Appunti per una
Teoria generale dei delitti e delle pene

Il ruolo della pena nell'ordinamento giuridico è determinante,
ma la giustificazione della pena non è mai stato compito dell'ordinamento giuridico.

Il reato come rischio sociale

Gli stessi fenomeni che hanno portato alla crisi della codificazione negli altri settori del diritto hanno investito anche l'area del diritto penale. L'espandersi delle funzioni dello Stato, la progressiva emersione di nuove aree di rapporti sociali ed economici, la complessità crescente della società e delle sue connessioni, la stessa globalizzanone, hanno fatto aumentare a dismisura i beni da proteggere e il ricorso alla sanzione penale. Non v'è ormai quasi più legislazione di settore che non contenga norme penali, che talora si aggiungono alle vecchie, si accavallano e si derogano, spesso senza più un criterio. L'inflazione legislativa, che oggi affligge tutte le democrazie industriali e in sommo grado la nostra, investe anche la legislazione penale, determinando una situazione nella quale non v'è davvero nessuno che possa dire di conoscere l'intero sistema delle norme penali vigenti. Il reato è diventato, in molti casi, un vero e proprio «rischio sociale», che il soggetto che intraprende determinate attività accetta di correre. Si è giunti al punto che la Corte costituzionale s'è vista costretta ad incrinare il fondamentale principio dello Stato moderno secondo cui l'ignoranza della legge penale non scusa, riconoscendo che in alcuni casi tale ignoranza è inevitabile e che quindi, in tali casi, essa non può non scusare (Corte cost. n. 364/1988). In alcune materie, solo pochi pubblici ministeri superspecializzati conoscono il dedalo di norme penali che le regolano. Lo strapotere del pubblico ministero, in questi casi, è evidente, soprattutto nei confronti della parte privata che non possa disporre di un altrettanto superspecializzato stuolo di consulenti e avvocati.

La morte come pena

Come dice Italo Mereu nel libro La morte come pena: a Tommaso spetta l'ingrato compito di fornire alla Chiesa, le ragioni per giustificare l'applicazione della pena di morte. La "trovata" dell'Aquinate consiste in un sintagma semplice e chiaro: il bene comune. Per tutelare e salvare il bene comune, il principe può uccidere i sudditi colpevoli e anche quelli innocenti superando il divieto posto dal comandamento evangelico non uccidere.

Tommaso nel Liber de Veritate Catholicae Fidei contra errores infidelium meglio nota come Summa contro i gentili dice:

Perché se uno concedesse che tutte le punizioni sono date per correggere ed emendare i costumi, e non per altri scopi, non sarebbe costretto per questo a sostenere che tutte le pene sono espiatrici e temporanee. Poiché anche secondo le leggi umane alcuni vengono puniti con la pena di morte, non già per l'emenda di loro stessi, ma per quella degli altri. Di qui le parole dei Proverbi, XIX, 25: " Se l'insolente viene flagellato, lo stolto si fa prudente". [Summa contro i gentili III, Cap. CXLIV.]

"Nel giudizio di Dio la volizione vale come il fatto compiuto" [ S. Agost. In Psal. , LVII, 7.] : poiché, "come gli uomini vedono quello che si fa di fuori, così Dio scruta i cuori degli uomini" [ I Re , XVI, 7.] [ Summa contro i gentili III, Cap. CXLIV.]

Coloro che peccano contro Dio devono essere puniti non solo con l'esclusione perpetua dalla beatitudine, ma anche con delle pene afflittive. Infatti:

2. Le colpe vengono punite con delle pene, per ritrarre gli uomini dal peccato col timore che le pene incutono, come sopra abbiamo visto. Nessuno però teme di perdere quello che non desidera raggiungere. Quindi coloro che hanno la volontà sviata dall'ultimo fine, non temono di essere esclusi da esso. Dunque costoro non possono essere distolti dal peccato dalla sola privazione dell'ultimo fine. Perciò bisogna infliggere ai peccatori anche un'altra punizione che sia da essi temuta.

Viene cosi confutata l'opinione di Algazel, il quale sosteneva [ Philosoph. , II, tr. 5, c. 5 ] che ai peccatori viene inflitta solo questa punizione, di soffrire la perdita dell'ultimo fine. [ Summa contro i gentili III, Cap. CXLV.]

Scrive san Tommaso :

Siccome alcuni disprezzano le punizioni inflitte da Dio, perché essendo dediti alle cose sensibili badano soltanto alle cose che si vedono, la divina provvidenza ha ordinato che ci siano sulla terra degli uomini i quali con pene sensibili e presenti, costringano costoro ad osservare la giustizia. Ora, è evidente che tali persone non peccano quando puniscono i malvagi. Infatti:

2. Gli uomini che in terra sono posti a comandare sugli altri sono come gli esecutori della provvidenza divina: poiché Dio, secondo il piano della sua provvidenza, governa gli esseri inferiori mediante quelli superiori.

4. Il bene comune è superiore al bene particolare di un individuo [ Ethic., I, c. 2, n. 8 ]. Quindi è giusto eliminare un bene particolare, per conservare il bene comune. Ma la vita di certi uomini malvagi impedisce il bene comune, che è l'ordine nella società umana. Dunque codesti uomini è giusto che siano uccisi.

5. Come il medico ha di mira la salute, che consiste nel giusto equilibrio degli umori, così il principe ha di mira la pace, che consiste nell'ordinata concordia dei cittadini. Ora se l'infezione minaccia tutto il corpo, il medico taglia a buon diritto e utilmente la parte malata; allo stesso modo il Principe, giustamente e senza peccare, mette a morte i delinquenti, nel timore che la pace sociale sia turbata. [...]

Viene così confutato l'errore di certuni i quali negano che sia lecito infliggere delle pene corporali. [questa tesi era sostenuta a quanto sembra, da Pietro Valdo e dai suoi seguaci. Papa Innocenzo III nel 1208 aveva imposto a Durando di Osca e ai suoi compagni, che intendevano abiurare codesta setta, l'esplicita dichiarazione di ammettere nel potere civile l'autorità di reprimere la delinquenza anche con la pena di morte ] Costoro a sostegno della loro tesi adducono il testo dell'Esodo (XX, 13) " Non ammazzare" Testo che viene riferito anche dal Vangelo (Matt., V, 21). Inoltre adducono anche un altro passo evangelico (Matt., XIII, 30) in cui il Signore ai servitori che volevano togliere la zizzania di mezzo al grano rispose: " Lasciate che crescano entrambi fino a mietitura". Ora la zizzania sta a indicare "i figli del maligno", e la mietitura sta a indicare la "fine del mondo" come è detto poco dopo. Dunque i malvagi non devono essere eliminati di mezzo ai buoni con l'uccisione. . [Tommaso D'Acquino Summa contro i gentili , libro III, cap. 146. ]

