Politica e riforma delle pensioni

Matteo Jessoula
La politica pensionistica
il Mulino, 2009

Premessa

Per meglio comprendere ciò che segue occorre tenere presenti alcuni principi generali sui quali, a mio avviso, ogni sistema previdenziale publico deve essere fondato.

  1. Alea. I sistemi previdenziali sono tutti intrinsecamente aleatori. Ne segue che, per ragioni di equità, l'alea deve essere distribuita in modo uniforme tra le generazioni e all'interno delle stesse generazioni.
  2. Separazione. Compito dei sistemi previdenziali è quello di alleggerire le finanze statali dal sostegno dovuto alla povertà in vecchiaia, separando la previdenza dall'assistenza. Ne segue che non è compito dello Stato assicurare ai pensionati il mantenimento dello stesso tenore di vita conseguito nell'ultima parte dell'età lavorativa.
  3. Uguaglianza. In termini molto generali, l'uguaglianza impositiva può essere intesa in modo proporzionale o in modo progressivo. Nella Costituzione italiana l'uguaglianza impositiva viene definita in modo progressivo. Ne segue che lo Stato, in generale, ed i sistemi previdenziali publici [primo pilastro], nel particolare, debbano tenere conto del principio di progressività. Nei singoli casi il principio di progressività può essere derogato solo se sussunto in un insieme di regole che assicurino una progressività complessiva del sistema.

Come si vedrà questi principi sono stati un obiettivo mai raggiunto ed anzi sempre più ampiamante disatteso dal Legislatore italiano.

Pilastri pensionistici

Il concetto di pilastri pensionistici deriva dal volume Averting the Old Age Crisis..., publicato dalla Banca Mondiale nel 1994 nel quale viene presentato un modello - con finalità prescrittive - denominato multipilastro. Il concetto è stato poi ampiamente adottato - a fini descrittivi - dalla letteratura.

  • Il primo pilastro è di natura publica e può avere diversi livelli
  • Il secondo pilastro è rappresentato dalla previdenza complementare collettiva fornita dai fondi pensione controllati dai sindacati o dai datori di lavoro
  • Il terzo pilastro, infine, è rappresentato dalla previdenza complementare individuale gestito in forma assicurativa da istituzioni finanziarie

Alea

I sistemi pensionistici attivati dalle contribuzioni obbligatorie derivanti dal lavoro (sistemi occupazionali) sono usualmente distinti in base alla gestione delle risorse ed ai metodi di calcolo delle prestazioni

la funzione del sistema occupazionale muta con il metodo prescelto per il calcolo delle prestazioni: funzione previdenziale con il metodo retributivo, assicurativa con quello contributivo. Tale differenza deriva essenzialmente dall'opposta logica di funzionamento dei due metodi, che ripartisce differentemente il rischio, e i costi, nelle quattro varianti proposte in tabella.


Metodo di calcolo delle prestazioni

Sistemi di gestione delle risorse
Ripartizione Capitalizzazione

Retributivo

Sistema retributivo

Sistema a prestazione definita

Contributivo

Sistema contributivo

Sistema a contribuzione definita

I sistemi contributivi, predefinendo il livello di prelievo contributivo e lasciando variare l'importo delle pensioni sulla base di una serie di fattori tendono a scaricare direttamente sugli assicurati i costi di eventuali dinamiche sfavorevoli attraverso una diminuzione del valore delle prestazioni. [..] Per questa ragione la funzione previdenziale - di mantenimento di un determinato livello di reddito - non può essere assicurata in questi sistemi, che svolgono una funzione meramente assicurativa.

Negli schemi retributivi, in cui la prestazione è predefinita, il rischio è sopportato in prima battuta dal promotore degli schemi pensionistici (fiscalità generale, datore di lavoro, fondi previdenziali) ed in seconda battuta dai lavoratori attivi.

