, pertanto, non è parte del concetto di giustizia (individuale) non-comparativa, anche se è un elemento centrale nella giustizia (sociale) comparativa.

Se trattiamo tutti ingiustamente in base allo standard non-comparativo rilevante, ma in modo uguale e imparziale, abbiamo fatto un'ingiustizia a ciascuno, appena mitigata dalla uguale ingiustizia fatta a tutti gli altri.

La nostra attenzione in questo capitolo sarà dedicata ai giudizi di equità essenzialmente comparativi. Gli ambiti principali per la giustizia sociale sono: l'allocazione di oneri, la promulgazione e l'amministrazione di regole generali e l'interazione in imprese cooperative, o in giochi o in altre attività competitive.

Il termine «giustizia distributiva» si applicava tradizionalmente agli oneri e ai benefici distribuiti direttamente dalle autorità politiche, come cariche nominative, assegni di disoccupazione, tasse, coscrizione militare. Oggi comincia ad essere applicato anche a oneri e benefici di tipo non politico che possono essere distribuite da privati cittadini ad altri privati cittadini. Di fatto, nella letteratura più recente, questo termine è riservato alle distribuzioni economiche, in particolare alla giustizia delle differenze di reddito economico tra le classi, e dei vari schemi di tassazione che discriminano in modi differenti tra le classi.

Il principio di uguaglianza perfetta ha, ovviamente, un posto in qualsiasi etica sociale adeguata. Ogni essere umano è ugualmente un essere umano, e, come abbiamo visto nel se- sto capitolo, questa qualificazione minima dà uguale titolo a tutti gli esseri umani a certi diritti umani assoluti: diritti posi- tivi a «beni» non economici e per loro natura non in offerta li- mitata, diritti negativi a non essere trattati in modi disumani o crudeli e diritti negativi a non essere sfruttati o degradati sia pure in modi «umani». Cosa diversa, tuttavia, è rendere la qualificazione minima di umanità fondamento di una distri- buzione assolutamente uguale della ricchezza materiale di un paese tra i suoi cittadini. Un egualitarista rigoroso potrebbe sostenere di stare semplicemente applicando la formula di Aristotele dell'uguaglianza proporzionale (presumibilmente accettata da tutte le parti della disputa) insieme ad un criterio di rilevanza mutuato dai teorici dei diritti umani. Quindi, la

