L'irresistibile Impero

Irresistible Empire, il libro di Victoria de Grazia, tradotto alcuni anni or sono in una pregevole edizione da Einaudi, è la storia di come l'impero (americano) sia giunto in Europa sotto forma di emporio e come l'Europa sia stata trasformata, nel volgere di poche decine d'anni, in un grande McDonald.

''Irresistible Empire'' is the story of how this happened, of how an imperium came to Europe in the form of an emporium

Questa, almeno a prima vista, sembra essere l'immagine che ne riceviamo attraverso le recensioni e che probabilmente corrisponde al sentire comune dell'europeo medio.

Quel che gli USA riuscirono a imporre fu il livello di vita americano come «criterio», come standard cui misurare la propria esistenza. Così, quel che de Grazia ci racconta è come rappresentanti di commercio, pubblicitari, attachés commerciali, produttori cinematografici, gestori di supermercati sono riusciti a imprimere nella mentalità europea la definizione stessa di livello di vita.

Ma, come nota ancora Johann Hari, il libro della de Grazia nonostante ci parli attraverso storie, apparentemente banali, di istituzioni come il Rotary Club, i supermercati, lo star system hollywoodiano, la pubblicità aziendale, non è affatto banale e la sua interpretazione non è scontata.

She talks us through the rise of a string of outwardly banal institutions: Rotary Clubs, supermarkets, the Hollywood star system, corporate advertising. With the careful skill of an expert defusing an explosive, she teases out the dense clusters of political ideology embodied in these seemingly everyday social institutions.

Si può dire che L'impero irresistibile è una sequenza di storie interconnesse, ciascuna delle quali ruota attorno a una determinata innovazione sociale * fino a comporsi in una storia, nella sua accezione più alta, del consumo nel XX secolo.

La storia dei consumi è ormai una branca disciplinare affermata con una serie di fortunati filoni: dalla storia dei luoghi di consumo - grandi magazzini ottocenteschi, supermarket, shopping malls e 'non luoghi' postmoderni -, allo studio del rapporto fra consumi e generi e ruolo sessuali, fra modelli di consumo e classi sociali, fra consumi, urbanizzazione e stati nazionali, per non parlare delle intersezioni fra il fenomeno e una parola chiave dei nostri giorni: l'identità.

Quello che mi sembra più interessante nel libro non sono le singole ricostruzioni storiche, per quanto siano brillantemente narrate, e neppure l'immagine complessiva della storia del consumo che ne ricaviamo, bensì il rilievo che in questa storia assume la distanza che separa l'ancien regime europeo dal nuovo credo americano. Si tratta di una vera e propria frattura epistemologica, se così possiamo dire, che le innovazioni giunte d'oltre oceano introducono nel modello europeo di consumo.

Alcune, [di queste innovazioni sociali] come il divismo hollywoodiano, il fenomeno delle marche leader, la moderna comunicazione pubblicitaria o il supermercato, sono talmente entrate nella mentalità corrente da non richiedere alcuna presentazione. Altre invece — l'etica del servizio alla collettività, il concetto di standard di vita, la figura del cittadino consumatore o quella della casalinga consumatrice — sono meno note nei dettagli. Eppure, potrebbe mai esistere la società dei consumi come oggi la conosciamo in assenza, per esempio, di una nuova etica del servizio alla collettività che spingesse le élite ad ammettere, per dirla con Wilson, che le barriere del gusto andavano superate e che, in linea di principio, le esigenze materiali di chi occupa la vetta della piramide sociale non differiscono affatto da quelle di chi si trova alla base ? Ecco il messaggio che l'alta borghesia europea avrebbe dovuto recepire dai fondatori, americani, del Rotary internazionale.

L'accesso ai beni materiali dipende dal reddito e non dallo status sociale o dal ceto di appartenenza. Questa è la vera innovazione sociale, la nuova ideologia, veicolata attraverso l'attività del Rotary Club.

Come potrebbe mai esistere la società dei consumi quale la conosciamo se non fosse universalmente riconosciuto che l'accesso ai beni materiali dipende dal reddito e non dallo status sociale, né dai privilegi individuali, o dal ceto di appartenenza? Ecco la lezione che l'America, con il suo elevato livello di vita, ha insegnato all'Europa, minacciando di far saltare le distinzioni di classe fra i vari stili di vita su cui si reggeva la gerarchia sociale. In nome di quali diritti doveva essere consentito l'accesso ai consumi?

Ma, anche il reddito è uno strumento di distinzione al pari dello status. Il reddito introduce, nella logica del rapporto interumano, un nuovo strumento di distinzione sociale, che replica, sebbene sotto altra forma, gli effetti dello status nell'accesso ai beni materiali.

L'Impero del Mercato ha ingaggiato con gli Europei un lungo braccio di ferro, teso a stabilire se il diritto ai consumi debba basarsi sul concetto liberale del diritto di scegliere sul mercato o, come invece sostenevano gli Europei, sul concetto di uguaglianza, garantito dallo Stato laddove il mercato non fosse in grado di assicurare un livello adeguato di beni e servizi.

Poiché dal punto di vista logico non c'è differenza tra reddito e status sociale, concludo notando, in disaccordo con la de Grazia, come, sino ad oggi, il vero scontro ideologico sul diritto ai consumi sia stato sullo strumento da utilizzare per affermare la distinzione. Non sulla distinzione in sé, sui suoi effetti, o sulla necessità di consumare per il mantenimento del sistema di produzione del reddito e quindi per il mantenimento della distinzione. Irresistibile necessità interna all'impero che ha come inevitabile conseguenza il riconoscimento dell'universale diritto al consumo.

MP

Bibliografia

Victoria de Grazia
- L'impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, tr. Andrea Mazza e Luca Lamberti, Einaudi, 2006