Nessuno pecca per il fatto che si serve di un essere per lo scopo per cui è stato creato. Ora, nella gerarchia degli esseri viventi, quelli meno perfetti sono stati fatti per quelli più perfetti; del resto anche nell'ordine genetico si procede dal meno perfetto al più perfetto. Perciò se l'uomo si serve delle piante per gli animali, e degli animali per gli uomini, non c'è niente di illecito come il filosofo stesso dimostra. E il più necessario dei servizi è appunto quello di dare le piante cibo agli animali, e gli animali all'uomo: il che è impossibile senza distriggere la vita. [ Tommaso D'Aquino Somma teologica , IIa - IIae, q. 64 Salani, Firenze, 1966 ]

In base a tutto quello che abbiamo detto, è lecito uccidere gli animali bruti in quanto essi sono ordinati per natura all'utilità dell'uomo, come le cose meno perfette sono ordinate a quelle più perfette. Ora, qualsiasi parte è ordinata al tutto. Ecco perché se lo esige la salute di tutto il corpo, si ricorre lodevolmente e salutarmente al taglio di un membro putrido e cancrenoso. Ebbene, ciascun individuo sta a tutta la comunità come una parte sta al tutto. E quindi, se un uomo con i suoi peccati è pericoloso e disgregativo per la collettività, è cosa lodevole e salutare sopprimerlo, per la conservazione del bene comune. Infatti come dice San Paolo, un pò di fermento può corrompere tutto il grano. [ Tommaso D'Aquino Somma teologica , IIa - IIae, q. 64 Salani, Firenze, 1966 ]

Sebbene uccidere un uomo che rispetta la propria dignità sia cosa essenzialmente peccaminosa, uccidere un uomo che pecca può essere un bene, come uccidere una bestia. Infatti un uomo cattivo, come insiste a dire il filosofo, è peggiore e più nocivo di una bestia. [ Tommaso D'Aquino Somma teologica , IIa - IIae, q. 64 Salani, Firenze, 1966 ]

Una bestia differisce dall'uomo per natura. E quindi non richiede nessun giudizio per ucciderla, se è selvatica. Se invece è una bestia domestica, si va incontro a un giudizio, non per l'animale in se stesso, ma per il danno arrecato al suo padrone. Il colpevole invece non differisce in natura dagli uomini onesti. E quindi richiede un processo per decidere se è degno di essere ucciso per il bene della società. [ Tommaso D'Aquino Somma teologica , IIa - IIae, q. 64 Salani, Firenze, 1966 ]

Ma la titolarità dell'azione penale, cioè l'autorità di dire, chi ? come, quando, e perché un uomo deve essere ucciso spetta solo al principe:
Come abbiamo dimostrato, è lecito uccidere un malfattore in quanto la sua uccisione è ordinata alla salvezza di tutta la collettività. Essa spetta perciò soltanto a colui al quale è affidata la cura di tutto l'organismo: procedere al taglio di un membro putrido.
[ Tommaso D'Aquino, Somma teologica , IIa - IIae, q. 64 Salani, Firenze, 1966 ]

Il principe diventa il "vicario di Dio" ( vicem Dei) l'unico a cui spetta il diritto di vita o di morte, e il divieto divino non uccidere viene stravolto e trasformato nell'arbitrio del principe, mero esecutore della volontà divina.

Ma se l'autorità dello jus gladii spetta al principe, ne consegue immediatamente l'irresponsabilità degli esecutori. Come nota Dionigi d'Alicarnasso il vero responsabile è colui sotto la cui autorità l'azione viene fatta. E quindi più ancora, se il carnefice non fa che eseguire la sentenza del giudice; il giudice non fa che mettere in atto la legge voluta dal principe; e il principe non fa che obbedire ad un mandato divino, chi se non Dio è il responsabile dell'uccisione ? E' questa la conclusione logica a cui perviene il sillogismo di Tommaso.

Perciò coloro che uccisero i parenti e gli amici per comando di Dio non sono da considerarsi loro come gli autori del fatto, ma piuttosto colui del quale rispettano l'autorità allo stesso modo che il soldato che uccide un nemico per l'autorità del principe, o il boia che uccide il brigante per l'autorità del giudice. [Tommaso D'Aquino Somma teologica , IIa - IIae, q. 64 Salani, Firenze, 1966]

E' forse questa logica ineluttabile che trascina nella polvere la divinità, mantenendola in apparentemente sull'altare, che fa prostrare dinnanzi all'Aquinate intere generazioni di preti e di adoratori della ragione come Lacan ?

La pena di morte:

  • come retribuzione sociale (Kant, Hegel)
  • come risarcimento della vittima
  • come prevenzione (Tommaso, Hobbes, Locke, Bentham)
  • come strumento di dominazione (Foucault, Derrida, Agamben)
  • è contro la dignità umana (Soloviev)
  • è inutile (Beccaria)

Sulla crisi dell'ideale riabilitativo della pena. Ciò che sfugge al legislatore è spesso la coerenza della pena con il reato

C'è un solo delitto per il quale sia comunque giustificata la pena capitale: l'omicidio volontario, perché chi ha ucciso volontariamente ha deciso che la morte per mano di un altro uomo è giustificata. L'omicidio volontario non può avere come corrispettivo giuridico che la morte, con un solo limite, se la vittima rinunzia preventivamente alla morte come risarcimento.

Il carcere, in quanto pura e semplice privazione della libertà, è una sanzione priva di senso.

Penso sia opinione sempre più diffusa e condivisibile che il carcere come unica modalità di pena, graduato secondo la gravità del delitto e secondo l'oscillante opinione del Legislatore non possa più essere considerato l'unica soluzione possibile al problema criminale.

La berlina non può essere considerata una pena corporale, è una pena psicologica che comprende la riprovazione della comunità, unita all'umiliazione e alla degradazione sociale (economica)

Pericolosità sociale. Un groviglio medico - giuridico

Perché punire

Una pena alternativa non caduta del tutto in disuso è la pena di morte [..] [Mathieu, 2007, p. 251]

Non si deve confondere [..] se sia lecita la pena di morte e se sia lecito dare la morte. La risposta negativa al secondo non autorizzerebbe a rispondere negativamente al primo, perché l'argomento proverebbe troppo: qualunque sia il contenuto della pena, infatti, sempre sarebbe illecito infliggerlo, se non vi si fosse costretti, appunto, dal dovere di punire. È forse lecito sequestrare una persona, chiudere per un anno un uomo in una stanza? Certamente no; ma questo non è un argomento contro la prigione. [Mathieu, 2007, p. 251]

Supposto dunque che abbia senso punire, la questione da porre non è se la prigione sia "lecita" e la morte no, ma se in certi casi di abbia il dovere di imprigionare, in altri di dare la morte: ovvero, se questa pena piuttosto che un'altra sia richiesta dalla giustizia. [Mathieu, 2007, p. 252]

