Il futuro del non-profit

Peter Ferdinand Drucker
Il futuro che è già qui. La professione del dirigente nella società postcapitalista
Etas, Milano, 1999

Riesci a immaginare di lavorare con persone che non sono tuoi dipendenti? questa è la risposta di Peter Drucker alla domanda Come opererà il manager del futuro? che gli poneva George Harris, suo collaboratore presso il Drucker Management Center, nel 1993. Certo Drucker si riferiva, in quel caso, all'outsourcing, ma la risposta è valida anche per il non-profit.

Gestire un'azienda non-profit, ad esempio una ONLUS, è una professione retribuita nella quale un manager lavora con dei volontari, che non sono suoi dipendenti, sebbene a loro volta siano sempre più professionalizzati, ma formalmente non retribuiti per poter consentire alla ONLUS di usufruire di un regime fiscale di favore.

Appare evidente che si tratta di un rapporto di lavoro particolare. In realtà il manager non-profit può costruire egli stesso la propria attività non-profit. Così si può dire siano nate alcune delle associazioni di assistenza più note.

Qual'è la struttura delle aziende non-profit e cosa le caratterizza rispetto alle aziende for-profit?

Possiamo suddividere le attività che si svolgono all'interno di un'azienda non-profit in tre grandi categorie: direzionali, gestionali ed esecutive.

L'attività direzionale (CdA) sceglie l'indirizzo e la missione aziendale, il management (la gestione) la organizza ed i volontari (gli esecutivi) la realizzano. Tipicamente in questa tripartizione il management è retribuito le altre funzioni no. Almeno non direttamente. In realtà i membri del CdA possono avere dei cospicui vantaggi, non solo di immagine, ma anche economici (esenzioni fiscali nel caso siano anche donatori, rimborsi, etc.), che non figurano come retribuzione di un lavoro svolto.

Il non-profit trasferisce risorse fiscali destinate al welfare dalla gestione publica alla gestione privata. In questo modo è possibile che una parte di queste risorse cambino destinazione ed anziché essere destinate all'assistenza alla parte più povera della società vadano a beneficiare categorie che non hanno diritto all'assistenza.

Inoltre, con l'estensione delle attività non profit dovuta al grande successo ideologico, ma anche economico, dell'idea, si pone un problema di sostenibilità fiscale.


Il testo che segue è tratto da What Business Can Learn from Nonprofits, Harvard Business Review, 65, n. 5, 1988 ( Luglio-agosto 1989) nella traduzione di Roberto Merlini.

Cosa possono imparare le aziende dagli enti non-profit

Le Girl Scouts, la Croce Rossa, le Chiese pastorali le nostre organizzazioni non-profit — stanno diventando i leader del management americano. In due aree, strategia ed efficacia del board (Consiglio d'Amministrazione, CdA), stanno mettendo in pratica ciò che la maggior parte delle imprese americane si limita a predicare. E nell'area più cruciale, quella della motivazione e della produttività dei lavoratori professionali e tecnologici, sono autentici pionieri: attivano già le politiche e le pratiche che le aziende dovranno imparare domani.

Pochi sono consapevoli che il settore non-profit è di gran lunga il maggior datore di lavoro degli Stati Uniti. Un adulto su due - per un totale di oltre 80 milioni di persone lavora nel volontariato, in media quasi 5 ore alla settimana, per uno o più enti non-profit. Equivale a 10 milioni di occupati full-time. Se i volontari fossero retribuiti, i loro salari - calcolati sui minimi contrattuali - assommerebbero a circa 150 miliardi di dollari: il 5% del PIL. E il lavoro volontario sta cambiando rapidamente. In genere, non richiede particolari competenze: raccogliere fondi per la cassa parrocchiale una domenica pomeriggio all'anno, accompagnare le ragazze che vendono porta a porta i dolci [133] confezionati dalle Girl Scouts, portare gli anziani dal medico. Ma sempre più volontari stanno diventando "dipendenti non pagati", che si fanno carico dei compiti e manageriali in seno alle organizzazioni per cui lavorano.

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Alla base di questo programma, e di molte altre campagne efficaci portate avanti dagli enti non-profit, c'è un impegno al management. Vent'anni fa, "management" era una brutta parola per chi lavorava nelle organizzazioni non-profit. Significava business; e gli enti non-profit si vantavano di essere estranei allo spirito mercantile, e superiori alle preoccupazioni venali per il profitto. Adesso hanno imparato quasi tutti che gli enti non-profit abbisognano di management più delle imprese, proprio perché mancano di una cultura del profitto. Gli enti non-profit mirano, naturalmente, a "fare del bene". Ma si rendono anche conto che le buone intenzioni non possono sostituire l'organizzazione e la leadership, la responsabilità, la performance e i risultati. Per tutte queste cose ci vuole il management; e prima di tutto ci vuole una missione.