Con le riforme degli anni 1992-1995 si compie il miracolo di passare da un sistema retributivo ad un sistema contributivo con il sostanziale accordo dei partiti politici e delle organizzazioni sindacali dei lavoratori. Ciò è avvenuto spostando il rischio da un soggetto (lo Stato) ad altri soggetti (le generazioni future), salvaguardando nello stesso tempo le generazioni più anziane.

Per comprendere come sia potuto avvenire questo miracolo cercherò aiuto nella monografia di Matteo Jessoula soffermandomi sugli aspetti più specificatamente politici degli interventi di riforma del sistema pensionistico italiano degli anni 1992-1995

Il punto di svolta della politica pensionistica
La riforma Amato

Con le riforme degli anni 1968-1969 il sistema retributivo a ripartizione viene esteso a tutti i lavoratori dipendenti, publici e privati. Altri interventi legislativi di un legislatore disattento e interessato hanno introdotto con il tempo numerose anomalie, sia clientelari che concettuali, che vengono via via denuciate dai tecnici e dall'opinione publica.

Dopo un decennio di proposte inconcludenti, che si scontrano con i veti delle categorie interessate, la riforma del sistema pensionistico italiano comincia a predere forma nel 1992 in una situazione politica caratterizzata dall'estrema debolezza dei partiti.

Il punto di svolta verso politiche di tipo sottrattivo nel settore della tutela della vecchiaia in Italia è rappresentato dalla riforma Amato, che prende forma tra la seconda metà del 1992 e il primo semestre del 1993.

La nomina del socialista Giuliano Amato alla presidenza del Consiglio e la definizione dei (vari) provvedimenti di riforma della previdenza avvengono in un contesto particolare sia sul piano politico e istituzionale, sia sul versante economico-finanziario. Le elezioni della primavera del 1992 registrano infatti alcuni segnali di una parziale, ma significativa, destrutturazione del sistema dei partiti con una consistente perdita di voti per le due principali formazioni politiche di governo (DC e Psi) e per l'area ex comunista (Partito democratico della sinistra, Pds e Rifondazione comunista, RC), e il successo di alcuni nuovi partiti come la Lega Nord (Ln) — e la diminuzione della partecipazione elettorale che in precedenza si era sempre mantenuta su livelli eccezionalmente elevati [Sani 1992]. Due mesi prima delle elezioni, inoltre, con lo scandalo del Pio Albergo Trivulzio di Milano, era stata avviata l'inchiesta Mani pulite, che nell'arco di un anno avrebbe svelato la fitta trama di attività illegali che informava il sistema degli appalti pubblici e del finanziamento dei partiti, conducendo a una crisi irreversibile le formazioni politiche che nei quarant'anni precedenti avevano partecipato alle varie coalizioni di governo [1].

Gli interventi legislativi del governo Amato in materia previdenziale sono i seguenti

  • d.l. n. 333/1992 - l. n. 359/1992 (riduzione indicizzazione per il 1992 e aumento aliquota dello 0,8%)
  • d.l. n. 384/1992 - l. n. 438/1992 (blocco pensioni di anzianità per il 1993 e sterilizzazioni indicizzazione 1993)
  • legge delega n. 421/1992 attuata con:
  • d.lgs. n. 503/1992 (riforma primo pilastro)
  • d.lgs. n. 124/1993 (cornice normativa per i pilastri complementari)

I decreti attuativi della legge delega 421 rappresentano i primi tasselli della riforma. Il decreto legislativo 503 ha la funzione di ridurre le dimensioni del primo pilasto.