Ci si può domandare se le controindicazioni alla pena di morte siano così gravi da sconsigliare di sceglierla [..] Ma, a questo punto, la risposta è no: se la scelta della pena è in qualche modo arbitraria, e quindi va vista in funzione degli effetti concomitanti e soprattutto del più impressionante fra essi, che è la rieducazione soggettiva del reo, si deve concludere che in certi casi la pena di morte è la più indicata; e forse, paradossalmente, la sola. [Mathieu, 2007, p. 255]

Su questa linea, seguendo sino in fondo il ragionamento del Mathieu, chi tenesse al valore della persona, a prescindere dalla sua utilità potrebbe persuardersi (o essere persuaso) di potersi convertire e redimere solo attraverso la morte inflittagli come pena. Infatti il criminale che acquisisse la coscienza di sé:

come potrebbe desiderare di conservarsi corrotto, solo per ritardare di qualche tempo quell'esito inevitabile che è il morire? [Mathieu, 2007, p. ]

Se la pena di morte è assurda in una concezione utilitaristica della vita, come quella di Beccaria, non lo è per chi ponga nella persona intesa come valore il fine della vita.

All'obiezione posta dagli abolizionisti che la pena di morte può venire usata dal tiranno per disfarsi dei nemici politici

il tiranno non si sente legato alle istituzioni del periodo precedente: anche se abbiano abolito la pena di morte, salito al potere lui la ripristinerà. È vero che, di solito, finché non è al potere il potenziale tiranno si morta fortemente contrario alla pena di morte [..] Se ci sono persone da cui dobbiamo temere che ci sia inflitta la pena di morte, è soprattutto a sproposito, queste sono appunto quelle che, in linea di principio, si dimostrano più contrarie alla pena di morte: come Robespierre. [Mathieu, 2007, p. 271]

Proporzionalità della pena

Le pene pecuniarie [..] fan sorgere il problema di commisurarle non solo alla gravità del reato, ma alla capacità finanziaria del colpevole (tenuto conto del noto teorema dell'utilità marginale decrescente che ha il denaro, col crescere della ricchezza. [p. 249]

Se il legislatore non fissasse un minimo e un massimo dell'ammenda, certi giudici applicherebbero le ammenda secondo una giustizia di classe, o secondo una discriminazione tra buoni e cattivi che passa attraverso l'adesione a determinate ideologie.

Ma c'è un altro problema: il giudice non sarebbe in grado di stabilire la reale ricchezza degli imputati

il possesso della ricchezza, oggi, è per lo più clandestino, perché reputato antisociale, e il giudice non potrebbe che valutarlo ad arbitrio.

Le conclusioni di Mathieu sono che la proporzionalità della pena pecuniaria non può avere che applicazione marginale limitata (p. 250)

Quando è stato attribuito a qualcuno, attraverso prove definitive, il più grande crimine conosciuto dalla legge, e quando le circostanze connesse non propongono alcuna mitigazione della colpa, nessuna speranza che il colpevole possa comunque ancora non essere indegno di vivere in mezzo all’umanità, e nulla renda probabile che il crimine fosse un’eccezione al suo carattere piuttosto che una conseguenza di esso, allora confesso che mi pare che privare il criminale della vita di cui si è dimostrato essere indegno – solennemente cancellarlo dall’associazione umana e dall’elenco dei viventi – è il più appropriato, come è certamente il più impressionante modo in cui la società può attribuire a un così grande crimine le conseguenze penali che, per la sicurezza della vita, è indispensabile annettere ad esso. [...] Non c’è, credo, alcuna inflizione [punizione] umana che garantisca un’impressione sull’immaginazione così completamente fuor di proporzione rispetto alla sua reale severità come la pena di morte. [...] Molto è stato detto sulla santità della vita umana e sull’assurdità del supporre che possiamo insegnare il rispetto per la vita distruggendola noi stessi. Ma io sono sorpreso per l’impiego di questo argomento, perché potrebbe essere portato contro qualunque altra pena. Non è solo la vita umana, non la vita umana come tale, che dovrebbe essere venerata da parte nostra, ma i sentimenti umani. L’umana capacità di soffrire è ciò che noi dovremmo far rispettare, non la mera [pura e semplice] capacità di esistere. [...] C’è un solo argomento contro la pena di morte anche per i casi estremi al quale non posso negare importanza [...]. È questo: che se per un errore giudiziario una persona innocente è messa a morte l’errore non potrà mai essere corretto; ogni compensazione, ogni ammenda dell’errore è impossibile.

La giustizia e le ingiustizie

Il libro postumo di Federico Stella La giustizia e le ingiustizie non si occupa, a dispetto del titolo, della giustizia e delle ingiustizie ordinarie, quelle individuali di tutti i giorni, bensì del male collettivo che colpisce gli individui che agiscono sotto il comando di un'autorità reale o immaginaria.

Dopo aver percorso e interrogato sia i luoghi topici della follia collettiva sia le principali correnti teorizzazioni della giustizia Stella si ferma sull'operato di due giudici l'israeliano Aharon Barak e l'americano William Brennan da cui trae esempio per queste conclusioni:

Per la prima volta nel corso di queste riflessioni, ci siamo imbattuti in quella che possiamo definire, a buon diritto, la vera idea di giustizia: Barak, ma anche Brennan, ci insegnano che non serve a nulla l'intervento retrospettivo perché, quando un diritto umano è stato violato, nulla al mondo può far sì che la violazione non sia avvenuta; nulla al mondo può rendere possibile una riparazione del torto subito, dei patimenti sofferti. Per far sì che la giustizia basata sui diritti diventi una realtà vissuta e attesa per l'avvenire, è indispensabile che prenda vita la garanzia dell'intervento giudiziario o della comunità internazionale, capace di impedire che il torto si consumi e che i diritti vengano violati.

è un libro dal quale si esce con l'idea che la giustizia non esista e che non possa esistere.

Fra i diritti fondamentali dell'essere umano ne esiste uno, fra tutti forse il più importante per le conseguenze che determina sulla vita delle persone, che nessuno menziona mai: il diritto di scegliere la legislazione alla quale essere soggetti.

L'idea di questo diritto è presente in nuce sia nella concezione della giustizia come equità di Rawls, che nell'utopia sociale immaginata da Nozick e ne rappresenta il tratto d'unione, forse l'unico argomento in comune fra due mondi assolutamente diversi e incompatibili fra loro.

Non è il male (o la sua personificazione, il diavolo) la causa delle azioni malvage, ma è qualcosa che ha a che fare con la stupidità e l'autorità insieme. Di fronte all'autorità l'uomo tende a diventare stupido. NB non ho detto solo l'uomo che subisce l'autorità, ma anche, e forse soprattutto, colui che la esercita.

Israele è l'esempio di come anche in un regime democratico il rispetto delle leggi democratiche non sia sufficiente per non provocare esclusione, segregazione, risentimento in persone sostanzialmente innocenti come i bambini.

