L'estensione del dominio della concorrenza

Pierre Dardot, Christian Laval
La nuova ragione del mondo
Derive Approdi, Roma, 2013

Inizio questa bozza di commento al libro di Pierre Dardot e Christian Laval La nuova ragione del mondo, dalla recensione di Serge Audier su Le Monde che, pur nella concisione imposta dalle dimensioni di un di un articolo, ha centrato due punti essenziali del libro. Il primo: la concorrenza.

On comprend pourquoi, selon les auteurs, le néolibéralisme devient la grande "raison du monde". Examinant la littérature du "management" et du "capital humain", le livre affirme que "la stratégie néolibérale a consisté et consiste toujours à orienter systématiquement la conduite des individus comme s'ils étaient toujours et partout engagés dans des relations de transaction et de concurrence sur un marché". Les normes de l'action publique en sont bouleversées [..]

La strategia neoliberista ha consistito nell'orientare sistematicamente la condotta degli individui come se fossero sempre e dappertutto coinvolti in relazioni di transazione e di concorrenza su un mercato. Non solo il comportamento degli indvidui ne è stato condizionato, anche le norme dell'azione publica ne sono state sconvolte. Pervasività ed estensione del dominio della concorrenza all'intero ambito sociale.

Il secondo aspetto sottolineato da Audier è invece una assenza nell'analisi di Dardot e Laval. Il libro non esplora sufficientemente le ragioni di una caratteristica fondamentale del neoliberismo: il suo carattere vertiginosamente inegualitario.

A cet égard, le livre ne permet pas de mesurer la distance entre les idées de certains inspirateurs du néolibéralisme et la réalité qui s'est imposée. Walter Lippmann lui-même [..] jugeait qu'il fallait en finir avec les gros héritages, et que des taxes sur les successions ainsi qu'un impôt progressif devaient frapper les hauts revenus. Il soutenait, en citant Aristote, que de fortes inégalités étaient aussi un problème politique. Le néolibéralisme "réellement existant" n'aura pas exactement suivi ses préconisations...

Il neoliberismo si allontana dal liberalismo classico per avvicinarsi sino a confondersi con quello che, forse un pò impropriamente, si può denominare neofeudalesimo.

Sintesi del libro

Il libro di Dardot e Laval è un'ottima storia dell'ideologia neoliberista. (Riesce a rendermi simpatico persino un'autore come Friedrich von Hayek, che in condizioni ordinarie non sopporto proprio) Il libro si divide in tre parti:

In una prima parte, il presente lavoro metterà in evidenza quella che potremmo chiamare la matrice del primo liberalismo, ovvero relaborazione della questione dei limiti del governo. [..] L'unità di tale questione non permetterà tuttavia di affermare l'omogeneità del liberalismo «classico» [28] [..]

Nella seconda parte ci si adopererà per dimostrare che, fin dal suo atto di nascita, il neoliberalismo segna una distanza, se non una netta frattura, con la versione dogmatica del liberalismo affermatasi nel XIX secolo. Il fatto è che la gravità della crisi di questo dogmatismo spingeva a rivedere esplicitamente e consapevolmente l'antico adagio del laissez-faire. Anche in questo caso, l'impegno di una rifondazione intellettuale del liberalismo non porta a una dottrina integralmente unitaria. Fin dal convegno Walter Lippmann del 1938, infatti, si distinguono due grandi correnti: l'ordoliberalismo tedesco, i cui principali esponenti sono Walter Eucken e Wilhelm Röpke, e la corrente austro-americana, rappresentata da Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek.

Nella terza parte si potrà infine stabilire che la razionalità neoliberista, sviluppatasi propriamente nel decennio 1980-1990, non è una mera applicazione della dottrina elaborata negli anni Trenta. [..] Non si tratta di un'azione monocausale (dall'ideologia verso l'economia o viceversa) ma di una molteplicità di processi eterogenei che hanno portato [..] a questo effetto globale che è la messa in opera di una razionalità governamentale. [29]

Qui mi occuperò solo della terza parte, iniziando dalle conclusioni. Le caratteristiche della ragione neoliberista secondo Dardot e Laval quattro:

1 Primo, al contrario di quello che affermano gli economisti classici, il mercato non è un dato naturale ma una realtà costruita, che come tale richiede l'intervento attivo dello Stato e la realizzazione di un sistema di diritto specifico. In questo senso, il discorso neoliberista non è direttamente connesso con un'ontologia dell'ordine commerciale. Perché lungi dal cercare la propria legittimazione in un certo «corso naturale delle cose», esso assume deliberatamente e apertamente il proprio carattere di «progetto costruttivista» [1].