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Adesso molti enti non-profit hanno ciò che è ancora un'eccezione nelle aziende: un Consiglio d'amministrazione (CdA) che funziona. Dispongono anche di una risorsa ancora più rara: un CEO chiaramente responsabile verso il CdA, la cui performance viene valutata annualmente da un comitato ristretto designato dal CdA stesso. E hanno, infine, la cosa più rara in assoluto: un Consiglio valutato ogni anno rispetto a degli obiettivi di performance prestabiliti. L'utilizzo efficace del CdA è quindi una seconda area in cui le aziende possono imparare dal settore non-profit.

La legge degli Stati Uniti considera ancora il Consiglio di Amministrazione l'organo "gestionale" della società. Gli studiosi di management concordano sul fatto che dei CdA forti sono essenziali, e propugnano questa tesi da più di vent'anni, a cominciare dal lavoro pionieristico di Myles Mace [1]. Tuttavia i top management delle nostre grandi imprese cercano da più di mezzo secolo di limitare il ruolo, il potere e [←137] l'indipendenza dei consiglieri. Negli ultimi decenni, tutte le volte che le grandi aziende sono andate in crisi, il Consiglio di Amministrazione è stato regolarmente l'ultimo a saperlo. Per trovare un CdA veramente efficace, vi converrà guardare al settore non-profit, piuttosto che alle nostre grandi imprese a capitale diffuso.

In parte, questa differenza è un derivato della storia. Il CdA ha avuto tradizionalmente — o ha cercato di avere - un ruolo attivo nella conduzione delle organizzazioni non-profit. In effetti i non-profit sono passati al management professionale solo perché cresciuti talmente, in dimensioni e in complessità, da non poter più essere gestiti da part-timers esterni che si riuniscono tre ore al mese. La Croce Rossa americana è probabilmente il maggiore ente non governativo del mondo, ed è certamente uno dei più complessi. Presta soccorso per le calamità in tutto il mondo; gestisce migliaia di banche del sangue, dei tessuti ossei e della pelle per gli ospedali; assicura l'addestramento al pronto soccorso per gli accidenti cardiaci e respiratori su tutto il territorio nazionale; e tiene corsi di primo soccorso in migliaia di scuole. Eppure non ha avuto un CEO retribuito fino al 1950; e il suo primo CEO professionale entrò in carica durante l'era reaganiana.

Ma per quanto si vada diffondendo il management professionale (dei CEO professionali si trovano ormai in quasi tutti i non-profit, e in tutti quelli di grandi dimensioni), in genere i CdA di questi enti non si possono rendere impotenti come si è fatto per tanti CdA aziendali. Anche se i CEO non lo gradiscono — sono molto pochi a gradirlo - i CdA degli enti non-profit non possono diventare i loro scendiletto. Anche per una questione di soldi. Pochi consiglieri delle società di capitali sono anche azionisti significativi; mentre i consiglieri di amministrazione degli enti non-profit sono quasi sempre grandi donatori, che dovrebbero portare altri donatori. E poi i consiglieri dei non-profit tendono a impegnarsi personalmente nella causa dell'ente. Pochi trascorrono ore e giorni nella sagrestia di una chiesa o nel CdA di una scuola solo perché gli sta a cuore la religione o l'istruzione. Inoltre è tipico che i consiglieri di amministrazione dei non-profit siano stati essi stessi dei volontari dell'ente per anni, e che ne conoscano bene l'organizzazione. a differenza dei consiglieri di amministrazione delle aziende.

Proprio perché il CdA dell'ente non-profit è tanto impegnato e attivo, il suo rapporto con il CEO tenderà ad essere altamente "dialettico" e potenzialmente conflittuale. I CEO dei non-profit lamentano "l'ingerenza" del CdA. Per contro, i consiglieri accusano il management di "usurpare" la loro funzione. Questa situazione ha obbligato un numero [←138] sempre maggiore di non-profit a prendere atto che non comandano né il CEO, né il Consiglio. Sono complementari, lavorano per lo stesso obiettivo ma con due ruoli ben distinti. E a capire che è responsabilità del CEO definire le rispettive aree di competenza, sua e del Consiglio.