La principale misura contenuta nel d.lgs. n. 503/1992 e direttamente volta al contenimento dei costi è la modifica del meccanismo d'indicizzazione delle pensioni. Le prestazioni pensionistiche in erogazione — nel passato rivalutate secondo un indice composto, ma sostanzialmente collegate all'aumento delle retribuzioni — vengono ora agganciate al solo incremento dei prezzi. L'intervento è significativo per almeno tre ragioni: in primo luogo, perché sarà destinato a rimanere l'unico provvedimento — nel lungo processo di riforma (1992-2007) del sistema previdenziale italiano che abbia ridotto il valore delle prestazioni già in essere, intaccando perciò anche la ricchezza previdenziale dei lavoratori già in quiescenza; in secondo luogo, perché esclude i pensionati dalla platea di coloro che traggono beneficio dalla crescita economica del paese [3]; infine, perché esso comporta una diminuzione della spesa nel breve periodo. La riduzione del valore delle prestazioni a medio-lungo termine viene invece perseguita con un intervento volto principalmente a rafforzare il legame contributi-prestazioni [4]; il periodo di riferimento per il calcolo della retribuzione pensionabile viene infatti esteso, per i lavoratori con almeno 15 anni di contribuzione, dagli ultimi 5 anni di attività (dipendenti privati) e dall'ultimo mese (dipendenti pubblici) agli ultimi 10 anni, e all'intera carriera lavorativa per i nuovi entranti sul mercato del lavoro [5]. Questa misura permette, specie in connessione con l'allungamento (da 15 a 20 anni) del periodo contributivo minimo per accedere alla pensione di vecchiaia una maggiore corrispondenza tra contributi versati e prestazioni percepite a livello individuale, oltre che il contenimento della spesa pensionistica futura e la riduzione (per i neoassunti) del trattamento favorevole precedentemente garantito ai lavoratori con le carriere più dinamiche. Sul fronte, invece, del prolungamento dell'attività lavorativa e dell'armonizzazione normativa gli interventi mirano essenzialmente a eliminare le più evidenti anomalie: la bassa età pensionabile per i lavoratori dipendenti privati (60-55 anni per uomini-donne) e le regole di accesso alle pensioni di anzianità per i dipendenti pubblici. L'età legale di pensionamento viene elevata con un periodo di transizione fino al 2002 — a 65 anni per gli uomini e 60 per le donne. E viene prevista la graduale eliminazione delle pensioni baby per i dipendenti pubblici, con la parificazione (a regime) del requisito contributivo per accedere alle pensioni di anzianità a quello vigente nel settore privato: 35 anni [6].

Il giudizio su questa parte della riforma, se non viene vista come cavallo di troia per l'introduzione della previdenza complementare, sembra positivo, essendo null'altro che la realizzazione, seppure affrettata, di quanto il Legislatore avrebbe dovuto fare, e non ha fatto, negli anni ottanta.

I risultati previsti della riforma Amato sono dunque rilevanti sia sul piano dell'armonizzazione normativa, con il superamento delle principali criticità e disparità di trattamento, sia su quello del contenimento dei costi [Beltrametti 1996].

Il decreto legislativo 124 ha invece la funzione di aprire la strada all'introduzione della previdenza privata, che qui appare come conseguenza inevitabile della progressiva riduzione della copertura offerta dal primo pilastro.

Con l'attuazione della delega tramite il d.lgs. n. 503/1992 e la conseguente riduzione delle pensioni pubbliche, specie nel lungo periodo, diviene necessario delineare il framework normativo per lo sviluppo dei pilastri pensionistici complementari, allo scopo di garantire ai futuri pensionati una rendita previdenziale formata da due componenti: a) una pensione pubblica, meno generosa che in passato e b) una pensione complementare (o integrativa) che compensi la riduzione del valore delle prestazioni di primo pilastro. [..] Il d.lgs. n. 124/1993, emanato nell'aprile del 1993, risponde proprio a questa esigenza, definendo la prima cornice regolativa per la previdenza complementare allo scopo di avviare la transizione del sistema pensionistico italiano verso un assetto multipilastro. [..] il governo Amato opta per un sistema di previdenza complementare volontario - l'adesione ai fondi integrativi è infatti lasciata alla decisione individuale - nel quale operano enti e organismi privati, che gestiscono le risorse secondo il metodo a capitalizzazione e con criteri che — almeno per i lavoratori dipendenti — sostanzialmente escludono qualsiasi forma di redistribuzione. Le prestazioni possono infatti essere soltanto a contribuzione definita e dunque strettamente legate ai contributi versati individualmente.