Il carcere, unificando la sanzione, livella, di fatto, la pena per i reati più diversi; il ché sembra obbedire ad una logica irragionevole.

L'omicidio volontario non può che avere una sola ed unica sanzione possibile: la morte. Con una sola eccezione, se si verificano contemporaneamente due condizioni: l'assassino e la vittima abbiano scelto in precedenza una legislazione che non prevede la pena di morte.

Ci sono situazioni - come quella di Breivik - in cui l'impossibilità giuridica di erogare la pena capitale lascia francamente sconcertati.

Un tribunale di Oslo ha stabilito che i diritti umani di Anders Behring Breivik sono stati violati in carcere. Breivik è l'autore della strage di Utoya, il 22 luglio del 2011, quando uccise 77 persone. Il tribunale ha sentenziato che sta subendo "trattamenti disumani e degradanti" in quanto viene mantenuto in isolamento totale da circa cinque anni. Come si legge nella dichiarazione del tribunale, la Corte "è giunta alla conclusione che il regime carcerario implica un trattamento disumano di Breivik".

Anders Behring Breivik

In una decisione scritta, la giudice monocratica Helen Andenaes Sekulic

Non ha vinto. I giudici hanno riconosciuto come «disumano» il trattamento in carcere di Anders Behring Breivik. Ma al killer di Utoya, che dopo cinque anni di isolamento accusa lo Stato norvegese di volerlo «uccidere» condannandolo alla solitudine e ai mal di testa in una cella fornita di PlayStation e tv, è sfuggito il dato essenziale. La sua stessa accusa si fonda sul principio dell’inviolabilità dei diritti umani e della dignità della vita. Quella dignità che Breivik calpestò uccidendo nel luglio 2011 otto persone con un’autobomba nel centro di Oslo e altre 69 sull’isola del campo estivo della Gioventù laburista. Infine, è a quella sacralità che Breivik si aggrappa per non soccombere allo spregio e alla nullificazione di sé. Sopravvissuti e familiari delle vittime — dei ragazzi inseguiti nel bosco sul fiordo e freddati con un colpo alla testa — rispondono con incredulo dolore ma anche con la consapevolezza che lo Stato di diritto che ha messo la legge al di sopra della forza e della vendetta ha le sue vie, le sue regole, forza sufficiente ad ascoltare le parole di un massacratore per non esiliarlo ma tenerlo dentro la cornice della legalità, con fermezza massima. Questo resterà di Breivik. Non i deliranti proclami contro il multiculturalismo dell’Occidente e la minaccia dell’islamizzazione forzata. Non il processo giudiziario trasformato in tribuna politica per esaltare il nazionalsocialismo con tanto di braccio destro alzato e testa rasata. Ma la debolezza, la paura vile, la resa. 20 aprile 2016 (modifica il 20 aprile 2016 | 18:11)

Quando il crimine è troppo grande e indifferenziato c'è l'impulso a considerare la punizione insufficiente a lenire il dolore generale e quindi cercare nel perdono il conforto che non si può ottenere dall'espiazione. è un sentimento naturale, che proviamo tutti, e che ci dà soddisfazione in soprattutto quanto non siamo direttamente coinvolti nei fatti. In questo modo ci sentiamo buoni, estranei al male che ci ha colpito.

Se Breivik fosse stato ucciso durante la sua azione da un poliziotto incontato sulla sua strada, nessuno l'avrebbe potuto accusare di nulla, anche se aveva ucciso un uomo, anzi si sarebbe detto che aveva compiuto il suo dovere salvando altre vite umane. Che cosa ha impedito allora che Breivik fosse giustiziato dopo una sentenza emessa da un giudice? Che cosa rende diversi i due atti. è pur sempre possibile che dopo 21 anni, uscendo di prigione, Breivik compia altri omicidi. E cosa si dirà in quel caso?

Pio XII difese una concezione vendicativa della pena e giustificò la pena di morte (Acta Apostolicae Sedis 47, 1955)

L'eccezione americana

Il dibattito sulla legittimità della pena di morte ha trovato nuovi argomenti di discussione. Questo mi sembra essere, in estrema sintesi, il risultato dell'accurata analisi condotta da Franklin Zimring sull'evoluzione del sistema penale degli Stati Uniti negli ultimi decenni.

Dopo che, per gran parte dell'epoca moderna gli orientamenti della politica del diritto statunitense non sono stati in contrasto con la spinta abolizionista degli altri paesi sviluppati (p. 26) e dopo una moratoria delle esecuzioni estesa a livello federale dal 1967 al 1976, con alcune decisioni della Corte Suprema e del Congresso si ha un deciso mutamento nell'orientamento della politica punitiva americana.

Secondo Franklin Zimring i sostenitori della pena di morte ne avrebbero pianificato, insieme alla reintroduzione, una trasformazione simbolica: oggi la pena di morte non sarebbe più da considerarsi come manifestazione del potere, ma sarebbe un atto che il governo compie nell'interesse delle vittime e della comunità.

Si può quindi affermare che, fra i paesi occidentali, gli Stati Uniti fanno eccezione, non solo nell'applicazione della pena di morte, ma più in generale nella gestione della criminalità e della giustizia. Poiché, come ho già sottolineato altre volte, gli Stati Uniti sono davanti a noi la cosa ci riguarda.

Non appare scontata la sua abolizione nei principali paesi dove è attualmente in vigore, Cina e Stati Uniti in primis, ed è possibile che venga reintrodotta in altri paesi dove è stata abolita. Essa rimane in vigore in tutti i paesi in cui ha una funzione sociale [cf. Tommaso] mentre tende ad essere abolita dove mantiene solo una funzione risarcitoria. Lo Stato in questi casi non ha nessun interesse a punire con la pena di morte dei reati dove la vittima, che non può più esprimersi, è il solo soggetto che abbia diritto di decidere se l'omicida debba o non debba subire la morte come pena.

Dal 1967 al 1976 vi fu una moratoria nell'applicazione della pena di morte. Nel 1972 la Corte Suprema (Furman Vs Georgia) la dichiarò, nel modo in cui veniva applicata, incostituzionale: poiché 8° emendamento proibisce le pene crudeli e inusuali. In seguito alla sentenza della Corte molti stati avevano approvato leggi che indicavano criteri oggettivi ai quali il giudice doveva attenersi rendendo il giudizio meno arbitrario. Anche in seguito a ciò nel 1976 la Corte Suprema (Gregg Vs Georgia) si pronunciò in modo diverso.

Si può affermare che essere a favore della pena di morte significa accettare di essere giustiziato oltre che desiderare che il nostro assassino riceva come punizione la morte.