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Un tempo i non-profit ragionavano così: "Non paghiamo i volontari, perciò non possiamo nemmeno chiedere loro più di tanto" Adesso la logica è un'altra: "I volontari devono trarre soddisfazioni molto maggiori dal loro lavoro e devono dare un contributo migliore, proprio perché non sono pagati". La decisa trasformazione del volontario, da dilettante ben intenzionato a collaboratore professionale qualificato, anche se non retribuito, è l'evoluzione più rilevante registrata nel settore non-profit; ed è anche quella che presenta le implicazioni più pesanti per le imprese di domani.

Una diocesi cattolica del Midwest ha spinto all'estremo questo processo. Adesso ha meno della metà dei sacerdoti e delle suore che vi operavano solo 15 anni fa. Eppure ha ampliato enormemente le sue attività; alcune - come l'aiuto ai senzatetto e ai tossicodipendenti - sono addirittura più che raddoppiate. Ci sono ancora molti volontari tradizionali, come quelli della lega dell'altare, che curano gli ornamenti floreali. Ma la novità è che adesso la diocesi può contare su quasi 2.000 part timer non retribuiti che si occupano di beneficenza, svolgono attività amministrative nelle scuole parrocchiali e organizzano le attività giovanili, sovraintendono ai Clubs e anche ad alcuni ritiri spirituali.

Un cambiamento analogo si è verificato nella First Baptist Church di Richmond, in Virginia, una delle chiese maggiori e più antiche della Southern Baptist Convention. Quando Peter James Flamming ne [←140] assunse la direzione cinque anni fa, la chiesa era in declino da molti anni, come accade normalmente alle vecchie chiese metropolitane. Oggi è tornata ad avere oltre 4.000 fedeli praticanti e tiene una dozzina di attività di culto esterne per la comunità, oltre naturalmente a tutta la gamma dei servizi spirituali in loco. La chiesa ha solo 9 dipendenti full-time retribuiti. Ma dei 4000 fedeli, 1000 sono collaboratori non pagati.

Questa evoluzione non è peraltro confinata alle sole organizzazioni religiose. L'American Heart Association ha sedi praticamente in ogni città del paese. Eppure lo staff retribuito è solo quello che opera nel quartier generale; ne fanno parte alcuni ispettori che operano sul campo per sistemare le questioni più delicate. Le sedi secondarie vengono gestite e amministrate da volontari, che hanno piena responsabilità sia per l'educazione sanitaria della comunità, sia per la raccolta di fondi.

Questi cambiamenti sono, in parte, la risposta a un bisogno. Dato che quasi metà della popolazione adulta è già impegnata nel volontariato, è difficile che il numero dei volontari possa crescere ancora. E con la cronica mancanza di fondi che affligge i non-profit, l'organico retribuito non può certo aumentare. Dunque se vogliono ampliare le loro attività - e la domanda è in crescita — questi enti devono migliorare la produttività dei volontari; devono dare loro più lavoro e più responsabilità. Ma la maggiore spinta al cambiamento nel ruolo del volontario è venuta dai volontari stessi.

Sempre più volontari sono persone istruite, con impieghi manageriali o professionali: uomini e donne alla vigilia della pensione, ma soprattutto figli del baby boom, nella fascia di età tra i 35 e i 45 anni. Queste persone non si accontentano di dare una mano. Sono dei lavoratori di alta professionalità nella loro occupazione principale; e vogliono esserlo anche nell'attività "sociale", cioè nel volontariato. Se gli enti nonprofit vogliono attrarre e trattenere dei collaboratori professionalmene qualificati, devono permettere loro di esplicare le loro competenze. Devono offrire loro delle sfide.

Molti non-profit reclutano sistematicamente collaboratori con questo profilo. La selezione interna dei neofiti - il nuovo membro di una chiesa o di una sinagoga, il vicino di casa che raccoglie fondi per la Croce Rossa - viene affidata a dei membri anziani che fanno da "talent scout", e propongono a chi dimostra leadership di cimentarsi in incarichi più stimolanti. Poi uno dei responsabili (un dipendente a tempo pieno o un volontario anziano) intervista i "nuovi" potenzialmente più dotati per valutarne i punti di forza e collocarli di conseguenza. A volte i volontari vengono anche assegnati a un mentore e a un supervisore, con [←141] cui definiscono i loro obiettivi di performance. Questi "padrini" sono di regola due persone diverse; e in genere sono entrambi dei volontari.

Le Girl Scouts, che hanno 750.000 volontari e appena 6.000 dipendenti retribuiti contro 3,5 milioni di aderenti, funzionano in questo modo. La volontaria inizia tipicamente portando un gruppo di ragazze a una riunione, una volta alla settimana. Poi una volontaria più anziana la introduce a un altro compito: accompagnare le Girl Scouts nella vendita porla a porta dei dolci, assistere una capo-pattuglia durante un campo. Questo processo per fasi successive porta la volontaria a entrare nel Consiglio dei gruppi locali, e infine nell'organo di governo delle Girl Scouts, il National Board. Ogni fase, anche la primissima, prevede un training obbligatorio, tenuto di solito da una volontaria. Ogni fase prevede degli standard di performance specifici e degli obiettivi specifici.