2 Secondo, l'essenza dell'ordine di mercato non sta nello scambio, ma nella concorrenza, definita essa stessa come rapporto di disparità tra unità di produzione distinte, o «imprese». Costruire il mercato implica di conseguenza la generalizzazione della concorrenza come norma delle pratiche economiche. A questo proposito vanno riconosciute le conseguenze della prima lezione degli ordoliberali: la missione dello Stato, ben oltre il ruolo tradizionale di «guardiano notturno», è realizzare l'«ordine-quadro» a partire dal principio costituente della concorrenza, e poi vigilare sul quadro generale e verificare che tutti gli agenti economici le rispettino.

3 Terzo, e ancora più innovativo sia rispetto al primo liberalismo che al liberalismo «riformatore» degli anni 1890-1920, lo Stato non è solo un guardiano che vigila sul quadro, ma è esso stesso sottoposto nella propria azione alla norma della concorrenza. Seguendo l'ideale di una «società di diritto privato», non c'è ragione per cui lo Stato dovrebbe far eccezione alle regole di diritto che deve far applicare. Al contrario, qualsiasi forma di autoesenzione o autoderoga da parte sua non può che squalificarlo dal ruolo di guardiano inflessibile di tali regole. Dal primato assoluto del diritto privato risulta uno svuotamento progressivo di tutte le categorie del diritto pubblico, disattivato a livello operativo senza essere smantellato formalmente. Lo Stato oramai è tenuto a considerarsi come un'impresa, sia nel suo funzionamento interno che nelle sue relazioni con gli altri Stati. Così lo Stato, cui è affidata la costruzione del mercato, deve al tempo stesso costruirsi secondo le norme del mercato.

4 Quarto, l'esigenza di universalizzazione della norma della concorrenza [..] tocca direttamente gli individui nel loro rapporto con se stessi. La «governamentalità imprenditoriale», che deve prevalere al livello dell'azione statale, trova un naturale prolungamento nel governo di sé dell'«individuo-impresa». Ovvero, più correttamente, lo Stato imprenditoriale, come gli attori privati della governance, deve condurre indirettamente gli individui a gestire se stessi come imprenditori. La modalità governamentale propria del neoliberismo comprende dunque «l'insieme delle tecniche di governo che oltrepassano l'azione statale in senso stretto, e organizzano il modo di gestire se stessi degli individui»5. L'impresa è promossa al rango di modello di soggettivazione: siamo tutti imprese da gestire e capitali da far fruttare.

In conclusione Dardot e Laval sostengono che l'estensione del dominio della concorrenza ed i suoi effetti sono elementi negativi, che conducono al degrado dello stessa concezione di cittadinanza.

Al di là della modalità di gestione e dei suoi strumenti tecnici, è il rapporto tra governanti e governati a essere radicalmente sovvertito. La concezione di cittadinanza quale si è costituita nei paesi occidentali a partire dal XVIII secolo è rimessa in discussione fino alle sue radici. Lo si vede in particolare dalle discussioni sulle pratiche di quei diritti che venivano finora con la cittadinanza, a cominciare dalla previdenza sociale, e che storicamente sono stati riconosciuti come conseguenze logiche della democrazia politica. «Non ci sono diritti senza nulla in cambio», dicono per obbligare i disoccupati ad accettare un impiego degradato, per far pagare malati e studenti per un servizio il cui beneficio è considerato strettamente individuale, per condizionare i sussidi per le famiglie alle forme considerate più opportune di percorsi formativi per genitori. L'accesso a un certo numero di beni e di servizi non è più legato a uno statuto che comporta determinati diritti, ma è il risultato di una transazione tra una prestazione e un comportamento conforme alle aspettative o un costo diretto per l'utente.