Per gran parte dell'epoca moderna gli orientamenti della politica del diritto statunitense non sono stati in contrasto con la spinta abolizionista degli altri paesi sviluppati. [..] Tra il 1950 e il 1965 le esecuzioni diminuiscono in maniera costante, passando da più di 100 a meno di 10 all'anno. Nel 1967 le Corti federali vietano le esecuzioni per poter definire una serie di questioni concernenti i principi e le procedure relativi alla pena di morte. La moratoria delle esecuzioni durerà un decennio. Durante gli anni Settanta, precisamente nel 1972, la Corte Suprema degli Stati Uniti muove i primi passi verso l'abolizione giudiziale della pena capitale (quando la sentenza Furman v. Georgia dichiara l'incostituzionalità di tutte le leggi in materia di pena di morte allora in vigore), ma poi si tira indietro e consente agli Stati, attraverso una serie di decisioni emanate nel 1976 (Gregg v. Georgia, Roberts v. Louisiana, Proffitt v. Florida e Furek v. Texas), di applicare regimi di regolamentazione della pena di morte più rigorosi. Tutti i tratti distintivi della politica americana sulla pena capitale [..] hanno alla base i cambiamenti intervenuti a partire dalle decisioni della Corte Suprema del 1976.

Ma bisogna distinguere geograficamente

l'aggregazione in un totale unitario del numero delle esecuzioni avvenute negli Stati Uniti cela le enormi variazioni tra regioni e tra singoli Stati [..] Dodici dei cinquanta Stati dell'Unione non contemplano la pena capitale nelle loro leggi penali e molti altri Stati non hanno mai eseguito condanne a morte. [..] non esiste un «modello americano»

Nel 1972 nel caso Furman v. Georgia, la Corte Suprema ha sancito innanzitutto l'incostituzionalità delle leggi statali che, per determinati delitti, delegavano alla giuria la scelta tra pena detentiva e pena di morte senza offrire precise linee guida, ritenendo queste leggi in contrasto con il divieto di pene crudeli e inusuali stabilitò nell'VIII emendamento. Quattro anni dopo, la Corte Suprema ha sancito altresì l'incostituzionalità delle norme che prevedevano obbligatoriamente la pena di morte per determinate fattispecie di omicidio (Roberts v. Louisiana; Woodson v. North Carolina) Nei casi Gregg v. Georgia, Proffitt v. Florida e Furek v. Texas tuttavia la Corte ha valutato come criteri idonei a orientare in concreto i giurati nella scelta tra la vita e la morte dell'imputato, le leggi che imponevano alla giuria di bilanciare le eventuali circostanze attenuanti con una serie di fattori aggravanti l'omicidio. [..] Il risultato di questa tendenza verso una discrezionalità fu, negli anni Settante e Ottanta, un insieme eterogeneo di sentenze [..] in cui si affermavano principi talvolta chiari e talvolta decisamente vaghi.

che, di fatto, affindando alle Corti federali l'autorità competente per decidere circostanze, criteri e procedure, reintroduceva la pena capitale

Questo libro costituisce il tentativo di dare una risposta a quattro domande sulla natura della politica americana in materia di pena di morte:

  • Perché gli Stati Uniti hanno reintrodotto la pena di morte dopo il 1976, quando la tendenza in atto nella maggior parte dei paesi sviluppati era quella di procedere alla sua abolizione [..]?
  • Quali sono le ragioni della situazione peculiare della pena di morte negli Stati Uniti?
  • Perché durante gli anni Novanta e all'inizio del XXI secolo i conflitti sulla pena capitale negli Stati Uniti si sono intensificati anziché diminuire?
  • In che modo, nel prossimi futuro degli Stati Uniti, si potranno risolvere i conflitti sulla pena di morte?

Penso che negli Stati Uniti oggi sia in atto una «degovernamentalizzazione» dell'immagine della pena di morte e delle esecuzioni, ovverosia un tentativo di (ri)considerare le esecuzioni capitali come un servizio offerto dal governo ai parenti delle vittime di reato, piuttosto che come una manifestazione del potere dello Stato. Ciò fornirebbe la prova decisiva, sebbene indiretta, di come il consenso del publico alla pena di morte possa mantenersi inalterato anche in un contesto politico di sfiducia nei confronti del potere statuale.

L'America accetta le sentenze capitali, in quanto le percepisce come una risposta a interessi privati, più che come un fatto politico.

C'è una curiosa simmetria nei profili simbolici della pena di morte in Europa e negli Stati Uniti. Mentre l'idea americana di pena di morte manca del tutto della dimensione politica prevalente in Europa e nel Commonwealth, la concezione europea degli aspetti significativi della pena capitale non coinvolge nessuna delle molteplici implicazioni di carattere personale, relative alle vittime di omicidio e alle loro famiglie che compaiono in America nei processi per pena caitale e che, con l'avvicinarsi della data dell'esecuzione, vengono poste al centro dell'attenzione dell'opinione publica.

la carica simbolica legata all'immagine americana della pena di morte, come servizio personale a favore delle vittime, rappresenta uno dei maggiori cambiamenti subiti, nel corso del tempo, dal contenuto simbolico della pena capitale negli Stati Uniti.

L'attenzione per gli interessi privati. Il maggior cambiamento occorso negli Stati Uniti negli ultimi dieci anni del XX secolo in merito alle finalità dichiarate della pena di morte, è stata la trasformazione dei processi per pena capitale e delle esecuzioni in operazioni concepite per soddisfare i bisogni personali dei parenti delle vittime. [..] La novità costituita dall'enfasi si questi aspetti (privati) della pena di morte, dopo il 1977, è un dato di assoluto rilievo.

La forma e le funzioni delle victim impact submission.

La Corte Suprema ha stabilito alcune regole costituzionali che rendono la penalty phase di un processo capitale moderno una scelta assolutamente aperta e discrezionale tra la detenzione a vita e la morte, scelta da attuarsi dopo che si è stabilita la colpevolezza dell'imputato per un delitto punibile con la pena di morte. La prima regola [..] venne sancita nel processo Woodson v. North Carolina nel 1976, quando la Corte stabilì che gli Stati non possono creare fattispecie penali punite esclusivamente con la pena capitale [..] Una seconda regola, stabilita nel caso Lockett v. Ohio, ha attribuito all'imputato di un processo per pena capitale il diritto di presentare prove e memorie virtualmente relative a qualsiasi aspetto della sua esistenza che potrebbe rivelarsi importante nella scelta tra la vita e la morte.

Conseguenza della prassi istituita dalla sentenza Lockett v. Ohio è stato il riconoscimento di un analogo diritto alle vittime e ai loro congiunti a presentare informazioni e documentazioni circa la natura e il grado del danno patito sia dalla vittima che dai suoi congiunti.

[in alcuni casi] il materiale relativo all'impatto del crimine sulla vittima diviene un elemento centrale della penalty phase, il criterio base che la legge offre per effettuare la scelta fra il carcere a vita o la morte.
La carica evocativa di questo victim impact presentation è di importanza straordinaria nella trasformazione dell'idea della pena di morte negli Stati Uniti.

la penalty phase è ora presentata come una competizione tra interessi di due parti private.

