Politica ed economia in Italia

Rolf Petri
Storia economica d'Italia (1918-1963)
Bologna, il Mulino, 2002

Il bel libro di Rolf Petri - Storia economica d'Italia (1918-1963) - mi permette di fare alcune considerazioni sulla gestione delle industrie publiche in Italia. Si ritiene per opinione comune, e Petri lo conferma, che durante il fascismo e fino ai primi anni sessanta, la gestione delle industrie publiche non differisse da quelle private.

Il management [delle industrie publiche] pretendeva un ampio margine di autonomia, che in generale gli veniva concesso (e che sarebbe stato eroso solo a partire dagli anni sessanta, con l'intromissione diretta dei partiti governativi nella gestione del settore publico). Manager di spicco quali Alberto Beneduce, Arturo Bocciardo, Donato Menichella, Francesco Giordani, Agostino Rocca e Oreste Jacobini (come più tardi dopo la guerra Oscar Sinigaglia, Felice Ippolito, Enrico Mattei) avevano un ruolo essenziale nella determinazione degli obiettivi di politica economica e industriale.

Le «loro» aziende, viceversa, venivano gestite conformemente a obiettivi tecnici e commerciali tipicamente imprenditoriali, piuttosto che a quelli attinenti all'ordinaria amministrazione publica. Che fino alla fine della guerra all'interno di tali industrie il management tecnico avesse un peso non di rado preponderante rispetto alla contabilità e al marketing fu una risposta alle condizioni dei mercati regolati, come dimostra il fatto che nelle industrie private degli stessi settori all'epoca le cose non andassero diversamente.

Il momento di rottura dell'equilibrio è negli anni sessanta, quando la gestione delle imprese publiche viene assunta direttamente dagli uomini dei partiti di governo, sostanzialmente dalla Democrazia Cristiana. La domanda è questa. Sono stati quegli uomini politici in particolare a sbagliare oppure in generale è la gestione politica delle imprese che non è possibile in termini economici?

Oggi si tende ad accreditare, anche a sinistra, la seconda ipotesi, che non sia possibile una gestione politica delle imprese publiche in termini economici. Si pone di conseguenza un'altra domanda. Che legittimità ha chi gestisce politicamente la società se non è in grado di garantire la gestione economica di un'impresa? Dopotutto la società nel suo complesso non è che un'azienda un pò più grande.


L'altra questione, che si collega alla precedente, è quella del liberismo e dei suoi esponenti nell'amministrazione publica. Questo passo è significativo.

La teoria di «Menichella liberista» è stata avallata, negli anni ottanta dal suo successore al governo della Banca d'Italia Guido Carli. La stretta del 1947 fece effettivamente parte di una svolta, la quale semmai terminò un ciclo di egemonia liberista, più che iniziarlo. La stabilizzazione monetaria fu funzionale alle convinzioni liberiste di un Einaudi non meno che al disegno dirigista di un Menichella, il quale aveva sostituito Einaudi nell'incarico di governatore della Banca d'Italia. Furono i contorni istituzionali e politici della stabilizzazione a smentire che quella seguita dopo il 1947 fosse una «linea Einaudi». Se nel dibattito politico la voce del liberismo rimase possente, le decisioni reali propendevano invece verso l'area cattolico-sociale e simil-keynesiana, oppure ancora più spesso, verso quella dirigista, rappresentata nel partito cattolico di maggioranza da Pietro Campilli, Ezio Vanoni, Enrico Mattei etc.

Il rallentamento della crescita produttiva negli anni sessanta come conseguenza del controllo politico delle aziende. Ipotesi possibile.

Negli anni sessanta il tentativo di far fronte alle conseguenti tensioni distributive, attraverso forti aumenti della spesa publica corrente, e il mutamento del contesto sociale determinarono una graduale attenuazione della capacità di reazione del sistema produttivo.

A posteriori osserva Carli (1977), presumibilmente sarebbe stato meglio che il processo "fosse" (stato) "più lento, ma più ordinato e stabile" e che si fosse dato maggior spazio agli interventi sociali. Una maggiore attenzione al soddisfacimento dei bisogni della popolazione e rapporti distesi tra imprenditori e lavoratori avrebbero forse potuto evitare i contraccolpi in termini di rivendicazioni salariali che iniziarono negli anni sessanta e la perdita di efficacia dell'intervento publico...

[dal punto di vista del metodo delle decisioni in quegli anni vi era] una classe dirigente che comunicava al proprio interno [..] che pur negli eventuali dispareri, arrivava di solito ad una volontà collegiale.

Quando ripenso a quegli anni ed anche alle mie responsabilità, questa è la critica e la colpa che mi faccio: avremmo dovuto, per ogni nuova impresa che nasceva, per ogni nuovo posto di lavoro che veniva creato, preoccuparci di costruire la scuola, le case, l'ospedale, i trasporti collettivi. E rifondare la publica amministrazione affinché fosse capace di accogliere e soddisfare le richieste della nuova popolazione.

MP

Bibliografia

Giudo Carli
- Donato Menichella governatore della Banca d'Italia, in Donato Menichella, testimonianze e studi raccolti dalla Banca d'Italia, Laterza, Bari, 1986
- Intervista sul capitalismo italiano, a cura di E. Scalfari, Laterza, Bari, 1977
Rolf Petri
- Storia economica d'Italia (1918-1963), Bologna, Il Mulino, 2002
Giancarlo Morcaldo
- Intervento pubblico e crescita economica: un equilibrio da ricostruire, Franco Angeli, Milano, 2007
C. Spagnolo
- Tecnici e politici in Italia, FrancoAngeli, Milano, 1992