L'idea stessa che la democrazia si identifichi con la sovranità del popolo è messa qui in discussione. Per Hayek si tratterebbe di una confusione tipicamente «costruttivista» tra l'origine della scelta dei rappresentanti e il campo di esercizio legittimo del potere: la dottrina della sovranità popolare giunge necessariamente a riconoscere al governo il diritto di intervenire illimitatamente negli affari della collettività, in balia delle maggioranze elettorali. [..] Il valore supremo è dunque la libertà individuale, intesa come facoltà dell'individuo di crearsi un dominio protetto (la «proprietà»), e non la libertà politica come partecipazione diretta degli uomini alle scelte dei loro dirigenti. L'essenziale è che la riduzione della democrazia a una modalità tecnica di designazione dei governanti permette di non vedervi altro che un regime politico distinto dagli altri e, in questo senso, apre la via alla relativizzazione dei criteri di differenziazione comunemente ammessi quando si classifica un regime politico. Se, al contrario, si ritiene che la democrazia si basi sulla sovranità popolare, diventa evidente che il neoliberalismo in quanto dottrina è, non accidentalmente ma essenzialmente, antidemocrazia. È proprio questo che lo separa in modo irriducibile dal liberalismo di un Bentham, partigiano, come è noto, della democrazia radicale.

L'analisi è tutto sommato corretta, sebbene incompleta, a mio avviso. Come mostrerò oltre l'estensione del dominio della concorrenza può avere effetti imprevedibili, qualora riguardi il nucleo stesso della ragione liberista e cioè la libertà di scegliere la legislazione alla quale essere sottoposti.

Se ci deve essere concorrenza, e per motivazioni che riguardano la razionalità sociale si ritiene che essa debba essere estesa a tutti i livelli dell'agire umano, allora deve comprenderne tutti, proprio tutti, i livelli, anche quello che riguarda la legislazione. Non in modo virtuale, una volta per tutte nella mente del legislatore universale, come kantianamente vorrebbe Rawls, ma singolarmente, individuo per individuo.

Prima di proseguire nella teorizzazione della secessione legislativa ho estratto dal libro di Dardot e Laval, attraverso una serie di citazioni, gli elementi di una narrazione della grande svolta convervatrice. Chi lo desideri può passare direttamente alle conclusioni oppure soffermarsi sulla narrazione rivolgendosi direttamente al libro.

La grande svolta conservatrice

Gli anni Ottanta sono segnati in Occidente dal trionfo di una politica che è stata definita al tempo stesso conservatrice e neoliberista. I nomi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher sono il simbolo della rottura con il welfarismo della socialdemocrazia e dell'avvio di nuove politiche che avrebbero dovuto domare l'inflazione galoppante, il calo dei profitti e il rallentamento della crescita. [..] La politica della domanda volta a sostenere la crescita e a realizzare la piena occupazione fu il bersaglio principale di questi governi, per i quali l'inflazione era diventata il problema prioritario. [..] L'unica «grande svolta», insomma, sarebbe l'avviamento generale di una nuova logica normativa capace di integrare e riorientare stabilmente politiche e comportamenti in una nuova direzione. Andrew Gamble ha riassunto il nuovo corso nella formula: «Economia libera, Stato forte». L'espressione ha il merito di sottolineare che non ci troviamo di fronte a una semplice ritirata dello Stato, ma a un rinnovato impegno politico dello Stato, fondato su nuove basi, nuovi metodi e nuovi obiettivi.

