Giuseppe Grosso

Il diritto di sciopero e l'intercessio dei tribuni della plebe

Fra i problemi che attendono la soluzione legislativa prevista dalla Costituzione, i più discussi, e i più spinosi, sono quelli del regime sindacale e del regolamento del diritto di sciopero. Proposte e punti di vista diversi, termini di lotta di forze sociali e di forze politiche, fanno di questi problemi un punto critico della società attuale.

I termini della impostazione giuridica del diritto di sciopero sono abbastanza chiari; ma, come sempre, i problemi ardenti non sono problemi di schemi giuridici, ma sono quelli che investono rapporti di equilibrio sociale, che negli schemi giuridici si proiettano come dosature di aspetti e problemi tipici, quali la fissazione di limiti, la determinazione di soggetti e di contenuto, e cosi via. Terrnini di un regolamento sostanziale che vengono tesi dalle forze estreme, da un lato quelle che vorrebbero sostanzialmente abolire lo stesso diritto di sciopero, dall'altro lato quelle che vorrebbero farne un semplice strumento a fini di lotta politica del tutto diversi da quelli a cui esso è naturalmente destinato. Estremi che, come di solito avviene, interferiscono l'uno coll'altro; e significativo è che il secondo è volto a fini politici che sboccherebbero nel primo.

Ora, il regolamento legislativo tanto più raggiungerà il suo scopo quanto più saprà adeguarsi alla realtà dell'istituto che regola, e difenderlo contro tentativi di deformazione in un senso o nell'altro; ma tutto ciò sul presupposto che tale realtà sia risultante di forze vive e operanti.

Pensiamo al paradosso costituzionale che rappresenta, considerato in astratto, il tribunato della plebe romano. Questa magistratura rivoluzionaria, creata dalla plebe per la propria lotta, strumento di lotta di classe, viene costituzionalizzata proprio con tale carattere rivoluzionario, coll'arma negativa del veto, l'intercessio. Valutiamo la potenza e la gravità di quest'arma, che poteva paralizzare l'attività di governo. Eppure dobbiamo constatare che essa non impedì lo sviluppo di Roma, chè anzi fu proprio attraverso questa lotta che si raggiunse l'assetto interno di una società in piena espansione.

Quando più tardi, negli elementi che determinarono la crisi e nell'urto delle nuove classi, l'organismo sociale è fortemente scosso e si opera tutta una disgregazione, allora anche il tribunato si inserisce nei termini di qnesta lotta disgregatrice. Ma non si può certo dire che la forza dei tribuni e il contenuto del loro potere sia la causa del turbamento; questa è insita nelle condizioni sociali, politiche ed economiche e nel rapporto delle forze in gioco.

Questo richiamo all'intercessio tribunizia io opponevo, circa due anni or sono, in una polemica giornalistica, ad un illustre studioso di storia economica, di ceppo socialista, che nei suoi giovani anni aveva portato tanta passione nello studio delle lotte del tempo graccano e post-graccano, vivendo con terminologia attuale la parte dei populares, al punto da meritarsi un garbato ma severo richiamo al sereno apprezzamento ed all'esatta rappresentazione dei fatti storici da parte di uno studioso della mitezza di Gino Segrè (1) e che ora sosteneva in forma assoluta l'incompatibilità del diritto di sciopero con un ordine democratico.

E penso che il parallelo possa anche essere sviluppato e approfondito, con tutte le riserve che naturalmente si debbono fare sui confronti e sulle analogie di situazioni storiche diverse, e lasciando da parte le tentazioni verso formule semplificate di leggi storiche. che si risolvono nella coartazione della storia. e che vengono meglio classificate nella mitologia politica dei nostri tempi.

Certo. quando, p. es.. guardando all'organizzazione della plebe romana si cerca di spiegarne l'origine con una antitesi di nazionalità o con una primitiva distinzione di comunità cittadine, facendo particolarmente leva su ciò che qualifica la distinzione fra i due ordini, coi loro capi, coi diversi templi e culti, d'altra parte il pensiero non può non correre alla distinzione. che si va formando in questi tempi moderni, in cui il solco ideologico che si è inserito nella lotta di classe (sia pure non combaciandovi), entro popoli uni d'arme, di lingua, d'altare, ecc., fa capo addirittura ad ideali di civiltà incarnati in nazionalità diverse!