Dalla vendetta alla closure

Dalla vendetta alla closure: i simboli privati dell'esecuzione capitale. L'epoca delle esecuzioni pubbliche negli Stati Uniti si è conclusa nel 1936 ed è definitivamente tramontata l'idea che dallo spettacolo della morte di un condannato mediante impiccagione, sedia elettrica, gas o iniezione letale possa derivare un beneficio sociale ai cittadini che vi assistono. [..] Molti Stati riconoscono per legge il diritto dei parenti delle vittime di assistere all'esecuzione, ma il significato di questo tipo di partecipazione non è facile da comprendere.

Dopo in 1989 è stato diffuso dai media nel dibattito non ufficiale slla pena di morte il termine closure per indicare l'obiettivo più importante della pena di morte.

L'accezione psicologica di esecuzione come closure non corrisponde al primo significato attribuito dal dizionario a questo termine, ossia quello di fine dell'operazione, ma piuttosto corrisponde all'ulteriore definizione di closure offerta dal Cambridge Dictionary of American English: il sentimento di soddisfazione derivante dalla definitiva conclusione di un'esperienza brutta o scioccante.

L'impiego del termine closure nel dibattito sulla pena capitale rappresenta quanto di più vicino a un'utilizzazione meramente simbolica sia dato rintracciare nella storia moderna degli Stati Uniti. Non è intervenuto alcun cambiamento nei procedimenti penali (come si è avuto, invece, con l'introduzione del victim impact presentations), né nelle modalità esecutive delle condanne a morte (come si è invece verificato con l'introduzione delle iniezioni letali), ma solo un cambiamento nel linguaggio utilizzato per descrivere i benefici che si pensa possano derivare dall'esecuzione ai parenti delle vittime. L'evoluzione dell'influenza del termine closure è un esempio del potere che i soli cambiamenti nel linguaggio possono esercitare sull'immagine di una pena e sugli atteggiamenti del publico nei confronti della sua applicazione concreta.

Questa trasformazione delle esecuzioni capitali in un programma a favore delle vittime assolve tre compiti importanti. Innanzitutto riconosce al terribile processo di esecuzione di un uomo un effetto positivo nel quale molti cittadini possono identificarsi: closure non vendetta. Secondariamente, questa privatizzazione della funzione ultima della pena di morte comporta che i cittadini non debbano temere le esecuzioni come abusi del potere da parte del governo. Quando la closure diventa lo scopo principale delle iniezioni letali, l'esecuzione dei criminali diventa un altro servizio publico, al pari della pulizia delle strade o della nettezza urbana, nell'ambito del quale è il governo a porsi al servizio della comunità e non viceversa. La terza funzione della trasformazione delle esecuzioni in un atto al servizio delle vittime è data dal fatto che essa collega il simbolismo delle esecuzioni a una lunga tradizione americana di controllo sulle sanzioni penali della comunità. Gli Stati Uniti non si sono allontanati poi tanto dall'epoca delle punizioni dei vigilantes, e la nostalgia verso molti dei simboli e delle opinioni legati alla pena come un affare di competenza della comunità, e non del governo, è piuttosto forte in molte zone dell'America contemporanea.

Secondo Zimring le trasformazioni sono l'effetto dell'azione consapevole di una lobby

L'immagine publica della pena di morte è andata trasformandosi rapidamente negli Stati Uniti dalla metà degli anni Settanta, in forza dell'impegno dei suoi sostenitori volto a rendere le esecuzioni accettabili dai più.

è principalmente la trasformazione della pena di morte da problema di politica criminale a questione di limiti costituzionali al potere dei governi avvenuta in Europa centrale che non permette l'avvio di un dibattito serio in ambito politico sulla reintroduzione della pena capitale. Indubbiamente, la paura del crimine è un tema importante nell'Europa contemporanea, ed è chiaro che le tendenze politiche siano quelle di favorire l'utilizzo della pena come strumento di controllo sociale [vedi Garland, The Culture of Control, 2001, p. 9-10] Ma la pena capitale non rientra più nelle opzioni possibili della politica criminale europea: la pena di morte, ormai, non è più considerata una questione politico-criminale.

Il governo della paura

La tesi principale sostenuta nel libro di Jonathan Simon è che l'élite americana "governa attraverso la criminalità". Negli Stati Uniti la minaccia, reale o presunta, rappresentata dalla criminalità, è diventata a partire dagli anni settanta uno strumento per dare forma alla governance politica, che ha delle ricadute negative sulla democrazia.

Il governo attraverso la criminalità rende l'America meno democratica e più polarizzata dal punto di vista razziale [..] alimenta una cultura della paura e del controllo che, inevitabilmente, abbassa la soglia della paura nel momento in cui sottopone i cittadini americani a una pressione sempre più forte.

Il libro si propone di dare una dimostrazione descrittiva di questa tesi, attraverso un'estesa esemplificazione, sostanzialmente di tipo sociologico. Il limite di questo modo di procedere è, per il lettore medio, la difficoltà nella valutazione dei dati e quindi l'impossibilità di una lettura critica. Tutto ha inizio, dice Simon, con Barry Goldwater:

Nel 1964 il repubblicano Barry Goldwater individuava il tema principale della propria campagna elettorale nell'allarme per l'aumento dell "criminalità di strada". Il democratico Lyndon Johnson sconfisse Goldwater facilmente, ma non esitò a dichiarare la "guerra alla criminalità" come parte integrante della Great Society.

Da allora tutte le campagne per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti hanno avuto la "guerra alla criminalità" tra i temi dominanti del dibattito politico. Il prevalere, a partire dagli anni settanta, di una linea politica conservatrice nel paese si è riflesso, naturalmente, anche sulla composizione e quindi sulle decisioni della Corte suprema.

Il teorico del diritto Louis Bilionis ha recentemente ipotizzato che le strategie adottate dalla Corte presieduta da Rehnquist per neutralizzare le decisioni di matrice liberal adottate negli anni Sessanta in materia di procedura penale abbiano fornito un modello per l'inversione della giurisprudenza liberal in genere, e per l'avvento di una nuova giurisprudenza conservatrice in ambiti quali la disciplina antidiscriminazione, la legislazione ambientale e il federalismo. Secondo Bilionis, tra gli elementi chiave di tale giurisprudenza figurano [..] un pacchetto predeterminato di opzioni conservatrici in materia di politica criminale [..] una strategia consistente nell'individuare un nucleo ristretto di diritti di derivazione liberal per l'imputato, ridimensionando nel contempo gli stessi diritti negli elementi che si presumono secondari.

Il nucleo dell'argomentazione di Simon mi sembra essere l'idea che di fronte alla minaccia rappresentata dalla questione sociale l'élite politica americana abbia scelto di privilegiare il momento repressivo rispetto a quello preventivo, la guerra alla criminalità anziché il welfare.