Una nuova regolazione attraverso la concorrenza

Ci sono due modi di fraintendere il senso della «grande svolta». Il primo consiste nel farla derivare esclusivamente da trasformazioni economiche interne al sistema capitalista. Si isola così artificialmente la dimensione di reazione-adattamento a una situazione di crisi. La seconda consiste nel vedere nella rivoluzione neoliberista l'applicazione deliberata e concertata di una teoria economica, privilegiando il più delle volte quella di Milton Friedman. [..] In realtà, l'assestamento della norma mondiale della concorrenza ha avuto luogo tramite l'innesto di un progetto politico su una dinamica endogena, allo stesso tempo tecnologica, commerciale e produttiva. [..] Il programma politico di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, imitato poi da un gran numero di governi e rilanciato dalle grandi organizzazioni internazionali come il Fmi o la Banca mondiale, si presenta dapprima come un insieme di risposte a una situazione giudicata «ingestibile». Questa dimensione di reazione propriamente detta è perfettamente evidente nel rapporto della Commissione Trilaterale [8] intitolato The Crisis of Democracy, un documento chiave che testimonia la coscienza dell'«ingovernabilità» delle democrazie, condivisa da molti dirigenti dei paesi capitalisti [9]. Gli esperti chiamati a formulare una diagnosi nel 1975 constatavano che i governanti erano diventati incapaci di governare a causa dell'eccessiva implicazione dei governati nella vita politica e sociale. Al contrario di Tocqueville o di Mill che deploravano l'apatia dei moderni, i tre relatori della Commissione Trilaterale, Michael Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, lamentano l'eccesso di democrazia comparso negli anni Sessanta, ovvero a partire dalla crescita delle rivendicazioni egalitarie e del desiderio di partecipazione politica attiva delle classi più povere e marginalizzate. Ai loro occhi la democrazia politica può funzionare normalmente solo con un certo grado di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi [10]. Abbracciando i temi classici dei primi teorici neoliberisti, arrivavano a reclamare che si riconoscesse che «ci sono pure limiti potenzialmente auspicabili all'ampliamento indefinito della democrazia politica» [11].

Dalla fine degli anni Sessanta, tuttavia, il modello «virtuoso» della crescita fordista incontra dei limiti endogeni. Le imprese conoscono allora un calo molto sensibile dei tassi di profitto [14]. La caduta della «redditività» si spiega con il rallentamento dei guadagni di produttività, dovuto al rapporto tra le forze sociali e alla combattività dei salariati (che è la caratteristica storica del '68), alla forte inflazione amplificata dalle due crisi petrolifere del 1973 e del 1979.

La stagflazione sembra allora firmare l'atto di morte dell'arte keynesiana di «pilotare la congiuntura», che presupponeva un arbitraggio tra inflazione e recessione. La coesistenza dei due fenomeni, forte tasso d'inflazione e tasso di disoccupazione elevato, sembra screditare razione benefica della spesa pubblica sul livello della domanda e il livello d'attività, che parte dal livello di occupazione.

La deregolamentazione del sistema internazionale messa in atto nel secondo dopoguerra costituirà nel contempo un fattore supplementare di crisi. La fluttuazione generale delle monete a partire dal 1973 apre la strada a un'accresciuta influenza dei mercati sulle politiche economiche e, in un nuovo contesto, l'apertura crescente delle economie mina le basi del circuito autocentrato «produzione-reddito-domanda».

La nuova politica monetarista si sforza per rappunto di rispondere ai due problemi maggiori rappresentati dalla stagflazione e dal potere di pressione esercitato dalle organizzazioni di salariati. Si è trattato, rompendo l'indicizzazione dei salari sui prezzi, di trasferire il prelievo operato dalle due crisi petrolifere sul potere d'acquisto dei salariati a beneficio delle imprese. I due assi principali del rivolgimento della politica economica, alla fine degli anni Settanta, saranno la lotta contro l'inflazione galoppante e il ristabilimento dei profitti. L'aumento brutale dei tassi d'interesse ha permesso, al prezzo di una grave recessione e di un'impennata della disoccupazione, di lanciare una serie di offensive contro il potere sindacale, di ridurre le spese sociali e le imposte, e di favorire la deregolamentazione. Gli stessi governi di sinistra si convertirono a una tale politica monetarista all'inizio degli anni Ottanta, come dimostra in modo esemplare il caso della Francia.

Per un altro «circolo virtuoso», l'innalzamento dei tassi d'interesse si è ripercosso sulla crisi del debito nei paesi latinoamericani - in particolare il Messico - nel 1982, offrendo l'occasione al Fmi di imporre [..] piani di aggiustamento strutturale che presupponevano profonde riforme.