Ma cosa chiedono esattamente questi collaboratori non remunerati? Cosa li trattiene, visto che ovviamente possono andarsene quando gli pare e piace? La prima e principale domanda è che l'ente non-profit abbia una missione ben chiara e definita, tale da guidare e indirizzare tutte le sue attività. Come nel caso di una donna, funzionario di alto livello di una grande banca regionale, con due figli piccoli, che, pur con tutti i suoi impegni, ha appena assunto la direzione della delegazione statale di Nature Conservancy, l'associazione ambientalista che individua, acquista e tutela aree ecologiche in pericolo. "Amo il mio lavoro", mi ha risposto quando le ho chiesto perché si è presa un incarico extra così pesante, "e naturalmente la banca ha un suo credo. Ma non sa esattamente qual è il suo contributo. In Nature Conservancy, so precisamente qual è il mio apporto alla società."

La seconda cosa che richiede, o meglio esige, questa nuova razza di volontari "professionali" è la formazione: formazione, formazione e ancora formazione. Del resto, il modo più efficace per motivare e trattenere i veterani è riconoscere la loro esperienza e utilizzarla per istruire i nuovi entrati. Poi i collaboratori professionali chiedono responsabilità; soprattutto quella di elaborare e definire i loro obiettivi di performance. Si aspettano di venire consultati e di partecipare alle decisioni che incidono sul loro lavoro e sull'attività complessiva dell'ente. E si aspettano opportunità di crescita; cioè l'opportunità di accedere a incarichi di maggiore delicatezza e responsabilità, se la loro performance lo giustifica. Ecco perché numerosi enti non-profit hanno sviluppato dei veri e propri "percorsi di carriera" per i loro volontari.

L'architrave di tutta questa attività è la responsabilizzazione. Molti volontari professionali di oggi chiedono con insistenza che la loro [←142] performance venga valutata almeno una volta all'anno, rispetto a degli obiettivi predeterminati. E si aspettano, sempre di più, che chi non dà risultati venga rimosso e trasferito a incarichi più rispondenti alle sue reali capacità, o consigliato ad andarsene. "E peggio del campo di addestramento dei marines", dice il sacerdote responsabile dei volontari per la diocesi del Midwest che ho citato in precedenza, "ma abbiamo 400 persone in lista d'attesa." Un grande museo del Midwest, in rapido sviluppo, chiede ai suoi membri consiglieri di amministrazione, procacciatori di finanziamenti, docenti e redattori dell'organo d'informazione dell'ente di darsi ogni anno degli obiettivi per poi autovalutarsi rispetto ad essi; e di dimettersi se non li raggiungono per due anni consecutivi. Lo stesso fa un'organizzazione ebraica di notevoli dimensioni che opera nei campus universitari.

Questi operatori professionisti del volontariato sono ancora una minoranza; ma una minoranza che conta: quasi un decimo del totale. E stanno crescendo, come numero, ma soprattutto come impatto sul settore non-profit. Gli enti senza fine di lucro condividono sempre più le parole del ministro di una grande chiesa pastorale: "In questa chiesa non ci sono laici; ci sono solo pastori. Alcuni sono pagati; tutti gli altri no".



Questa evoluzione da volontario del non-profit a professionista non retribuito è forse il fenomeno più significativo che vive oggi la società americana. Si sente parlare tanto di decadenza e di dissoluzione della famiglia e della comunità, e di perdita dei valori. E ci sono, naturalmente, fondate ragioni di preoccupazione. Ma gli enti non-profit stanno generando un prepotente flusso contrario. Stanno creando nuovi legami comunitari, un nuovo impegno alla cittadinanza attiva, alla responsabilità sociale, ai valori. E senza dubbio il contributo che il non-profit dà al volontario è importante quanto il contributo che il volontario dà al non-profit. Anzi, è importante quanto il servizio - religioso, didattico o sociale - che il non-profit fornisce alla comunità.

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MP

Bibliografia

Peter Ferdinand Drucker
- Cosa possono imparare le aziende dagli enti non-profit, in id. Il futuro che è già qui. La professione del dirigente nella società postcapitalista, tr. Roberto Merlini, RCS Libri, Etas, Milano, 1999
- Managing the Non-Profit Organization: Practices and Principles, Harper Business, New York, 1990