Quale fosse il reale obiettivo di Giuliano Amato è reso evidente a posteriori dallo stesso Amato.

Il pilastro mancante è il titolo di un volume scritto da Giuliano Amato in collaborazione con Mauro Marè [2001], volto a mettere in evidenza un'altra peculiarità o, meglio, l'anomalia italiana nella sfera pensionistica: la pressoché totale assenza, almeno fino agli anni Novanta dello scorso secolo, della previdenza complementare a capitalizzazione.

Si deve però notare che, in linea generale, l'introduzione di competitori privati nella raccolta delle risorse destinate alla previdenza, unitamente alla prospettiva introdotta dalla globalizzazione dei mercati - di cui nella riforma Amato non si tiene conto - di una riduzione sia dell'occupazione che del salario reale delle classi lavoratrici meno specializzate, e conseguentemente della loro capacità di risparmio, non favorisce la sopravvivenza di un primo pilastro in grado di svolgere efficacemente la sua funzione di sostituto della fiscalità generale.

Ne segue che, nel lungo periodo, come effetto perverso delle riforme introdotte dal governo Amato vi sia anche l'aumento della spesa previdenziale finanziata con la fiscalità generale.

Dalla commissione Castellino
al rigoroso sacerdote del contributivo

Il triplo salto mortale carpiato della sinistra, che ha consentito il passaggio al sistema contributivo, avviene dopo il fallimento della Commissione Castellino, la crisi del primo governo Berlusconi ed il passaggio ad un governo tecnico guidato dal ministro del tesoro del governo Berlusconi, ma sostenuto dai partiti della sinistra. Questo è, per estratto, il riassunto di come sono andati i fatti nelle parole di Jessoula.

Istituita il 3 agosto 1994 [..] il 20 settembre la commissione Castellino a consegna al ministro del Lavoro uno scarno rapporto che contiene soltanto alcuni obiettivi molto generici: a) separazione previdenza assistenza, b) centralità del primo pilastro pubblico a ripartizione, c) omogeneizzazione normativa tra le vane categorie, d) correlazione tra il valore delle pensioni, l'età anagrafica al pensionamento e la storia retributiva e contributiva del lavoratore.

Al di là dei principi generali [..] regnano le divergenze tra i commissari [..] Il rapporto della commissione viene quindi accantonato [..] Perse [..] le speranze di contribuire a un progetto organico di riforma della previdenza, i sindacati scendono sul piede di guerra, indicendo uno sciopero generale per il 14 ottobre e una imponente manifestazione nazionale cui parteciperanno oltre 1 milione di persone — a Roma il 12 novembre [..] la minaccia di un secondo sciopero generale per il 2 dicembre, assieme alle resistenze leghiste, inducono l'esecutivo a riconsiderare radicalmente il progetto, formalizzando il 10 dicembre l'accordo con i sindacati.

Fino a quel momento l'ipotesi di passare dal sistema retributivo vigente al metodo contributivo non è praticamente mai entrata nel dibattito politico, anche se tra il 1993 e il 1994 essa ha iniziato a circolare, timidamente, non soltanto nei cortili accademici ma anche tra alcuni attori politici e sindacali. Ciò avviene, in particolare, attraverso una consulenza del professor Gronchi alla Ragioneria generale dello Stato e alcuni seminari tenuti dallo stesso Gronchi presso il Centro studi di politiche economiche (Cespe) del Pds, la Cgil e Confindustria [Gronchi 1998].

L'idea di un sistema contributivo incontra alcuni consensi a sinistra - tra gli esponenti Pds e alcuni dirigenti della Cgil, in particolare Cofferati e Lapadula f — soprattutto perché esso consentirebbe l'eliminazione del trattamento favorevole garantito dal sistema retributivo ai lavoratori con carriere più dinamiche g. Inoltre il metodo contributivo non si profila soltanto come uno «strumento per garantire l'equità del sistema» ma appare anche come il possibile «guardiano dell'equilibrio finanziario» [ibidem, 300]. In questa seconda prospettiva Alberto Brambilla, uno dei membri della commissione Castellino, ne propone in quella sede l'adozione, pur senza successo, e anche in seguito ne perora la causa tra i principali attori sulla scena previdenziale h.