C'è in effetti una certa falsa ingenuità nel deplorare la potenza del capitalismo finanziario in opposizione alla forza declinante degli Stati. Il nuovo capitalismo è profondamente legato alla costruzione politica di una finanza globale governata dal principio della concorrenza generalizzata. [..] negli anni Ottanta, con le riforme di liberalizzazione e di privatizzazione, lo Stato stesso ha dato vita a una finanza di mercato in luogo di una gestione più amministrata dei finanziamenti bancari alle imprese e alle famiglie. Ricordiamo che dagli anni Trenta agli anni Settanta il sistema finanziario era inquadrato da regole che miravano a proteggerlo dagli effetti della concorrenza. A partire dagli anni Ottanta, le regole cui continuerà a essere soggetto subiscono una brusca inversione, e mirano ora a regolamentare la concorrenza generale tra tutti gli attori della finanza su scala internazionale [24]. La Francia offre un buon esempio di questa trasformazione. Sono stati i governi francesi ad avviare lo smantellamento della gestione amministrata del credito: soppressione dell'inquadramento legale, rimozione del controllo dei cambi, privatizzazione delle istituzioni bancarie e finanziarie.

Il modello dell'impresa

L'interventismo neoliberista non mira a correggere sistematicamente «le falle del mercato» in funzione di obiettivi politici ritenuti auspicabili per il benessere della popolazione. Mira prima di tutto a creare situazioni di messa in concorrenza che avvantaggerebbero, si presume, i più «adatti» e i più forti, e ad adeguare gli individui alla competizione, considerata la fonte di ogni beneficio.

Non che il mercato sia sempre preferibile alla gestione pubblica: piuttosto i «fallimenti dello Stato» sono considerati più dannosi di quelli del mercato. E dunque si guarda alle tecnologie del management privato come a rimedi, più efficaci delle regole di diritto pubblico, contro i problemi della gestione amministrativa.

Sotto questo punto di vista, l'esempio britannico è notevole. Come sottolineato da Jack Hayward e Rudolf Klein,

quello che era cominciato come un ritorno a un'opinione che evocava il XVIII secolo, secondo la quale «governare meglio vuol dire governare meno», si è trasformato progressivamente in una ricerca dell'efficienza manageriale fondata sulla sostituzione dei metodi delle imprese private (pur non celebri per la loro efficienza in Gran Bretagna) a quelli dell'amministrazione pubblica [24].

Per i nuovi conservatori non bastava porre dei freni automatici alla crescita della spesa pubblica: bisognava modificare in profondità la modalità di gestione dell'azione statale. Il thatcherismo ha lanciato, insieme a un rifacimento di stampo manageriale delle modalità di gestione, un movimento profondo di ricentralizzazione amministrativa a spese delle collettività locali, seguendo una tendenza nettamente contraria ai principi dottrinali di certi neoliberali favorevoli al decentramento del potere. La funzione pubblica è stata divisa, così, tra agenzie indipendenti che perseguono obiettivi specifici e sono governate da norme stabilite dal «centro di pilotaggio», esposte alla concorrenza e sottomesse alle decisioni «sovrane» dei consumatori. Si trattava in questo caso di rimpiazzare un'amministrazione che rispondeva ai principi del diritto pubblico con una gestione governata dal diritto comune della concorrenza.

Negli anni Ottanta si da la priorità all'impresa, vettore di qualsiasi progresso, condizione della prosperità e portatrice, almeno all'inizio, di occupazione. Il culto dell'impresa e dell'imprenditore non riguarda soltanto le lobby del padronato e i dottrinari. Le stesse élite amministrative, gli esperti di gestione, gli economisti, i giornalisti asserviti e i responsabili politici la celebrano tutti i giorni e in quasi tutti i paesi. L'omogeneizzazione ideologica si coniuga con l'internazionalismo delle economie: la competitività diventa una priorità politica nel contesto dell'«apertura». Di fronte all'impresa, concentrato di ogni virtù, lo Stato previdenziale è presentato come un fardello, freno della crescita e fonte di inefficienza [25].

L'obiettivo di «ricacciare indietro lo Stato previdenziale» parola d'ordine del thatcherismo, origina tutto un insieme di convinzioni e di pratiche, il managerialismo, che si presenta come rimedio universale a tutti i mali della società, ridotti a problemi di organizzazione che si possono risolvere tramite tecniche che tendono sempre all'efficienza. Il managerialismo, naturalmente, mette il manager e il suo sapere in una posizione eminente, facendone un vero e proprio eroe dei tempi moderni [26].