Alcune delle analisi più efficaci della politica criminale americana suggeriscono che invece di essere a sé, la politica penale dovrebbe essere analizzata assieme alle politiche sociali come parte di un più esteso complesso di governance orientato a indirizzare le questioni e le minacce sollevate dai poveri.

La critica di Simon è, in questo caso, molto precisa. L'idea che il crimine possa essere previsto in base a dei profili di pericolosità correlati con lo svantaggio economico e sociale è confutata dagli eventi dell'11 settembre.

Forse il più grande contributo che una riflessione sull'11 settembre può offrire all'immaginario governamentale americano consiste nel distruggere la sua fede nel postulato criminologico che violenza e disordine siano legate in qualche modo prevedibile e continuo a una serie di variabili, siano esse sociologiche, psicologiche, o persino biologiche. Questa dottrina, attraverso le sue svariate versioni, ha favorito la penalizzazione di atti criminali minori quali precursori logici di crimini più seri, e la definizione di profili di pericolosità correlati con lo svantaggio economico, sociale e politico.

Anche il mutamento nella percezione dell'opinione publica americana dello status di vittima, brillantemente analizzato da Zimring, è stato, probabilmente, un effetto collaterale della governance impostata sulla guerra alla criminalità.

le vittime di criminalità sono emerse come cittadini idealizzati cui i legislatori potevano fare appello per espandere liberamente i poteri governativi senza correre seri rischi politici, nella misura in cui offrivano risposta alle domande di sicurezza e di vendetta di cui quelle vittime idealizzate erano ritenute portatrici.

Le conclusioni di Simon: le tecnologie che aumentano la sicurezza producono una minaccia per la sicurezza, riecheggiano un classico tema liberale: meglio essere derubati che avere un guardiano in più.

La guerra alla criminalità ha rimodellato la vita "privata" in America collocandola all'interno di spazi e procedure specificamente rivolte a offrire protezione dal crimine e un senso di sicurezza. Se paragonate al modo di vivere della scorsa generazione, virtualmente le vite di tutti gli americani sono oggi più intrise di ogni sorta di tecnologia di sicurezza - lucchetti di ogni tipo, allarmi, sicurezza privata, e procedure di fermo, interrogatorio e perquisizione. Ma troppo spesso tali tecnologie, come gli enormi SUV, aumentano la sicurezza di alcuni solo riducendo la sicurezza di altri. In questo modo, esse costituiscono una sorta di provocazione che genera una potenziale minaccia per la sicurezza.

La pena di morte è davvero inutile?

Premesso che il problema della pena capitale può essere considerato, hic et nunc, solo in astratto poichè in Europa il tema non ha oggi alcuna attualità a causa della perdita di legittimità degli Stati nazionali è sbagliato chiedersi: deve esserci o no la pena di morte?.

A questa domanda si può rispondere

Così chiedendosi si ignora in toto il fatto che c'è una pena di morte che esiste ed esisterà sempre: è quella inflitta dagli assassini alle loro vittime.

La questione pertanto non può esser posta, in forma corretta, se non chiedendosi: poiché la pena di morte inflitta dai delinquenti esiste, come si può pensare che la pena di morte inflitta dallo Stato (adempiute alcune condizioni essenziali: una società più giusta, che da un lato riduca drasticamente l'emarginazione e la miseria e dall'altro aumenti l'efficacia nella ricerca degli autori dei crimini) non avrà effetti positivi sul crimine?

Ovvero in altri termini

se la deterrenza è provata, ogni manifestazione di tolleranza verso i carnefici privati è una manifestazione di ostilità publica verso le future vittime

Questa è, riassunta brevemente, l'argomentazione posta da Andrea Chiti-Batelli a giustificazione della legittimità della pena di morte.

Se gli Europei respingono con orrore la pena di morte, e ne fanno addirittura il metro per ammettere uno Stato nell'Unione Europea, ciò è dovuto [..] a un'evoluzione - o piuttosto involuzione - dei rapporti di forza, e quindi della «legittinità» dello Stato, involuzione conseguente a due guerre mondiali

È l'uso politico della pena di morte in Europa a rendere impossibile la sua applicazione. È la diffidenza verso lo Stato che non consente di usare uno strumento come la pena capitale

La concezione economica della pena

Gli esponenti della teoria economica della giustizia non adducono alcuna giustificazione della pena di morte, tranne la deterrenza.

Mishan Se la pena di morte è giusta o no resta una questione aperta. La conclusione dell'analisi economica è che il crimine rende e può essere controllato riducendo i vantaggi ed accrescendone i costi. Ma mentre i risultati empirici sembrano confermare la tesi che la pena capitale sia inefficace, essi non possono decidere se è cosa buona o cattiva.

Secondo la teoria economica esiste sempre un rapporto costi benefici nella motivazione di qualsiasi azione e quindi anche dell'atto criminale.

[nella teoria economica] le pene sono considerate "segnali", allo stesso modo dei prezzi. Nell'economia "legale" a prezzi più elevati corrisponde una domanda ridotta. Qualcosa di simile avviene anche nel campo illegale: maggiori pene riducono i profitti conseguenti agli atti criminosi: con l'aumento dei costi (pene aggravate) i delinquenti potenziali vengono dissuasi dalle loro attività.
Certo è possibile che il futuro delinquente, o per cattiva informazione o per errore, sottovaluti il rischio, o che, in casi estremi, lo dimentichi o non ne tenga conto.

Si potrebbe quindi affermare che: se la pena capitale viene usata a scopo dissuasivo, viene usata a favore dei vivi. Cioè, i vivi usano i morti a proprio favore, siano essi vittime o assassini giustiziati. L'essere umano, in questo caso, verrebbe usato in modo strumentale. Ciò non ha molto senso.

L'errore di quasi tutti coloro che si occupano del problema, e in particolare dei fautori della pena di morte, consiste nel credere, più o meno implicitamente, che l'effetto deterrente - grande, piccolo o nullo che esso debba considerarsi - sia, per dir così fisso, abbia cioè una intensità unica, che non possa variare, per la presenza o meno di fattori diversi.
Tra questi, oltre al carattere pubblico dell'esecuzione, vanno messe a mio avviso in primo piano le forme di tale esecuzione e la maggiore o minore penosità di esse. È probabile che quanto più lenta e penosa è la morte del reo - specie se mostrata in televisione - tanto maggiore sia l'effetto deterrente (e tanto minore in caso contrario: l'iniezione letale, praticamente indolore, è con ogni probabilità la meno deterrente).

Per fare un esempio, che scelgo di proposito fra i più raccapriccianti: vi è stata, in Italia, nell'immediato dopoguerra, una saponificatrice - si chiamava Cianciulli - che faceva, col grasso delle sue vittime, del sapone. L'esecuzione capitale più efficace, in questo caso, e cioè immergere la condannata nell'acqua bollente fino al collo, consentendole di respirare in modo da prolungare l'agonia e con essa le sofferenze, non sarebbe il tipo di esecuzione più efficace?