Il 2 dicembre 1994 l'idea contributiva viene per la prima volta formalizzata in un disegno di legge presentato dal gruppo dei Progressisti alla Camera, che prevede una riforma del sistema incentrata proprio sull'adozione di tale metodo, seppur in una versione molto imperfetta dal punto di vista tecnico [ibidem]. Il disegno di legge rimane però nel cassetto durante gli eventi che portano dalla caduta del governo Berlusconi al nuovo governo Dini.

L'ipotesi d'introdurre un sistema contributivo viene invece rispolverata quando il ministro del Lavoro del nuovo governo riceve l'incarico di elaborare una riforma del sistema previdenziale, secondo quanto previsto dall'accordo del 10 dicembre 1994. Il ministro del Lavoro Treu e il sottosegretario al Tesoro Giarda chiamano infatti proprio il professor Gronchi — rigoroso sacerdote del contributivo secondo lo stesso Giarda [ibidem, 275] — a guidare il gruppo di esperti incaricato di tratteggiare la nuova riforma delle pensioni i . Tale metodo diviene così, in pochi mesi, la colonna portante della fondamentale riforma Dini l.

Il miracolo
La riforma Dini

Schematicamente la riforma Dini può essere così riassunta:

• Il primo pilastro pensionistico rimane a ripartizione, ma le prestazioni vengono calcolate con il nuovo metodo contributivo. I contributi versati sono perciò virtualmente accumulati in un conto individuale e rivalutati annualmente secondo la media del Pil degli ultimi 5 anni. a Al momento del pensionamento il montante contributivo accumulato è convertito in rendita per mezzo di coefficienti di trasformazzone che variano in relazione all'età anagrafica del lavoratore. La riforma introduce infatti un'età pensionabile flessibile tra 57 e 65 anni, con un requisito contributivo minimo di 5 anni. Per garantire l'equità attuariale i coefficienti di trasformazione devono essere obbligatoriamente rivisti ogni 10 anni sulla base degli andamenti demografici ed economici.

• Pertanto nel nuovo sistema l'importo della pensione dipende:
a) dal valore del montante contributivo;
b) dall'età effettiva di pensionamento;
c) dalla dinamica economica;
d) dagli andamenti demografici.

• Ai fini dell'applicazione del metodo contributivo la legge individua tre gruppi di lavoratori in base all'anzianità contributiva maturata al 31 dicembre 1995:

l. contribuzione ≥ 18 anni. Non si applica il nuovo sistema contributivo; la pensione è ancora calcolata con il sistema retributivo secondo le regole previste dalla riforma Amato;

2. contribuzione < 18 anni. Si applica il sistema contributivo prorata. La pensione viene cioè calcolata con un sistema misto ed è costituita dalla somma di due parti: per gli anni contributivi precedenti al 1995 si applica il sistema retributivo come riformato nel 1992; per gli anni successivi al 1995 si applica il sistema contributivo;

3. nuovi entranti sul mercato del lavoro (dal 10 gennaio 1996). Si applica integralmente il sistema contributivo per tutti gli anni della carriera lavorativa.

• Il sistema contributivo incorpora incentivi impliciti al prolungamento dell'attività lavorativa [..]

• Per quanto concerne il legame tra contributi e prestazioni nel sistema contributivo vanno messi in evidenza due ulteriori aspetti. In primo luogo, l'esistenza di un massimale contributivo annuo — pari a 132 milioni di lire nel 1995 (68.172 euro, poi elevato fino 88.669 euro nel 2008) — oltre il quale non viene operato alcun prelievo sulla retribuzione. In secondo luogo, il fatto che le aliquote di finanziamento sono state generalmente fissate ad un livello inferiore rispetto alle aliquote di computo, cioè la quota di contributi che viene effettivamente contabilizzata per la definizione del montante contributivo e il calcolo delle prestazioni. Ciò è avvenuto in particolare per i lavoratori autonomi e parasubordinati, per i quali sono state previste aliquote di computo rispettivamente pari al 20 e al 18% a fronte di aliquote di finanziamento fissate nel 1995 al 15 e al 10% b.