Il postulato della nuova governance è che il management privato sia sempre più efficace dell'amministrazione pubblica, e che il settore privato sia più reattivo, più flessibile, più innovatore, tecnicamente più efficace perché meglio specializzato, meno sottomesso alle regole granitiche del settore pubblico. Abbiamo visto più sopra che il fattore principale di questa superiorità risiede per i neoliberisti nell'effetto disciplinante della concorrenza come stimolatore di prestazioni. L'ipotesi è alla base di tutte quelle misure che mirano a esternalizzare verso il settore privato interi servizi pubblici o singoli segmenti di attività, o a moltiplicare i rapporti di associazione contrattuale con il settore privato (ad esempio sotto forma di «partenariato pubblico-privato»), o ancora a stabilire legami sistematici di out-sourcing tra amministrazioni e imprese. Lo Stato «regolatore» intrattiene relazioni contrattuali per la realizzazione di obiettivi determinati con imprese, associazioni o agenzie pubbliche che godono di autonomia di gestione [27].

La concorrenza al centro dell'azione pubblica

La concorrenza è la parola d'ordine della nuova gestione pubblica. In questo senso, essa traduce il dogma friedmaniano:

Il pericolo più grande per il consumatore è il monopolio, sia privato che pubblico. La sua protezione più efficace è la libera concorrenza all'interno e il libero scambio in tutto il mondo. La protezione del consumatore dallo sfruttamento da parte di un venditore è data dall'esistenza di un altro venditore dal quale egli può comprare e che è desideroso di vendere a lui. Fonti alternative di offerta proteggono il consumatore molto più efficacemente di tutti i Ralph Nader del mondo [53].

Se razione pubblica deve adeguarsi a una «politica di concorrenza», lo Stato stesso deve trasformarsi in un attore messo in concorrenza con altri, soprattutto sul piano mondiale. Si tratta di condurre contemporaneamente due operazioni omogenee quanto alle categorie coinvolte: da una parte costruire mercati il più possibile competitivi nella sfera commerciale, dall'altra far intervenire la logica della concorrenza nel quadro stesso dell'azione pubblica. La concorrenza si trova così alla base della liberalizzazione delle industrie di rete, come le telecomunicazioni, l'elettricità, il gas, le ferrovie o la posta, liberalizzazione che, senza essere confusa con la privatizzazione o la deregolamentazione, è un valido esempio delle nuove forme di intervento pubblico, che creano situazioni di mercato o semi-mercato in settori considerati monopolistici o rispondenti a criteri estranei alle considerazioni di costo. Per riprendere il titolo del libro di Kirzner, concorrenza e spirito d'impresa sono le due parole d'ordine della pratica governamentale neoliberista [54].

Uno dei primi provvedimenti importanti del governo Thatcher fu la realizzazione del Compulsory Competitive Tendering (Cct), un sistema che rendeva obbligatoria una gara d'appalto concorrenziale per qualsiasi fornitura di servizi locali, e prevedeva la scelta dell'offerta più competitiva in base ai criteri del Value for Money, mettendo così in concorrenza le imprese private e le collettività locali [55].

L'istituzionalizzazione della competizione è ritenuta uno stimolo alla migliore realizzazione delle finalità attribuite ai servizi pubblici, attraverso la riduzione dei costi e la maggiore soddisfazione dei clienti che scelgono liberamente il fornitore. Questo presuppone che la forma della prestazione, pubblica o privata, non ne influenzi il contenuto e l'effetto. Migliorando l'efficienza dei servizi pubblici, la politica della scelta darebbe loro una nuova legittimità. L'idea è centrale nella retorica della sinistra moderna, come sottolinea Tony Blair.

La scelta è un principio fondamentale del nostro programma. Ce ne vuole molta di più, non solo tra coloro che offrono servizi pubblici, ma all'interno di ciascun servizio. Ovunque sia possibile, la scelta migliora la qualità del servizio erogato ai più poveri e aiuta a lottare contro le disuguaglianze, rafforzando allo stesso tempo l'attaccamento delle classi medie a un servizio collettivo. Questo significa, nel campo dell'istruzione, la scelta tra diverse scuole, perché i genitori possano scegliere più spesso un istituto che risponde pienamente ai bisogni del figlio [56].