ricchezza economica della società (la quota di P in questione). La difficoltà di questo argomento è che la premessa mag- giore non è meno controversa delle conclusioni. Lo standard di rilevanza mutuato da altri contesti dove sembra pressoché autoevidente, appare controverso, quanto meno, se applicato a contesti puramente economici. Alla maggior parte di noi sembra evidente che, per il semplice fatto di essere esseri umani, tutti — i cattivi come i buoni, i pigri come gli indu- striosi, gli inetti come gli abili hanno titolo ad un processo equo se accusati di un crimine, all'uguale protezione della legge, all'uguale considerazione dei propri interessi da parte dei politici, ad essere risparmiati dalla tortura così come da trattamenti crudeli o inumani e ad essere permanentemente non riducibili allo stato di bene mobile come schiavi. Aggiun- gere un diritto ad una quota uguale del prodotto economico, tuttavia, significa aggiungere un beneficio di ordine intera- mente diverso, un beneficio la cui presenza sulla lista dei beni per i quali basta la mera umanità come condizione qualifican- te è improbabile che conquisti ampi consensi senza ulteriori argomenti. E di gran lunga più plausibile presupporre un diritto uma- no alla soddisfazione (o meglio: all'opportunità di soddisfa- zione) dei bisogni economici di base, vale a dire, avere abba- stanza cibo e medicine per restare in salute, un minimo di ve- 190 Filosofia sociale stiario, riparo, e così via. Come ha indicato Hume,15 anche questi diritti non possono sussistere in condizioni di estrema scarsità. Dove non c'è abbastanza di un bene perché tutti possano averne, non può essere vero che tutti hanno diritto a riceverne una parte uguale.14 Ma ovunque ci sia un'abbon- danza moderata, o di più, — ovunque la società produca più che abbastanza per soddisfare i bisogni di base di ciascuno — sembra più plausibile dire che il semplice possesso dei biso- gni umani di base dia titolo all'opportunità di soddisfarli. So- lo un insolito e spietato senso di giustizia non sarebbe offeso da una società opulenta, con un consistente surplus agricolo e grande abbondanza di beni industriali, che lasciasse morire alcuni dei suoi cittadini di fame, stenti o malattie facilmente curabili. Sarebbe certamente iniquo da parte di una nazione produrre più di ciò di cui ha bisogno e non dare ad alcuni dei suoi cittadini abbastanza da soddisfare le esigenze biologiche di base. L'egualitarismo rigoroso, allora, è un principio mate- riale di giustizia distributiva perfettamente plausibile se limi- tato alle società opulente e ai bisogni biologici di base, ma perde plausibilità se applicato alla divisione del «surplus» che rimane dopo che i bisogni di base sono stati soddisfatti. Di sicuro, maggiore è il grado di opulenza, maggiore è il livel- lo al quale potremmo tracciare la linea tra «bisogni di base» e benefici semplicemente «desiderati», e, nella misura in cui le istituzioni sociali creano «bisogni artificiali», è semplicemen- te equo che la società dia a tutti l'opportunità di soddisfarli.l' Ma una volta che sia stata tracciata la linea tra ciò di cui c'è bisogno per una vita minimamente decente per gli standard realistici di un dato tempo e luogo, e ciò che è sem- plicemente «grasso che cola» aggiuntivo, è lontano dall'esse- re evidente che la giustizia esiga ancora una divisione del to- tale in quote assolutamente uguali. Ed è evidente che la giu- stizia non richiede l'uguaglianza rigorosa tutte le volte che c'è ragione di credere che una distribuzione disuguale determini Giustizia sociale 191 causalmente una maggior produzione, e tale distribuzione è pertanto nell'interesse di ciascuno, anche di coloro che rice- vono quote relativamente inferiori. Tuttavia, non c'è modo di confutare l'egualitarista rigoroso che richiede esattamente parti uguali per tutti, tutte le volte che ciò non scoraggia la produttività totale al punto che tutti subi- scano delle perdite. Nessuno insisterebbe su distribuzioni uguali che diminuiscono l'entità del prodotto totale con il ri- sultato di lasciare quote inferiori per ciascuno; ciò sarebbe con- trario alla ragione. John Rawls rende questa condizione parte del suo «principio razionale» di giustizia: «Le disuguaglianze sono arbitrarie a meno che non sia ragionevole aspettarsi che si risolveranno a vantaggio di ciascuno».16 Ci rimane allora una versione dell'egualitarismo rigoroso che pur non essendo vera In modo evidente, è tuttavia impossibile da confutare. Si tratta della teoria che pretende di applicarsi non solo ai bisogni di ba- se ma alla ricchezza totale della società, e consente scostamenti dall'uguaglianza rigorosa quando, ma solo quando, vanno a vantaggio di ciascuno. Anche se non sono persuaso da questa teoria, penso che qualsiasi principio materiale adeguato dovrà dare grande importanza all'esigenza di mantenere le differenze di ricchezza entro limiti ragionevoli, anche dopo che tutti i bi- sogni di base sono stati soddisfatti. A questo scopo si potrebbe Pensare di elevare gli standard dei «bisogni di base» al crescere della ricchezza totale, cosicché le differenze tra i cittadini più ricchi e quelli più poveri (anche dove non c'è «povertà» reale) siano mantenute entro limiti moderati.