Come si è detto l'innovazione essenziale della riforma Dini è il passaggio da uno schema retributivo a ripartizione ad uno schema contributivo a ripartizione. Con uno schema contributivo è più difficile giustificare e quindi operare la redistribuzione delle prestazioni poiché l'entità della contribuzine è chiaramente definita e non appare giustificato dal punto di vista dell'uguaglianza un trattamento diversificato. Senonché la Costituzione italiana - non Dini, Amato o Pinco Pallino - impone la progressività delle imposte. Se i contributi sono equivalenti ad imposte allora è obbligatoria la loro progressività. Nella legge 335/1995, invece, viene applicata una norma chiaramente regressiva: oltre i 132 milioni non viene operato alcun prelievo sulla retribuzione.

Effetti di transizione

Gli sforzi per allontanarsi da un sistema a ripartizione maturo sfidano la legge di gravità della politica

La transizione da un sistema pensionistico più ricco ad uno più povero comporta dei rischi politici. Per minimizzare questi rischi i policy-maker ed i governi hanno adottato strategie difensive diversificate.

Tra queste strategie, cosiddette di blame avoidance [Pierson, 1994; 1996] vi sono: a) l'aggregazione di un ampio consenso, attraverso un processo decisionale concertato con le parti sociali o con l'opposizione parlamentare; b) l'offuscamento degli effetti della riforma - ad esempio tramite complesse formule di calcolo delle prestazioni, ovvero con l'introduzione di meccanismi automatici di riduzione del livello delle pensioni nell'eventualità di dinamiche economiche/demografiche sfavorevoli. [..] c) la compensazione di alcuni attori o gruppi chiave [..] tramite esenzioni selettive. [..] tra gli attori chiave vi sono in molti casi i sindacati, e che per essi è spesso prioritaria la difesa dei cosiddetti insiders, rappresentati dai lavoratori più anziani e dai pensionati. È per tale ragione che il trasferimento dei costi sulle generazioni più giovani tramite meccanismi automatici è nel contempo una strategia di offuscamento e di compensazione. d) divide et impera, consiste nello sfruttare la divergenza d'interessi tra i potenziali oppositori delle riforme, mettendo i diversi attori l'uno contro l'altro e utilizzando il sostegno degli uni per imporre perdite agli altri.

Queste considerazioni ci portano ad immaginare un settore di policy come un'arena caratterizzata da un determinato assetto istituzionale, difeso da alcuni gruppi d'interesse, ai confini della quale si trovano tuttavia altri gruppi, che premono per avere voce nel policy-making e che spesso sono portatori di istanze e obiettivi radicalmente in contrasto con lo status quo. Nel settore pensionistico bisogna perciò mettere in evidenza che, se è vero che i sistemi pubblici pay-as-you-go sono difesi da potenti gruppi come i sindacati (e, ove esistono, dalle associazioni dei pensionati), lungo il perimetro dell'arena di policy si addensano altri attori — in particolare rappresentanti del settore finanziario-assicurativo — tradizionalmente esclusi dal policy-making previdenziale, che vedono ora nella convenienza relativa degli schemi a capitalizzazione una grande occasione per divenire protagonisti sulla scena pensionistica — nonché, in ultima istanza, per conseguire ingenti profitti.

Nella concertazione della riforma Dini i sindacati hanno barattato misure a favore dei propri iscritti attuali contro i lavoratori futuri, mettendo in questo modo a repentaglio il proprio stesso futuro.