La realtà è diversa: la «libera scelta» è tuttaltro che egalitaria, dal momento che non tutte le famiglie hanno i mezzi per esercitarla a parità di condizioni, come dimostrato da numerosi studi nell'ambito scolastico [57].

La concorrenza dev'essere anche alla base della «gestione delle risorse umane». La costituzione di mercati interni di beni e di servizi è accompagnata dalla messa in concorrenza degli agenti stessi all'interno del settore pubblico. Il nuovo management pubblico produce una mutazione profonda nei vecchi sistemi di valutazione e remunerazione, verso giudizi incentrati sulla prestazione individuale e incentivi finanziari personalizzati. I manager a capo dei servizi saranno dunque valutati ex post e non più ex ante, a seconda del raggiungimento degli obiettivi che erano loro assegnati. Valutando a loro volta i propri sottoposti, i servizi e le amministrazioni assomigliano più che mai a lunghe catene di sorveglianza e di controllo della prestazione individuale [58]

Il performance management partecipa di una sorta di «defunzionarizzazione» del servizio pubblico, alcuni aspetti del quale sono rassottigliamento o la soppressione delle regole di diritto pubblico cui i funzionari dovevano conformarsi, la sostituzione dei concorsi di ruolizzazione con contratti di lavoro di diritto privato, la mobilità tra servizi e tra settore pubblico e privato, la possibilità del licenziamento di funzionari giudicati incompetenti [59]. Se la tradizionale dimensione statuaria del pubblico impiego è messa in discussione, siamo tuttavia lontani, come si vedrà più avanti, da qualsiasi «deburocratizzazione».

Tende a realizzarsi un nuovo modello di condotta degli agenti pubblici: il governo imprenditoriale. Esso si basa sui principi del performance management e adopera strumenti importati dal settore privato indicatori di risultato e gestione della motivazione tramite un sistema di incentivi — che permettono un «governo a distanza» dei comportamenti. Tale governo presuppone uno stretto controllo del lavoro degli agenti pubblici tramite una valutazione sistematica, e la loro subordinazione alla domanda di «cittadini-clienti» chiamati a esercitare la propria capacità di scelta di fronte a un'offerta diversificata, secondo il principio del «pilotaggio della domanda». La strategia ha una doppia natura, finanziaria e normativa. Permette di far contribuire direttamente l'utente al costo del servizio, «responsabilizzandolo» finanziariamente e facendo corrispondere un calo della pressione fiscale, e modifica allo stesso tempo il comportamento del «consumatore» di servizi pubblici, stimolato a regolare la propria domanda. Il libro che meglio di ogni altro ha riassunto l'insieme delle caratteristiche della nuova pratica governamentale è il best-seller [60] di David Osborne e Ted Gaebler, Reinventing Government, uscito nel 1992. Per i due autori, non esiste nella storia una forma di governo fissa. Così come il New Deal ha rinnovato le forme dell'azione pubblica, si deve oggi inventare un nuovo governo, adattato al «nuovo mondo» dell'era dell'informazione, della globalizzazione e della «crisi fiscale» [61].

La produzione dei servizi pubblici deve obbedire alla stessa regola che presiede alla riorganizzazione delle imprese: riduzione delle dimensioni, concentrazione su un «mestiere», aumento della qualità, decentramento dell'autorità, livellamento della linea gerarchica [62]. Non si tratta più tanto di modificare in positivo o in negativo i volumi di spesa, quanto di reinventare le politiche e gli organismi pubblici. Viviamo un'epoca, scrivono, in cui bisogna abbandonare la formula burocratica weberiana per passare a un modello post-weberiano. L'espressione con cui riassumono la loro teoria è «governo imprenditoriale» [63].

I due autori non intendono proporre un nuovo modello personalmente ideato, ma sostengono di descrivere semplicemente ciò che è in atto negli Stati Uniti stessi. Ai loro occhi, la reinvenzione del governo imprenditoriale è un processo che si è avviato quando gli elettori californiani votarono il 6 giugno 1978 la celebre proposition 13 che dimezzò le tasse locali sulla proprietà. La «rivolta fiscale» si estese a tutti gli Stati americani, finché Reagan non ne fece Passe principale della sua politica. Nel corso degli anni Ottanta, vedendo diminuite le proprie risorse, i sindaci e i governatori non poterono far altro che escogitare nuove modalità di organizzazione e incoraggiare i partenariati pubblico-privato. Sono le nuove pratiche ad aver permesso la nascita a livello locale di «governi imprenditoriali».