Ogni tempo, ogni situazione storica, ha il suo problema, che rappresenta un'individualità a sè, e d'altra parte le analogie esteriori possono moltiplicarsi con tempi e situazioni diverse a seconda della visuale; e la scelta per il raffronto 11a carattere arbitrario. Ma i raffronti dovrebbero almeno valere a dare maggiore elasticità all'argomentazione storica, ed a farci diffidare delle argomentazioni astratte nella ricostruzione storica, sia nelle contrapposizioni che nelle identificazioni e generalizzazioni. Ed altrettanto astratta è spesso l'argomentazione storica che porta ad un'originaria separazione di nazionalità, o di organizzazione cittadina, della plebe, quanto quella che vuole adattarla ad un più generale cliché della lotta di classe (2).

Non è d'uopo qui soffermarci c.r professo su questo problema delle origini della plebe. Per valutare il carattere della lotta fra i due ordini, possiamo limitarci a rilevare che, comunque sia della genesi, da un lato punto di partenza del conflitto è il dualismo che oppone due ordini, dall'altro lato il terreno su cui si sviluppa la lotta è stato offerto dall'organizzazione che univa nella popolazione della civitas patrizi e plebei (3); chè la plebe, nella lotta, si è organizzata per tribù, cioè proprio approfittando di quella unitaria organizzazione cittadina (4); lotta dunque fra due ordini nella stessa popolazione della città, in cui la distinzione e separazione apparirebbe proprio come determinata dall'urto (cfr. Liv. II, 44. e l'affermazione. che si ripete negli storici, che la plebe è venuta a formare uno Stato nello Stato).

E in questa lotta fra i due ordini nella stessa popolazione della città troviamo l'intreccio storico concreto di urti, di trattative, di accordi che assumono la veste del foedus (5). Ed è questo processo dello sviluppo della struttura della ciritas per accordi che sbocca nel carattere convenzionale della I.e,c, statuizione di tutto il populus, e nella cacia e funzione che essa ha nello sviluppo costituzionale di Roma (6). Ed attraverso la lotta, la secessione e l'accordo, nascono i tribuni, col carattere che abbiamo richiamato.

Ora, lasciamo da parte i rapporti tra l'affermazione rivoluzionaria e l'impiego degli stessi organi democratici parlamentari, in cui si è svolta, p. es.. la eterna oscillazione del socialismo italiano, e la tappa rappresentata dal suffragio universale. Prendiamo l'organizzazione sindacale e il diritto di sciopero: e si presenta spontaneo e chiaro, come ho detto, il parallelo coll'intercessio tribunizia.

A chi è riconosciuto il diritto di sciopero? Al lavoratore; ed al lavoratore deve essere garantito anche il diritto di lavoro contro i tentativi di soprusi e sopraffazioni. Ma sostanzialmente e necessariamente il diritto di sciopero importa un potere dell'organizzazione sindacale. E, data la complessità e l'interdipendenza della struttura della vita moderna, uno sciopero può paralizzare la vita di una comunità. Il potere sindacale, coll'arma dello sciopero, è entrato nella struttura della società e dello Stato moderno come il potere tribunizio nella civitas romana.

Naturalmente non vogliamo affermare identità di istituti; chè anzi, per l'individualità di ogni situazione storica, si può ben mettere in risalto la notevole differenza: differenza nella posizione e negli obbiettivi dei termini della lotta; differenza nella struttura e nel contenuto del mezzo e nei titolari della legittimazione all'uso di questo. Essenzialmente può rilevarsi che lo sciopero è arma di lotta economica, che incide nel campo della vita economica e nei confronti degli organismi di questa.

Ma appunto nelle concrete differenze strutturali, in rapporto alle diverse situazioni, risulta anche quella che è la fondamentale identità.

Il valore e significato dello sciopero va commisurato all'organizzazione del lavoro e dell'impresa che caratterizza l'età moderna, ed al valore che essa ha nella struttura sociale e politica. Chi volesse sottilizzare potrebbe dire che questo mezzo potrebbe piuttosto essere paragonato alle secessioni che non all'intercessio; ma ben si può instaurare un parallelo storico con l'intercessio per la sua diretta funzione paralizzatrice, anche se questa nello sciopero non incide direttamente su atti politici, ma è rivolta al settore economico.