Ancor più decisa è stata la tutela dei diritti acquisiti da parte della riforma Dini. Questa non ha infatti introdotto alcuna misura sottrattiva nei confronti dei pensionati [..] tuttavia la tutela dei lavoratori più anziani e dei pensionati non può certo definirsi un «pasto gratis», giacché ha scaricato sulle giovani generazioni — in particolare quelle entrate nel mercato del lavoro dopo il 1995 gran parte dei costi del riordino della previdenza e del risanamento della finanza pubblica, producendo in definitiva una frattura intergenerazionale. Da un lato, infatti, il mantenimento di un elevato livello di tutela pensionistica pubblica per gli attuali pensionati e i lavoratori più anziani ha richiesto un aumento delle aliquote contributive, dall'altro, l'applicazione integrale del metodo contributivo comporterà una drastica riduzione del valore delle pensioni per le coorti di lavoratori più giovani. In altre parole, i lavoratori entrati sul mercato del lavoro a partire dal 1996 pagano contributi più elevati per ottenere, in futuro, prestazioni pensionistiche molto meno generose che in passato [..] Sul piano dell'equità intragenerazionale, invece, l'applicazione del sistema contributivo alle sei gestioni pensionistiche principali consentirà, a regime, il definitivo superamento del trattamento privilegiato dei lavoratori autonomi che disporranno in futuro di pensioni meno generose a causa del livello inferiore della contribuzione nonché del vantaggio garantito dal precedente sistema retributivo ai lavoratori (generalmente a reddito più elevato) con consistenti aumenti retributisi negli ultimi anni di carriera.

Va detto che nella riforma svedese, attuata negli stessi anni, si è proceduto in modo molto diverso.

In Svezia la riforma del 1998 ha introdotto un sistema contributivo simile a quello adottato in Italia, prevedento l'implementazione sì graduale, ma senza soglie o salti tra le diverse coorti di lavoratori, semplicemente applicando pro rata il nuovo metodo a tutti i lavoratori.

Considerazioni politiche conclusive

Infine alcune considerazioni su problemi posti dalle riforme e, ad oggi, non ancora risolti.

La prima riguarda la potenziale problematicità del fatto che il metodo contributivo — non operando (di per sé) alcuna redistribuzione verticale, e cioè tra diverse fasce di reddito — rischia di condurre, in combinazione con la prevista riduzione dell'importo delle prestazioni, a pensioni troppo modeste per un numero consistente di lavoratori. Un tasso di sostituzione attorno al 50% potrebbe infatti garantire un adeguato tenore di vita ai lavoratori a reddito elevato, e al contempo non essere sufficiente ad assicurare un livello di vita dignitoso ai lavoratori a mediobasso reddito. Non è pertanto escluso che, accanto alle misure redistributive già introdotte dalle passate riforme (ad esempio i crediti contributivi), si debbano prevedere in futuro altri interventi per contrastare tale prospettiva.

Tende a riprodursi, sebbene in forma più sofisticata, anche la redistribuzione perversa (dalle fasce a reddito inferiore a quelle con reddito più elevato) prodotta dai sistemi retributivi che legano l'importo delle pensioni alle retribuzioni dell'ultima fase della vita lavorativa, che aveva caratterizzato il sistema pensionistico italiano dopo la riforma del 1969.

La seconda considerazione concerne, invece, le conseguenze dell'ampliamento — con il d.lgs. n. 47/2000 e il d.lgs. n. 252/2005 — delle agevolazioni fiscali per la previdenza complementare. Questi provvedimenti hanno infatti introdotto un regime di favore per quest'ultima rispetto sia al Tfr sia alla previdenza obbligatoria, con la previsione di una tassazione particolarmente favorevole sulle prestazioni. Inoltre, il nuovo regime fiscale delle prestazioni avrà un impatto significativo sia sul piano distributivo, accentuando «enormemente il vantaggio già concesso dal precedente regime ai contribuenti a reddito più elevato» [Giannini e Guerra 2006, 504] , sia sul fronte dei costi. Se infatti, come previsto, le adesioni alla previdenza complementare aumenteranno in modo considerevole, l'impatto di tali agevolazioni sulla finanza pubblica sarà tutt'altro che trascurabile. Alcune stime indicano che nei paesi dell'Ue il costo di tali sovvenzioni varia tra lo 0,5 e l' 1,5% del Pil; se anche in Italia dovessero raggiungersi cifre simili, una quota consistente della spesa pensionistica pubblica sarebbe di fatto mascherata sotto forma di mancate entrate nelle casse dello Stato.