Speculando ai limiti È ancora da chiedersi se sui futuri criminali possa aver un particolare effetto un'applicazione della pena di morte fondata, per quanto possibile, sul principio del taglione o, come direbbe Dante, sul contrappasso: uccidere il reo nello stesso modo in cui egli ha ucciso.

Sulla pubblicità della pena di morte

Ciò che io propongo - e che mi farà considerare un pazzoide o un sadico, o entrambe le cose - è la pubblicità delle esecuzioni capitali [..] in altri termini, se si può sostenere che la pena di morte ha effetto deterrente, questo è dovuto non tanto al fatto che l'opinione publica prende coscienza dell'avvenuta esecuzione, ma al fatto che essa possa esser vista da ognuno.

Si può ragionevolmente ammettere che un adeguato effetto deterrente vi sia solo ove l'esecuzione capitale non sia un'esperienza astratta, ma una vista e un'impressione diretta. Per questo in passato, non senza qualche fondamento le esecuzioni erano pubbliche.

Da qui la propensione del Chiti-Batelli per l'uso dei moderni media, ed in particolare della televisione, per veicolare la publicità dell'esecuzione.

E i mezzi di comunicazione di massa consentirebbero altresì di prevenire l'obiezione di molti, secondo cui l'assistere alle esecuzioni, o il vederle «in diretta», produrrebbe sui più uno choc troppo devastante e avrebbe pertanto un effetto controproducente, imbarbarirebbe i costumi, inciterebbe al crimine, o nella migliore delle ipotesi, sarebbe per i più solo oggetto di un sadico divertimento.

La televisione accrescerà la deterrenza, e consentirà di mostrare esecuzioni capitali quante volte si vuole: questo, se provato, è l'essenziale.

Resta allo stato, il margine di dubbio circa l'effettiva esistenza e portata della deterrenza, e il suo effetto supplementare rispetto alle altre pene. E questo renderebbe indispensabile, per chi seguisse il mio ordine d'idee, il ricorso alla prova dell'esperienza prima di pronunziar un giudizio definitivo.

La mia contro obiezione, a chi obietta, contro la pena di morte, che il principio etico dovrebbe imporre di considerare l'uomo sempre come fine e mai come mezzo è che, risparmiando l'assassino, di necessità di considera mezzo e non fine la futura vittima - donde l'indispensabilità di una scelta.

Pena di morte ed ergastolo

Uno degli argomenti, anche se non tra i più importanti, in favore della pena di morte è relativo al carattere deterrente variabile rispetto all'età del condannato, delle altre pene, alternative rispetto a questa, e restrittive della libertà personale. L'ergastolo o una condanna a trent'anni, è pena pur sempre terribile per un ventenne o trentenne. Lo è enormemente meno per un settantenne o ottantenne. Vi sarà dunque ingiustizia oggettiva in condanne ad egual pena per rei dello stesso crimine, ma di età diversa, ed effetto deterrente ugualmente molto differente per i possibili delinquenti futuri, in ragione della loro età.
Si può obiettare che una tale sperequazione sussiste anche per la pena di morte: ma in questo caso l'effetto deterrente sui terzi non varierà molto, e resterà sostanzialmente stabile, indipendentemente dall'età.

Merita una estesa citazione, per non fraintenderne il contenuto, l'articolo di Claudio Magris sul Corriere della Sera in cui si insinua il dubbio che la pena di morte potrebbe essere giustificata dall'orrore che alcuni delitti provocano in noi.

Talora si fa fatica a rimanere contrari alla pena di morte e oggi è difficile pensare che il posto più consono agli assassini - sicari e mandanti, egualmente immondi, di tre persone, fra cui un bambino di tre anni, Nicola, ucciso e bruciato al pari degli altri - non sia la forca o altra analoga soluzione acconcia. Il sangue di Nicola - come quello di Domenico Gabriele massacrato mentre giocava a calcetto, di Giuseppe Di Matteo sciolto nell’acido e di molti altri bambini - è una macchia incancellabile che sfigura la faccia del mondo.
È una sconfitta che dimostra come la guerra contro la malavita organizzata sia, nonostante molti sforzi generosi ed eroici sacrifici, una guerra perduta e destinata a essere perduta se non viene condotta altrimenti. Gli antichi greci avevano due termini per indicare la guerra o meglio due tipi di guerra. Uno indicava la guerra per così dire limitata già nei disegni iniziali, quella che si propone non di distruggere l’avversario, ma di indebolirlo, di contenerlo, strappandogli un buon bottino e limitando le sue possibilità: quando la Francia e la Germania si scontrano nel 1870 nessuna delle due pensa, in caso di vittoria, di distruggere Berlino o Parigi, ma solo di rendere l’avversario meno temibile e di portagli via qualcosa.
L’altro tipo di guerra è quello che prevede e persegue, quale obiettivo inevitabile, la distruzione dell’avversario: Roma che sparge il sale sulle rovine di Cartagine mai più risorta, la Germania rasa letteralmente al suolo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Contro la malavita organizzata, merdosa macelleria, lo Stato non persegue - forse non lo può, forse non lo vuole - una guerra di annientamento, bensì di contenimento, che non esclude trattative, patteggiamenti, compromessi. La malavita organizzata è un cancro e un cancro non può essere contenuto, arginato, ridotto in certi limiti. Può essere solo estirpato, amputato e poi gettato nelle immondizie. Forse non è materialmente possibile, in questo caso, amputarlo - forse perché si è già infiltrato in alcuni organi vitali dello Stato, forse perché la guerra d’annientamento è difficilmente compatibile con la normale vita burocratica, forse per impossibilità oggettiva o per altre ragioni. Ma se non è possibile, bisogna sapere di aver già perduto e che si può soltanto cercare di limitare le perdite, di salvare il salvabile.

Abstract - i desideri di vendetta delle vittime meritano di essere riconosciuto come un fattore legittimo al momento di decidere la punizione. In questo articolo esamino la legittimità di consentire che i desideri di vendetta delle vittime di reati servano da fattore per infliggere sanzioni penali ai trasgressori. Ritengo che la vendetta sia di per sé un'emozione neutra dal punto di vista dei valori, un'emozione che descrive semplicemente il desiderio di una vittima di tornare al suo vittimizzatore. Ad esempio, se la vittima vuole punire una persona che ha effettivamente commesso un reato su di lui, tale desiderio di vendetta, a mio avviso, è morale. Inoltre, se la punizione inflitta dal soggetto offeso è proporzionale al danno subito, ritengo che tale punizione rappresenti una giusta soluzione della questione penale. In altre parole, non sono d'accordo con l'idea che la vendetta sia, di per sé, immorale o ingiusta.

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