Questi ultimi obbediscono a dieci principi che sono analizzati in dettaglio dagli autori. La maggior parte dei governi imprenditoriali promuove la concorrenza tra fornitori di servizi. Tolgono potere alla burocrazia per restituirlo ai cittadini. Misurano le prestazioni delle loro agenzie concentrandosi non sulle risorse ma sui risultati. Si lasciano guidare dalla realizzazione di obiettivi, e non da regole e regolamenti. Considerano gli utenti come consumatori e offrono loro la possibilità di scegliere scuola, programmi di formazione, tipi di abitazione. Prevengono i problemi prima che si presentino, anziché accontentarsi di offrire servizi di riparazione, Si impegnano a evitare le spese, piuttosto che a trovare fondi. Decentralizzano l'autorità, favorendo la gestione partecipativa. Preferiscono i meccanismi del mercato a quelli della burocrazia. Non si concentrano solo sulla fornitura di servizi pubblici, ma sull'azione concreta in tutti i settori - pubblico, privato o associativo - per risolvere i problemi della comunità [64].

Non si dovrebbe confondere il governo imprenditoriale qui descritto nei suoi diversi aspetti, scrivono Osborne e Gaebler, con il free market dei conservatori: «Strutturare il mercato per conseguire uno scopo collettivo, infatti, è l'esatto opposto di lasciare tutto al "libero mercato": è una forma di interventismo sul mercato"'. A ogni modo, aggiungono, non esiste un libero mercato, se si intende con questo un mercato libero da qualsiasi intervento governativo. Tutti i mercati legali sono strutturati secondo regole stabilite dai governi, a eccezione dei mercati neri controllati con la forza e governati con la violenza". La governance imprenditoriale, che utilizza le leve del pubblico per orientare le decisioni private verso scopi collettivi, permette di definire, secondo gli autori, una «terza via» tra il free market dei conservatori e i programmi burocratici del big government dei «liberali» (nel senso americano del termine).

Conclusione e riapertura del discorso

La strategia neoliberista che ha fatto della concorrenza fra gli individui la sua unica ragione ha coinvolto anche l'amministrazione publica del bene comune, ma non la formazione delle leggi che, anzi, è stata tolta, sempre di più, dalla disponibilità dei cittadini.

Il concetto di democrazia rappresentativa si fonda nella sua essenza sulla concorrenza tra fazioni, partiti, gruppi cetuali, classi, élite. In questo ambito la strategia neoliberista ha consistito nel limitare la competizione. Quando è rivolta alla formazione delle leggi la competizione viene negata. Si è quindi legittimata la prassi dell'intervento dei grandi organismi internazionali, a costituzione non democratica, nella formulazione delle leggi degli stati.

In queste condizioni il ripristino della concorrenza negli strumenti di formazione delle leggi non deve però essere rivolto alla semplice manutenzione della democrazia rappresentativa e anche il principio maggioritario deve necessariamente essere superato.

L'obiettivo di chi vuole un'alternativa al neoliberismo non può essere meno concorrenza, come sott'intendono Dardot e Laval, ma ancor più concorrenza. Ovvero la concorrenza deve entrare anche nella scelta della legislazione. Nessuno dovrebbe essere sottoposto ad una legislazione che non ha scelto. Quando ciò avverrà si metteranno a confronto e quindi in concorrenza tutte le legislazioni possibili.

Sono consapevole che, almeno in apparenza, si tratta di un superamento del neoliberismo nel senso del neoliberismo, cioè andando oltre nel senso dell'individuo e dei gruppi e non della Communitas universalis, ma non vedo alternative migliori. Troppe volte l'idea di comunità è stata usata dagli individui contro gli individui.

MP

Bibliografia

Pierre Dardot, Christian Laval
- La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, tr. Riccardo Antoniucci e Marci Lapenna, Derive Approdi, Roma, 2013
- La Nouvelle Raison du monde. Essai sur la société néolibérale, La Découverte, Paris, 2009