L'aumento dell'età pensionabile è una soluzione credibile al livello troppo elevato di spesa pensionistica, in una società con disoccupazione a due cifre e tasso di occupazione inferiore alle medie europee? Oppure è solo un modo per scaricare sui singoli un problema sociale?

E proprio alla questione dei costi della previdenza è rivolta l'ultima considerazione. L'Italia presenta infatti, ancora oggi, un livello di spesa pensionistica tra i più elevati d'Europa e soprattutto destina alla tutela della vecchiaia oltre il 50% della spesa sociale. Quali interventi di contenimento della spesa previdenziale si possono ipotizzare al fine di agevolare quel processo di ricalibratura della spesa a favore di rischi e bisogni attualmente sottoprotetti? Per quanto detto in precedenza, è difficile immaginare ulteriori interventi sottrattivi sul livello delle pensioni pubbliche, mentre maggiori margini di manovra sembrano esservi rispetto all'età di uscita dal mercato del lavoro. L'età effettiva di pensionamento di circa 1 anno e mezzo inferiore alla media europea suggerisce infatti di individuare misure atte a posticipare il pensionamento, nonché di armonizzare l'età pensionabile per le donne (60 anni) con quella vigente per gli uomini (65).

Insomma, dopo questo lungo e complicato discorso l'impressione è che il decisore politico si sia complicato la vita con le sue mani...

la costruzione del sistema di previdenza complementare, favorita dalla mutata convenienza relativa di alcune soluzioni tecniche - come la capitalizzazione rispetto alla ripartizione - e dalla disponibilità di un formidabile cancello istituzionale quale il Tfr, ha permesso a nuovi attori - tradizionalmente ai margini del policy-making sulle pensioni — di fare il loro ingresso sulla scena previdenziale. A partire dal 1993 la sfera della politica pensionistica è divenuta via via più affollata, ed è di fatto emersa ciò che potremmo definire una nuova «sub-arena di policy», con specifici gruppi di pressione — principalmente le istituzioni finanziarie e le associazioni rappresentative del settore (Ania, Abi, Assogestioni, Assoprevidenza) — organi di controllo — in primis la Covip — «clientele sociali» — i circa 5 milioni di aderenti alle forme pensionistiche complementari, indirettamente rappresentati dai sindacati — nonché precipue dinamiche di conflitto e scambio politico. A questo proposito va sottolineato che, se per il momento le organizzazioni dei lavoratori e le associazioni datoriali continuano a detenere una posizione privilegiata nella politics previdenziale, la crescente influenza dei nuovi attori ha dimostrato di poter condizionare in modo sostanziale l'esito dei processi decisionali. Di fatto, la pressione esercitata da tali «nuovi» attori ha già condotto ad una sostanziale alterazione dell'impianto originario del sistema di previdenza complementare con un ruolo sempre più rilevante delle forme pensionistiche individuali di terzo pilastro. Ciò induce a ritenere che in futuro i giochi pensionistici non saranno più appannaggio di governo, partiti, sindacati e datori di lavoro, ma vedranno anche la partecipazione dei nuovi stakeholders. E, di conseguenza, è immaginabile che le dinamiche decisionali e di scambio politico saranno sempre meno riconducibili a forme di negoziazione — o concertazione tripartita, tendendo invece verso il modello della politica di pressione (pressure politics).

o, forse, il decisore politico si è venduto? Vi lascio con questo interrogativo senza risposta.

MP

Bibliografia

Matteo Jessoula
- La politica pensionistica, il Mulino, Bologna, 2009