La grande ricostruzione

Paola Di Biagi ( a cura di)
La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l'Italia degli anni cinquanta
Donzelli, Roma, 2001

Anche se mi piacerebbe farlo, in questa breve nota di lettura della raccolta collettanea curata da Paola Di Biagi, non mi soffermerò sugli aspetti urbanistico - architettonici e professionali, che pure occupano gran parte del libro, ma mi limiterò ad alcuni cenni più strettamente attinenti agli aspetti "politici" del piano Ina-Casa.

La legge 28 febbraio 1949, n. 43 Provvedimenti per incrementare l'occupazione operaia. Case per i lavoratori. è il primo piano di edilizia publica dell'Italia republicana, e uno dei primi provvedimenti di intervento sociale nell'edilizia. Grande promotore dell'iniziativa fu l'allora ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale Amintore Fanfani.

Alcuni dati. I risultati del piano, come si evincono dalle pubblicazioni, rilevano una grande vitalità ed impatto del medesimo sulla vita economica e sociale del paese. Infatti, solo pochi mesi dopo l'approvazione della legge, nell'estate del 1949, verrà aperto il primo cantiere dei 650 che risulteranno aperti nell'autunno dello stesso anno. Il ritmo di costruzione, reso possibile dalla struttura organizzativa Ina-Casa, sarà estremamente efficiente e, con l'entrata a regime, produrrà circa 2.800 unità abitative a settimana, con la consegna, sempre settimanale, di circa 550 alloggi alle famiglie assegnatarie. Nei primi sette anni di vita verranno investiti complessivamente 334 miliardi di lire per la costruzione di 735.000 vani, corrispondenti a 147.000 alloggi. Alla fine dei quattordici anni di durata del piano, i vani realizzati saranno in totale circa 2.000.000, per un complesso di 355.000 alloggi. Il Piano Ina-Casa alla sua scadenza avrà aperto 20.000 cantieri che porteranno, come era negli intenti dei legislatori, ad impiegare molta mano d'opera stabile: circa 41.000 lavoratori edili all'anno, costituenti un impiego pari al 10% delle giornate-operaio dell'epoca.

Questi dati, di per sé eloquenti, dimostrano l'efficacia dell'intervento legislativo, sia dal punto di vista del contrasto della disoccupazione, che era il principale obiettivo del ministro Fanfani, sia come risposta alle esigenze abitative della popolazione dopo le distruzioni belliche. Fra i meriti della gestione Ina-Casa deve essere sottolineata anche la buona qualità media della progettazione, soprattutto se confrontata con i successivi, disgraziati, interventi di edilizia popolare.

Ma ci sono due aspetti che, invece, possono essere definiti ambigui. Il primo riguarda lo schema concettuale studiato per finanziare il progetto, un esempio da manuale di applicazione sociale di un sistema assicurativo bismarckiano, che, alla fine, fa ricadere sugli operai e sugli imprenditori l'onere di finanziare un'operazione poi gestita dalla politica.

Nello specifico, la metà dei contributi era a carico di tutti i lavoratori dipendenti con una trattenuta obbligatoria, direttamente sulla busta paga, anche se una parte dei contributi figurava virtualmente a carico dei datori di lavoro; è ovvio che questa parte era ricompresa nel costo del lavoro nel suo complesso. In teoria la restante quota era a carico dello Stato, mentre l'INA avrebbe dovuto soltanto anticipare le spese. In realtà lo sviluppo dei cantieri avveniva secondo le disponibilità di cassa fornite dalle trattenute sui lavoratori, per cui le anticipazioni erano molto limitate. I lavoratori, che versavano i contributi, non avevano nessuno strumento di controllo sulla gestione dei fondi e neppure sull'assegnazione delle case che avrebbe dovuto essere fatta per sorteggio, ma che ben presto passò direttamente ai funzionari dell'INA, uomini di fiducia del ministro Fanfani. Lo Stato interveniva sostanzialmente solo per garantire il gestore. L'INA dopo la fase di assegnazione degli appartamenti gestiva anche il finanziamento degli assegnatari nell'acquisto dell'immobile, incassando interessi, su importi non propri. Eppure tutto questo ha funzionato meglio della successiva gestione diretta dello Stato (GESCAL).

Un altro aspetto che risulta chiaramente dai vari interventi è la continuità amministrativa tra lo Stato fascista e la Republica. Non solo gli uomini sono gli stessi negli stessi posti - ad eccezione degli epurati maggiormente compromessi con il regime - ma anche i progetti sono gli stessi. Gli articoli di Paolo Nicolosio - Genealogie del piano Fanfani 1939-50 e quello di Fabrizio Bottini - Gli obiettivi sociali: un'alfabetizzazione alla modernità - evidenziano questa continuità, non solo strutturale, ma addirittura ideologica. Gli obiettivi sono la modernizzazione del paese e la formazione di una classe media di proprietari di casa.

A conclusione del suo saggio la Di Biagi pone alcuni quesiti, che definirei di ardua soluzione, poiché riguardano il destino degli edifici Ina-Casa e non solo.

Il ritorno all'esperienza dell'Ina-Casa ci riconduce sui e nei quartieri realizzati nel corso di quei quattordici anni. Ci porta a constatare non solo, nella gran parte dei casi, l'interesse di quelle architetture e di quegli spazi, ma talvolta anche il loro degrado, l'incuria alla quale sono soggetti, la frequente scorrettezza di inconsapevoli interventi di manutenzione e modificazione da parte degli abitanti e delle amministrazioni pubbliche.

Eppure i quartieri degli anni cinquanta e più in generale quella che all'inizio di questo testo ho definito la città pubblica, possono essere interpretati come un bene che costituisce testimonianza materiale avente valore di civiltà 50. Essi interpellano oggi la nostra memoria in quanto esito materiale di storie diverse: di idee di città, di spazio, di società, di politiche abitative, di processi e metodi di edificazione che hanno contribuito a costruire l'urbanistica moderna e la città contemporanea. I quartieri documentano le tracce della storia di comunità di cittadini, dei differenti modi d'uso degli spazi individuali e collettivi, residenziali e di relazione e dei tempi delle loro modificazioni. Tutto ciò Cl conduce a parlare di queste parti di città come di patrimoni, dotati di specifici valori e a definirli documento-monumento 51 della modernità, un'eredità della cultura del XX secolo.

Un valore estetico, storico, documentario, identitario che, pur diversificandosi caso per caso, sollecita per i quartieri progetti e azioni non solo di riqualificazione, ma anche di conoscenza e di tutela [..] Nello specifico caso italiano dei quartieri prodotti col piano Ina-Casa, essi andrebbero forse considerati come un insieme di oggetti patrimoniali, verso i quali definire politiche di intervento e tutela coordinate a livello nazionale. In tale prospettiva la grande varietà di interventi realizzati (un loro elenco completo non è mai stato predisposto) li propone come un insieme di corpi distinti, ma al tempo stesso appartenenti a una costellazione unitaria, rappresentando essi l'esito di uno stesso piano, attuato un periodo circoscritto. In tal senso, è un minimo comune denominatore che va individuato quale base per una unitaria politica nazionale di tutela? O al contrario, le politiche per il recupero e la tutela vanno definite localmente, dato che ciascun quartiere appartiene ormai molto più alla storia urbana e sociale locale che ad altre storie più complessive?

Ai posteri la risposta. Qui mi fermo.

MP

Bibliografia

Paola Di Biagi ( a cura di)
- La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l'Italia degli anni cinquanta, Donzelli, Roma, 2001
- Il piano INA-Casa: 1949-1963, Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica, 2013, URL