L'intercessio tribunizia, ho sottolineato, arma rivoluzionaria costituzionalizzata, non ha frenato lo sviluppo di Roma, ma si è inserita nei termini di esso. E se ne sono spontaneamente affermati i limiti, che ne esprimevano l'adeguamento alla funzione (come l'esercizio in città, l'esclusione per la nomina del dittatore) (7). Quando la società romana, e lo Stato da essa espresso, fu in crisi, l'intercessio tribunizia, del resto staccata ormai dal legame originario, si ridusse ad una delle pedine del gioco; ma anche allora il tentativo di Silla di svuotarla con una legge non fu che un gesto di forza, effimero come tutta la costruzione sillana.

Ora, nella organizzazione capitalistica della società moderna, il diritto di sciopero delle classi lavoratrici è entrato, abbiamo detto, collo stesso carattere rivoluzionario e colla stessa forza di una necessità naturale: arma di lotta economica di classi, esso tocca nei suoi effetti gli ingranaggi di una vita sociale sempre più interdipendente, con sempre più implicazioni politiche: arma legalizzata, affermata come un diritto nella stessa costituzione. L'art. 41 della Costituzione italiana, affermando che il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano, lo presuppone nella sua qualità di diritto fondamentale, affermando solo una delimitazione legislativa dell'esercizio.

Ora, si può dire già che questo diritto di sciopero, nel campo delle rivendicazioni e conquiste dei lavoratori, ha ben assolto ad una funzione ed ha una concreta e gloriosa storia, che ha determinato e accompagnato uno sviluppo sociale del mondo del lavoro.

Se oggi viviamo in un moinento di crisi, in cui la lotta politica ha assunto il carattere di un urto di civiltà e di concezioni di vita, se d'altra parte la difesa dei valori tradizionali deve ravvivarsi e animarsi di conquiste sociali nel mondo del lavoro, potrà anche esserci una svolta nei mezzi onde raggiungere le realizzazioni: e comunque c'è un problema e un'obiettivo più vasto e più alto. Ma sarebbe grave miopia il voler sic et simpliciter bandire il mezzo di lotta offerto dallo sciopero solo perchè nell'urto della crisi delle forze politiche anche quest'arma viene spesso deviata nei suoi scopi a strumento di fazione politica. I mali della società si curano alla radice, non togliendo di mezzo ciò che può servire allo sfogo dei loro effetti. Perchè altrimenti si rischierebbe di dover tagliare anche ben altro delle istituzioni democratiche, senza peraltro sapere che cosa sostituirvi.

Potrà piuttosto dirsi che questi istituti, che furono conquiste dei nostri padri, costituiscono punti di partenza, nell'attuale stato della società, per quello sviluppo che dovrà rappresentare un superamento, nel superamento della crisi attuale.

Guardando all'obbiettivo più limitalo e più vicino, la legge potrà, anzi dovrà in omaggio alla Costituzione, regolare l'esercizio del diritto di sciopero; e questo regolamento legislativo dovrà cercare di adeguare il più possibile tale esercizio alla funzione per cui il diritto di sciopero è riconosciuto. e in particolare a quell'incidenza nel campo economico che lo qualifica.

Già valenti giuristi (ricordiamo Greco, Peretti Griva) hanno desunto dalla collocazione del diritto di sciopero nel Titolo III della Costituzione (Rapporti economici) il carattere economico dello sciopero, per cui sarebbe escluso lo sciopero per fini politici. Ma definire lo sciopero economico e lo sciopero politico, salvo che per ipotesi ben determinate, non è facile. Nè d'altra parte dal fine economico e sociale è sempre possibile escludere un fine politico: al che si aggiunge che non si potrebbere evitare applicazioni indirette.

Più pratiche e adeguate sono determinazioni e delimitazioni concrete, quali sono state proposte, specie quelle che impongono determinate procedure (p. es., referendum, tentativo di conciliazione); e compatibili sono anche dei limiti, mentre un limite generale può essere rappresentato da ciò che cesserebbe di essere sciopero per essere vera e propria rivolta ai poteri e all'ordine dello Stato.

Possiamo fermare qui il contenuto di questa breve nota. A chi volesse vedere il superamento in una semplice affermazione della necessità di una collaborazione di classi, possiamo ancora ricordare che la tradizione romana poneva l'apologo di Menenio Agrippa, e cioè il principio della necessità della collaborazione, alla base del riconoscimento dell'arma di lotta della plebe.

Bibliografia

Giuseppe Grosso
- Il diritto di sciopero e l'intercessio dei tribuni della plebe, Rivista italiana per le scienze giuridiche, Estratto, Giuffrè, Milano, 1953 ora in Opere vol. 1, Giuffrè, Milano,