Note Cfr. la rubrica sportiva di «Newsweck», 14 setten)bre 197(), p. 12), nella ( le si discute della durezza dello scomparso allenatore di football Vincent Lom yar. di: «L'osservazione spesso citata del placcatore Henry Jordan indicava l'equità dell'allenatore: "Ci trattava tutti allo stesso modo. Come cani"». 2. Per esempio, I. Berlin, Equality as an Ideal, in «Proceedings of the Aristotelian Societs•», 195556, vol. LVI; C. Perelman, The Idea of Justice and the Problem of Argument, Humanities Press, New York 1963, pp. 1-60. Prendo a prestito questo utile termine da W.K. Frankena, The Conccpt of Sw Cial uctice, in R. B. Brandt (a c. di), Social Justice, Prentice-llall, Englewood Clif s, N.J 1961, p. 5, e A.D. Woozley, Injustice, in «American Philosophical Quarterly Monograph», 1973, n. 7 Giustificare un atto significa mostrare che es. so è nel complesso e in ultima analisi, tutto considerato, gusto (right). Giustiiizza- re (iustici:e) un atto significa mostrare solo che esso è imparziale (iust) e pertanto tende ad essere giusto (right). Dal momento che (come abbiamo visto) non tutti gli atti imparziali (just) sono giusti (rigth), e non tutti gli atti giusti sono imparziali, è utile la distinzione tra giusticizzazione e giustificazione tutto considerato. 4. La migliore spiegazione che conosca della distinzione tra principi formali e materiali di giustizia è in L. I. Katzner, An AnalysiJ of the Concept of Justice, Ph.D. Dissertation, University of Michigan, 1968. Sono fortemente in debito con questo eccellente lavoro per i capoversi che seguono. 6. Ibid., p. 37, parafrasando S. I. Benn e R.S. Peters, Social Principlcs and the De- mocraticStute, George Allen and Unwin, London 1959, p. 111. 7. H.LA. I Iart, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino 1965, p. 187 (corsivo mio). S. pp. 1878. 9. A.M. Honoré, Social Justice, in «McGill Law Journal», 1968, vol. VIII, ri- stampato in R.S. Summers (a c. di), Essays in Legal Philosophy, University of Ca- lifornia Press, Berkelev e Los Angeles 1968, p. 67 IO. H.L.A. Hart, op. p. 191 I l. TR B. front in «The New Republic», 22 marzo 1969, vol. CLN, 12. XX'. K. Frankena. Sopne Bel:cfs About Justice, in The Lindley Lecture, Univer- sitv of Kansas, Lawrence 1966, p. IO. 131 D. lume. Ruccrche sui prmcrpidella morale, Laterza, Roma-Bari 1987, parte Ill. 14. Ad eccezione che nel «senso da manifesto» del termine «diritto» discusso alle pp. 118-9. 15. Questo punto è ben sottolineato in L.I. Katzer, op. cit„ pp. 173203. 16. J. R.Nls. Gtustizlü come equ:tà, in Id., LI gtustrzla come equità, Liguori, Na- 17. SA. Benn e XS. Peters, op. Cit. p. 159. 18. Che risalc a Lotus Blanc. Per una esposizione chiara e concisa delle vedute di Proudhon in contrapposizione a quelle di altri scrittori socialisti delle origini e an- che a quelle di Karl Marx, vedi R.C Tucker, Marx e lu drstrtbuttva, in S. Niaft•ettone (a c. dl), e gtust13d, il Saggiatore, Milano 198 pp. 101-24. 19. RC. Tucker, op. at. p. 106.

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Bibliografia

Joel Feinberg
- Filosofia sociale, tr. Luciano Andreozzi, il Saggiatore, Milano, 1996
- Social Philosophy, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, N.J., 1973
Frederick Schauer
- Di ogni erba un fascio. Generalizzazioni, profili, stereotipi nel mondo della giustizia, tr. Anna Margherita Taruffo, il Mulino, Bologna, 2008
- Profiles, Probabilities and Stereotypes, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 2003